mercoledì 26 agosto 2009

Tra arte e artigianato, note su un saggio di Gian Ruggero Manzoni





Ho letto con molto piacere un bel saggio, intitolato "REGRESSO ARTE A DIFESA DELL’ARTIGIANATO" di Gian Ruggero Manzoni. Un saggio che mi ha fatto ricordare e pensare a tante cose. Io sono nato in un piccolo paese bagnato dalle acque dell'Isonzo, nei pressi di Monfalcone, a Pieris, lo stesso del noto allenatore di calcio Fabio Capello per intenderci. Una regione di confine, che fino a novant'anni fa non faceva nemmeno parte dell'Italia. Verso la fine degli anni Settanta, inizi Ottanta in paese c'era un solo laureato, mi sembra, e qualche pittore. Tre o quattro. Tutti figurativi. Eravamo, non è difficile capirlo, tagliati fuori da tutto. O quasi. Io frequentavo la prima media e volevo, a tutti i costi, imparare a disegnare bene. Mi recai da uno di questi pittori, bravissimo, che vendeva quadri di nature morte in mezza Europa, e gli chiesi se poteva darmi delle lezioni. Mi disse che non aveva tempo ma, se mi andava bene, potevo mettermi vicino a lui e, di tanto in tanto, avrebbe dato un'occhiata a quel che facevo. Ricordo ancora i lunghi pomeriggi passati in quello studio avvolto in una luce soffusa, morbida, la stessa che permeava i suoi quadri, le pagine di antichi volumi, il mappamondo, i drappi davanti al giallo dorato dei vetri piombati che facevano da sfondo a quelle sue composizioni così precise, equilibrate, dove i contorni di ogni cosa si sfumavano l'uno nell'altro tra ombre fonde, cangianti luccichii ottenuti depositando, con la punta di martora, minuti grumi di bianco di zinco o titanio, giallo di Napoli sul fondo preparato con sapienti tocchi dei polpastrelli. Io avevo undici, dodici anni ed ero molto diligente. Mi impegnavo a fondo accettando tranquillamente i suoi metodi piuttosto severi. Anche se si trattava di un uomo buono. A quell'età i giochi stavano diventando parte del mio passato, avevo pochi amici e le mie coetanee non suscitavano in me ancora alcun interesse. Ero una spugna pronta ad assorbire, libero da ogni condizionamento, e l'unico mio pensiero fisso era quello di leggere e guardare i libri d'arte, disegnare e dipingere. Walter, così si chiamava e ancora per fortuna si chiama, mi disse senza mezzi termini che non si poteva dipingere senza saper disegnare. Con lui, per tre anni, non presi mai in mano un pennello. Solo molti anni più tardi mi resi conto, parlando con vecchi pittori e artigiani, che il mio primo maestro era forse uno degli ultimi pittori a portare avanti i metodi di insegnamento delle botteghe rinascimentali. Per un anno intero dovetti copiare delle semplici composizioni di piatti, bicchieri e brocche. Non potevo divertirmi provando ad ombreggiarli ma dovevo concentrarmi soltanto a riprodurre con precisione i rapporti di lunghezza, larghezza, altezza degli oggetti. Le linee di contorno, fossero rette, mezze curve od ellissi, dovevo imparare ad eseguirle con un unico tratto di matita. Cosa difficilissima anche perché impone di forzare la mano imprimendole, spesso, dei movimenti innaturali. La naturalezza, in arte, del resto si conquista superando i propri limiti, non assecondandoli travestendoli di spontaneit L'uso della gomma, quindi, era ridotto ai minimi termini; e solo per fare chiarezza nei primi, inevitabili grovigli di linee. Mi diceva sempre: "Non bisogna farsi distrarre dalla superficie degli oggetti, non serve a niente saper riprodurre esattamente la venatura di un legno o i riflessi su un vetro: bisogna capire, prima, le relazioni che esistono fra i vari oggetti e lo sfondo: questa è la composizione e la composizione sta alla base di tutto". Quel primo anno fu dedicato interamente a questo serrato dialogo tra il pieno ed il vuoto. Poi le lezioni continuarono e, via via, mi diede le prime nozioni di prospettiva, mi spiegò la teoria delle ombre fino al momento in cui, terminate le scuole medie, mi iscrissi all'Istituto Statale d'Arte di Gorizia. A cui approdai da disegnatore ormai smaliziato. Nel metodo di Walter non c'era nulla - apparentemente - di stimolante, creativo. Si trattava quasi di un percorso zen dove l'ego dell'individuo, con i suoi desideri, le sue fantasie, veniva messo per un momento a tacere per poter fuoriuscire finalmente al di fuori di sé e guardare il mondo in silenzio, con attenzione estrema. Riscoprire, al di sotto del caos delle emozioni, dei turbamenti che creano in noi le cose che vediamo, le strutture profonde della nostra realtà. Mi faceva capire che nessuna cosa è bella in sé ma soltanto se riesce ad instaurare un rapporto armonico con ciò che le sta attorno. Se vogliamo valorizzare davvero un diamante lo spazio che lo circonda non è meno prezioso del diamante stesso. Allo stesso modo equilibrati rapporti spaziali possono fare di un guscio di noce o di un pezzo di matita gemme non meno preziose e lucenti. Così noi, i nostri pensieri e le nostre azioni, che acquistano senso e profondità soltanto se cominciano un dialogo con lo spazio del mondo che sta fuori di noi.
A cosa mi fa pensare, dopo tanti anni, tutto questo? Che alla base del lavoro dell'artista ci dovrebbe essere forse, prima del bisogno di apparire grazie all'invenzione di cose nuove, il bisogno di capire il mondo, sempre, liberandosi dai condizionamenti del proprio io. Il nuovo non può che emergere da visioni nuove. Altrimenti, come oggi accade, l'arte rischia di trasformarsi in un'inquietante catena di montaggio di prodotti in apparenza sempre diversi (ma che in realtà non sono che collage di ciò che già sappiamo) per un pubblico che nessuna novità riesce più a saziare. Non un luogo dove porre domande e meditare su possibili risposte ma un'arena al cui interno, per soddisfare gli istinti più bassi degli spettatori, siamo costretti ad assistere ad una continua escalation di orrori. Con la complicità di critici che non visitano più gli studi dei giovani artisti, non conoscono spesso né la storia antica né le tecniche di cui dovrebbero parlare. Che dedicano saggi e mostre a smaliziati pubblicitari, senza alcuna preparazione artistica, presentati di volta in volta come artisti rivoluzionari, salvo dimenticarli all'apparire poi - su questo orizzonte avvelenato da mille speculazioni e riciclaggio di denaro - della nuova stella di turno.
Il mio primo maestro era dunque, per concludere, soltanto un'abile artigiano o un'artista? Distinzione superflua anche perché, oltre il metodo, c'era anche della poesia, vera, in molti suoi lavori. Comunque un tempo tutti erano abili artigiani e così tutti si consideravano anche se significativamente dalle mie parti gli artigiani, tutti gli artigiani dal decoratore al falegname, erano chiamati "artisti". Poi, è logico, da queste botteghe da cui uscivano centinaia, migliaia di ottimi pittori, scultori, stuccatori, doratori, ogni tanto emergeva anche qualche allievo particolarmente dotato, capace di aggiungere a schemi ormai consolidati qualcosa di suo, di nuovo. Simili, in questo, a squadre di atleti che migliorano di continuo i propri record fino ad ottenere risultati impensati. In questi grandi autori la novità era il naturale risultato di una ricerca di verità che portava a nuovi sconosciuti approdi. La ricerca della novità a tutti i costi rischia, se non ci sarà un'inversione di rotta, di far arenare gran parte degli autori contemporanei sulle spiagge di una fama tanto veloce da ottenere quanto esposta, pericolosamente, all'incessante erosione di ogni nuova marea.