martedì 7 ottobre 2008

Un'intervista al poeta e pittore Toti Scialoja

UNA RAPIDA LUCE SEGRETA

Cadrà più tardi nel puro respiro
dei veri volti solo un riflesso.

Rainer Maria Rilke



Anch’io, come un fiore - pensavo - niente altro che un fiore non coltivato, obbedisco alla necessità che mi vuole preso dalla lietezza che succede allo scoraggiamento. Poi certo verrà ancora qualcosa che mi offenderà e mi massacrerà: ma anche per me, come per i fiori delle altre primavere, il passato si confonde con il presente, e un prato è qui, e, insieme, nel cosmo...

Come negli umili, azzurrini fiori nel secondo canto de “La Divina mimesis” di Pasolini (dopo alcuni memorabili libri per bambini - ma non solo per bambini - e preparato il terreno con “Rapide e lente amnesie”), nei versi dell’ ultimo libro di Toti Scialoja, “Le costellazioni”, uscito da Marsilio nel 1997, si materializza davanti ai nostri occhi ad un tratto, struggente e inaspettata, l’immagine intera della nostra, di ogni vita. Un libro, in un certo senso, “definitivo” in cui l’autore sembra davvero rispondere, senza volerlo ma in piena consapevolezza, alla richiesta di Celan di dire “la parola ultima”. Ma tutto questo avviene, qui, naturalmente, senza nessuna forzatura. Sembra quasi, anzi, che sia la stessa vita a parlare, attraverso l’autore, per raccontarsi presentendo la vicinanza del silenzio - non più rimandabile - verso cui è destinata. Non ci sono e non ci saranno altre parole possibili al di là di queste. Ogni accadimento, anche il minimo, allora diventa significativo; si perde, definitivamente, ogni distinzione tra alto e basso, grande e piccolo, oggi e ieri, e tutto - nel suo apparire e scomparire - influenza reciprocamente tutto il resto, come accade nella poesia “Tobiolo”:

Distaccata dall’amo la tinca cominciò a dimenarsi
sull’erba a folli sobbalzi decisa a non darsi per vinta
disse l’arcangelo: “assisti a una rara agonia stellare
Tobiolo caro ogni salto di questa scatenata tinca
fa esplodere in fondo al cosmo nuovissime costellazioni.

E sembra di ritrovare qui, in altre forme insperatamente, per un momento, lo spirito che intride allo stesso modo gli ultimi, alti momenti lirici del greco Rìtsos, in cui nell’osservazione della più opaca quotidianità un gesto qualsiasi spalanca dinnanzi a noi, di colpo, il mistero della poesia:

E ritrovi ancora il tempo indifferentemente utile,
recidi con significazione una foglia, getti una parola
nel pozzo oscuro e ignori del tutto
se starà a galla o passerà dall’altra parte. Uomini
frettolosamente attraversano le strade, acquistano carne,
camicie, frutta, buste di carta, fiammiferi. Le donne
provano davanti agli specchi cappelli estivi,
hanno frequenti emicranie, mangiano uva grossa,
un chicco cade sul pavimento: - non calpestarlo: la poesia.

Non esiste poesia senza attenzione, senza veglia, perché non sappiamo “né il giorno né l’ora”, né sotto quale veste la vita, il suo volto segreto si riveli. Non esiste poesia senza preparazione perché, nel suo improvviso rivelarsi, non si sia impreparati ad accoglierla, a riconoscerne immediatamente il vero volto tra i tanti volti illusori che si presentano. Come qualcuno che aspettiamo ignorandone i lineamenti ma la cui l’attesa ce li ha resi in qualche modo famigliari e, al momento del suo arrivo, senza esitazioni, riconosciamo tra mille. Come la memoria, improvvisamente affiorante, di qualcosa che avevamo dimenticato.
Sono versi, gli ultimi del grande pittore e poeta romano, in cui turbina il pulviscolo luminoso delle esperienze passate fondendosi alla vita attuale, non meno fantasmatica delle figure che riemergono, dal fondo del tempo, come apparrizioni abbaglianti, impalpabili ma non meno presenti e vive di quelle presenti:

Apparisti sulla soglia vestita di velluto viola
non annebbiata dal viola ma resa meno visibile
venivi soltanto avanti come quella che si rivela
confusa dal viola e il suo modo svenato di impallidire
col passo di chi attraversa qualunque promessa violata.

Così ti ho vista ad un tratto svincolata da ogni segreto
venire avanti in visita rivestita del tuo respiro
il viola esausto svaniva per istanti dentro il velluto
volgesti il volto attirata dal folgorante mazzo d’iris
sollevasti le braccia decapitata dagli iris.

I giochi verbali delle prime raccolte, di fronte al mistero della morte, di una vita che giunta al suo termine si interroga su se stessa, vengono sostituiti dall’adozione di una forma metrica antica, nata dalla suggestione suscitata dalla lettura di un raro esempio pascoliano.
La necessità di un altro ritmo, nell’urgenza d’incanalare in una forma il fluire delle memorie, si afferma imponendo un netto cambiamento di direzione. Il nitore assoluto, la struttura precisa diventano quindi - anche - una forma di resistenza all’oblio, al sfibrarsi del ricordo in cui tutto diventa indistinto, chiedendo, come al bianco dei platani in un’altra poesia,

di non confondersi con la grande bianca dimenticanza.


***


Al ricordo, mentre l’anno dopo l’estate comincia a rinchiudersi in sé, non sono mai riuscito a non associare i primi giorni di settembre. Giorni pervasi da quel fulgore dolce, come un sussulto ultimo di luce, che precede l’avvento del gelo. Fuori, oltre l’acqua del canale agitata dalle immersioni delle folaghe, il rumore dei trattori si fondeva con quello dei secchi d’uva svuotati in rapida successione sui carri ricoperti da teloni color blu e giallo acceso. Una mattina dorata traspariva tra le foglie, i grappoli maturi, accerchiati da vespe ronzanti, dimenticati sui filari. Dipingevo con le porte della vetrata dello studio aperte sul giardino; il sole riscaldava senza bruciare. Sentii in casa squillare il telefono; riposi i pennelli in fretta e, con le mani ancora sporche di colore, mi precipitai a rispondere. La voce era una voce anziana, cortese e signorile, sospesa tra un’inattaccabile apertura e curiosità ed un consapevole, saggio distacco dalle cose. Avevo lasciato sulla sua segreteria un messaggio, nella speranza lontanissima di essere richiamato, ed ora, dopo un po’ di tempo, Scialoja mi stava parlando. Registrai quelle parole, tra le sue ultime trascritte, penso. Estrema, lucida testimonianza, l’intervista che segue, rilasciata pochi mesi prima della sua morte, avvenuta ad 84 anni il 1° marzo 1998, difatti non è stata nemmeno riveduta dall’autore. Non c’è stato il tempo. Scialoja, seppure molto affaticato, aveva promesso (una volta ripresosi dal malessere che lo affliggeva) di ricorreggerla e di aggiungervi, se lo avesse ritenuto necessario, qualche ulteriore precisazione.

Le superfici costellate di impronte piatte di colore, il privilegiare l’aspetto ritmico, musicale, spesso anche al di là del senso logico, nei suoi ormai numerosi libri di poesia: la sua opera si sdipana nel tempo come una serrata meditazione intorno ad un approccio alla realtà libero, come ha più volte ripetuto, da ogni prospettiva metafisica, in cui la bidimensionalità, attraverso l’abolizione della lontananza e della profondità, diviene la chiave per accedere ad un’altra visione dell’esistenza....

Per me la superficie è lo spazio che comprende le cose, le accetta come tali. Le cose sono corpi, i corpi sono tridimensionali. L’idea di tridimensionalità, però, introduce anche l’idea di prospettiva, di lontananza. Di un corpo che fugge verso il lontano. La prospettiva, che nasce a Firenze nel Quattrocento, l’idea della prospettiva, la prospettiva ottica, la prospettiva geometrica, plastica, in tutti i modi, è sempre un’allusione al lontano, alla lontananza. E non solo un’allusione, ma addirittura una precisazione, una numerazione della lontananza con cui poter catalogare, diciamo, l’allontanamento dei corpi nello spazio. Questa idea del corpo che si allontana è un’idea collegata ad una visione metafisica dell’esistenza. Ad un’assunzione dello spazio che tende, in modo quasi matematico, scientifico, alla dimostrazione di Dio, poichè all’infinito, in lontananza c’è, poi, questo mistero. Non credere nella prospettiva significa credere in una spazialità bidimensionale, dove la lontananza non esiste.
La metafisica si allontana dalla superficie. Invece l’idea della bidimensionalità, l’abolizione della prospettiva, significa credere nella vita in questo momento, nel presente, qui e ora, hic et nunc, proprio ora. Non è rimandabile questa presenza, non è allontanabile e, quindi, in questo modo, la vita esistenziale deve essere vissuta momento per momento. E non ci sono altro che questi momenti. Niente da allontanare, niente da rimandare. Tutto è presente e dev’essere vissuto nel momento in cui va vissuto.
Per cui non c’è un’altra vita, un rimando a qualche altra cosa, a un assoluto astratto. Nessun addio, nessuna lontananza, tutto è presente nella nostra coscienza. La bidimensionalità vuol dire questo.

Il legame tra le sue parole e la sua opera pittorica appare evidente. Come si rapporta, partendo da questo discorso, invece al fare poetico?

La poesia è un giuoco. E’ - anche - un giuoco. La poesia è sonorità, fonemi, altrimenti sarebbe prosa. La poesia è un altro modo di esprimersi, non attraverso le parole della prosa, cioè della conoscenza. E’ un modo di esprimersi, invece, attraverso le parole della non conoscenza, della follia, del sogno, dell’evasione, del nulla, del rapporto con la morte, con la vita.
Le parole della poesia sono così, allora, perchè sono canto, sono suono. La poesia del resto è sempre stata un canto. E’ nata come un canto ripetuto, pieno di assonanze, perchè potesse essere memorizzato da chi lo ascolta, nelle cantilene, nelle novene. La poesia è come un “ora pro nobis” e, quindi, giuoca essenzialmente sull’alliterazione, sulla rima. E che cos’è la rima se non un giuoco fonetico? La rima è una specie di droga, di allucinogeno del pensiero del poeti. I concetti, i pensieri stessi allora, le immagini sorgono da questo bisogno di far rima. Penso che la bellezza di migliaia di momenti danteschi stia proprio in questa rima che inventa un mistero che altrimenti non sarebbe sorto.

Nei suoi ultimi lavori, accanto all’elemento giocoso, assistiamo anche all’emergere di una vena più malinconica, ad un uso sempre più rigoroso, severo dei propri strumenti espressivi...

Essere astratti è una cosa molto seria. Essere pittori astratti, espressionisti, di superficie, è una scelta morale, un’impostazione morale molto profonda.
Questo avviene anche nella poesia, in un certo senso, perché la poesia è nata come un giuoco, un giuoco che era rivolto a chi giuoca, e cioè ai bambini, che però mi ha fatto capire nella consuetudine il meccanismo della poesia più profonda. Allora mi sono abbandonato a questo strumento che avevo identificato, mi sono abbandonato con tutto me stesso, con la mia memoria, con i miei pensieri, con la mia situazione spirituale di fronte alla realtà.
Quindi, questa forma più impegnata, diciamo, ha coinciso con la mia età: i vecchi vogliono raccontare, raccontare la vita che hanno fatto, i loro ricordi, i pensieri lontani; e così la poesia ha avuto bisogno di un verso lungo, un verso lento, con cui io potessi proporre la mia memoria. Ed il verso più antico, più lento e più sublime è l’esametro, che ho scoperto leggendo i versi nella traduzione pascoliana di Omero.
Ho capito che quello era il mio metro: diciasette sillabe, due con cesura tra il primo e il secondo. In questo ritmo in andare, in questo cadenzamento proprio di chi racconta, con una respirazione lenta, che cosa c’è dentro? C’è tutto il mio pensiero, tutta la mia vita, le mie esperienze, le mie sofferenze, i miei amori.
La mia vita è quello che è. Nel ritmo lento dell’esametro appare, affiora.



Toti Scialoja è scomparso il 1° marzo 1998 a Roma, dov’era nato nel 1914. Pittore e scenografo, è stato uno dei più autorevoli esponenti dell’astrattismo europeo. Ha diretto l’Accademia di Belle Arti di Roma. La sua produzione poetica è raccolta in Amato topino caro (Bompiani,1971), Scarse serpi (Guanda, 1983) Le sillabe della Sibilla (Scheiwiller,1988), Versi del senso perso (Mondadori, 1989), I violini del diluvio (Mondadori, 1991), Rapide e lente amnesie (Marsilio,1994),Quando la talpa vuol ballare il tango (Mondadori, 1997) e Le costellazioni ( Marsilio, 1997).

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