martedì 7 ottobre 2008

Oh flama, oh scûr: la poesia di Ida Vallerugo

Oh flama, oh scûr


E domani svapora il nostro mare!
Paul Celan



Nel torbido chiarore del pomeriggio il cielo - di un grigio greve che ricordava l’argentea, sinistra opacità della pelle di squalo - si stendeva adesso come una minaccia sopra la campagna sigillata in un torpore ancestrale. Dai fasci bronzei dei salici sbiancati da raggi di luce livida, martoriati testimoni, i merli tracciavano con i loro canti confini invisibili d’aria. Canti da sempre cantati. Attraverso la notte, attraverso l’oscurità illuminata del giorno.
Da Monfalcone, avanzando lungo le strade deserte verso i monti della Carnia, l’automobile, con il ricordo, sembrava come procedere tra una folla muta di trapassati, un muto riverbero di ombre. Mi ritornavano in mente ad ogni istante le venditrici di cucchiai, per anni capaci di vagare lontane da casa, trainando a piedi i loro carretti. Tra le altre, sopratutto, quelle clautane: che si distinguevano inoltre anche per un gergo tutto loro - fatato e rude - impiegato quando non volevano essere capite, per cui acqua, ad esempio, diventava “bosséra”, casa “tabìna” o uva “pomola”. Nomi di stupore.
Discese dai monti, dei monti i loro volti conservavano la durezza minerale, tagliente. Ne avevo vista qualcuna, da piccolo, in paese. Portavano sul capo immancabili fazzoletti, raramente ingentiliti da qualche decorazione floreale. Ogni loro gesto, ogni sguardo parlava di fatiche, privazioni difficili anche solo da immaginare. Avevano imprigionato negli occhi scuri il lampo di una dolorosa furbizia, di pietà antiche quanto il mondo.
Camminavano per vie battute da sempre, dove da sempre arrotini, famigli in cerca di un alloggio, zingari dai capelli venati da improvvisi riflessi bluastri, erranti tra le onde nere, incrociavano i loro destini di miseria senza riscatto, di remoti rancori sepolti sotto strati millenari di imprecazioni rivolte al cielo.

Oltre Spilimbergo, patria di mosaicisti, Meduno si trovava alla fine di una lunga strada piena di curve. Ai lati, lungo tutto il percorso, pareti rocciose, laghi specchianti il cielo grigio, piovoso, prati e piccole fasce di orti sassosi faticosamente strappati alla montagna. Le nuvole cominciarono ad addensarsi, comprimersi una contro l’altra. Scendemmo dalla macchina. Sentii l’aria fredda, nonostante l’estate fosse al suo culmine, scendere nei polmoni. Una terra cupa, arrossata e umida, emergeva tra spiazzi denudati dall’erba, mescolata a miriadi di schegge rugginose, taglienti di pietra.
Alle prime, grosse gocce di pioggia ne seguirono subito dopo altre, infinite, sempre più fitte, che ci costrinsero ad interrompere la nostra camminata cercando riparo in un paese vicino. Il bar, in piazza, era gremito; ci dissero che più avanti ne avremmo trovato un altro. A metà strada, in una stanza buia mezza infossata nel terreno, una vecchia signora, con un biberon per bambini, dava il latte a dei capretti. Bianchissimi, alcuni di pochi giorni, saltavano di continuo, agitati, verticalmente: ogni mattone sporgente, un secchio, un attrezzo diventava un possibile appiglio. La donna passava il biberon da uno all’altro, cercando di tenerli a bada, con loro che le salivano sulla schiena curvata, mentre da dietro uno steccato di legno spugnoso le capre più grandi, belando, li osservavano curiose.
Disse che li uccideva suo marito, o suo genero; che continuava a tenerli per avere qualche entrata, anche se non c’era proporzione tra tutto il lavoro che richiedevano e i pochi soldi guadagnati. I suoi figli lavoravano fuori, come molta gente di qui, suo marito era sempre nei campi o a far legna e, quindi, lei doveva arrangiarsi da sola per pulire, dar loro da mangiare.
Fa freddo. La salutiamo mentre l’acqua, sempre con più violenza, si infrange sulle facciate, la pietra e le file parallele, bianche di ciottoli che l’attraversano.

* * *

Come sfolas par i pras
in cjera di nissun a si va al vivi
e lontans dai murs e da sé a si va
su la cjera c’a trima...

A Meduno, inscritta in una luce di clausura, di cime nevicate, nasce anche la parola di una grande quanto poco nota autrice, Ida Vallerugo. Dopo alcuni libri in italiano, accolti con favore negli anni sessanta, in questi ultimi tempi di lei sono apparsi sporadicamente, su qualche rivista e antologia, soltanto alcuni testi in friulano. Testi di tale intensità da porla però, senza timore, tra le voci più alte ed intense della poesia contemporanea. Rimangono ancora fondamentali, a questo proposito, le dense pagine che su di lei ha scritto un grande critico, come Franco Brevini, nel suo Le parole perdute (Dialetti e poesia nel nostro secolo) edito da Einaudi.
I suoi versi, in quest’ardua varietà carnica di Meduno, dov’è nata e vive, si fanno strada, nella memoria, con una forza dirompente e comunicativa che, forse, può maturare soltanto tra le pareti invisibili, ma impenetrabili, di un isolamento ricercato, gelosamente custodito.
Come vista da un previssuto al di là, da una morte in vita, la realtà solo allora si riversa, intera, nella parola. Il nitore dello sguardo capace di cogliere, in un solo verso, il respiro delle cose è quello dello sguardo che parte, come ricordava in un suo saggio Cristina Campo, dall’opposta riva dell’esistenza.
In una poesia scritta da Miguel Hernàndez tra il ‘42 e il ‘43, poco prima di morire in carcere, il rumore strascicato di una scopa ( come ricorda Ceronetti in una sua recente intervista) è percepito come una “lengua sublime y acordada”. Non si tratta, prosegue il poeta di “Compassioni e disperazioni”, semplicemente del “potere di trasfigurazione della parola, ma di un potere superiore: quello di rivelazione di realtà essenziali”. La scopa che un poveraccio struscia nel corridoio di un carcere è vista “columna hacia la aurora”, un getto verticale di luce, e lo è davvero, ma ci vogliono quegli occhi là, di un veggente messo a morire in galera, per vederlo”. Una rivelazione, dunque, che si manifesta epifanicamente ai margini del mondo, dell’esistenza, nel tempo immobile e senza volto di una prigione, in cui la realtà si dà - allusa soltanto - attraverso rumori, sussurri quasi impercettibili. In cui le forme della vita vengono evocate dal riverberarsi nell’aria, oltre i muri, dal suono del loro transito - ora solamente immaginabile - nel vuoto dello spazio.
Chi scrive allora, chi si pone in questa posizione di ascolto estremo cogliendo, amplificato dal silenzio, anche il minimo rumore, anche il più banale e greve, come un rivo incandescente che si muove sotto la cenere indurita (cenere di eventi, di fasti effimeri), sembra compiere così una sorta di oscura ed impervia risalita, attraverso lo scorrere di ogni riga scritta giorno dopo giorno, verso le sorgenti del respiro, dell’essenza. Sorgenti di attimi in cui ogni cosa riappare, liberata da ogni incrostazione concettuale, nella sua nudità: pura presenza che dischiude, all’improvviso, il suo mistero in ogni suo minimo mostrarsi, in ogni traccia, come sempre in Hernàndez:

...Attraverso la casa, profumata
Di verità e bellezza, sei passata

Un abisso è l’impronta dove tu
Hai lasciato rovine di roseto...

Presso i “Quaderni del Menocchio” nella collana “Le molte vite”, grazie anche all’opera di Aldo Colonnello, instancabile animatore del Circolo culturale Menocchio a Montereale Valcellina, da poco è uscito il suo primo libro in friulano, “Maa Onda”, tanto più prezioso perché, a questo punto, quasi deluse in molti le speranze di vederlo mai pubblicato.
Un libro compenetrato da un silenzio che è quello che segue la scoperta di una terra senza più appigli, dopo una scossa violenta, quello di mattini in cui nel risveglio si dischiudono, più che le tinte d’attesa del nuovo giorno, faglie di una luce livida, d’imminente catastrofe.

Forc four la neif à già sipilit la cjera
borc suturnu di Hiroshima.
Forc a é gjà stada l’esplosion
e no i sin la memoria di no,
l’ultima sparìnt.
E tu, lotadora indurmidida, i tu sumiei.

Sul punt di Sydney il vint
a ti alcia i cjavéi neris scjampas ai fèrmos.
Onda! a ti clama lui.
Mari a ti clàmin i fis soravisus.
A pàssin lens i bastimìns, sunant
a cjàpin il larc, a son belgjà sparis.
A passa ta l’aga fonda to mari pensierosa.
“Mari, unmò viva a mi àn mitut fra i muars!”
Ridìnt i tu segni lajù fra li cjasi dal puart
la fignestra di cjasa vissìn al Macel Comunal
dulà che i becjers a regàlin retàis di cjar
ai canàis taliàns, grecos, spagnoi.
Da che fignestra il punt al é un svual.

La buera a na ti svea. Denant di te
me Rigjna a ferma la so corsa. A cola.

Un mondo su cui la Storia sorvola, fatto di atti minimi, spazi delimitati dal silenzio, frammenti di storia personale che diventano simboli, devastati e assoluti, della nostra quotidiana “chiara trasfigurazione” nella “muàrt di ogni dì”, la “morte di ogni giorno”.

Doman a sarà una’sornada perfeta
come un ouf. Come l’ouf
ch’i speli fra li mans, plan
par no disturba la to clara trasfigurassion
cul rumor da li speli c’a si distàchin.

E, su tutto, l’onnipresente figura della nonna scomparsa, Regina Cilia, la “Maa Onda” del titolo. Dal trauma nato dalla sua morte, difatti, si origina la sua scrittura in friulano. L’intera raccolta non è che un continuo colloquio con questa figura come per mantenere vivo un legame con l’aldilà, attraversata dalla paura che così non facendo si rischi di essere dimenticati da chi ci amava. Fiamme accese come ad indicare a chi arriva dal buio dove siamo. Ma la fine della “Maa” segna anche simbolicamente e concretamente la fine del mondo arcaico, contadino:

Ce tant dûre la muart?
No, la fin a é finîda.
A é finîda la fadîa
da rinâssi ogni dì in cualchi mout.
Il mûrî di ogni dì, Maa, a é la muart
e jo i na pos pì da murî, Mâri.

In te ogni rispîr, ogni fâ
cussì sfadiâs a erin compàgns e diferéns
come i deic da la tô man
unmò tèpida fra li mê mans.
Una granda leadûra
a tegnêva vissìn, ogni cjo fâ dentri
il cuiét massàcr dal cjo mont contadin
acetât come la ploja e il sec.
Dut a dovêva essi fat. Dut al ’veva
tal sio êssi compagn e diferént

la lûs da la necessitât

la lûs generâl da la tô vita.

E l’abbandono, insieme, dell’autrice tra i deserti del mondo contemporaneo con l’unico possesso di una lingua sentita come “lara”, “ladra”, capace di “spiazzare ogni possibilità di convivenza con la scrittura in italiano”. Ma, anche, sempre secondo le parole dell’autrice, come una “necessità che emergeva dal profondo”. Necessità, che sempre si ripresenta, come un abisso su cui affacciarsi, ma anche come atto di fede, in uno dei suoi testi più alti, “Neif”:

Cujét dormitôri vissìn al nuja.
Un louc, il mont
a sirvìssin éncja par lassâlu.

Ma tu, muârta, i tu mi custrinç
a continuâ a rompi l’infièr
cun una sapa di vêri
e una tromba baroca
e lostès crôdi, crôdi

crôdi, éncja, unmò, in chê roba
sipilîda ch’a si clama puisîa...


Quieto dormitorio accanto al nulla.
Un luogo, il mondo
servono anche per uscirne.

Ma tu, morta, mi costringi
a continuare a dissodare l’inferno
con una zappa di vetro
ed una tromba barocca
e tuttavia credere, credere

anche, ancora, in quella cosa
seppellita che si chiama poesia.

La pioggia non cessa su Meduno. Per tutto il pomeriggio fino a sera non si è mai fermata. Sui paesi vicini, si abbatte sugli alberi che si curvano sotto il peso di quell’acqua nera, mescolata al vento. Come cadesse da sempre, da millenni d’ombra, dall’interno del bar la guardiamo cadere assieme ai ragazzi del paese, qualche vecchio assorto che sfoglia il “Messaggero”, la sigaretta che lentamente si spegne sul posacenere tra il rumore delle gocce che si mescola, sordo e continuo, a quello del telegiornale. Tutto come se fosse fermo da sempre. Uniti, noi alla fiamma delle cose, da quel buio che ci attende fuori, incastonato tra la roccia, il viaggio interminabile tra le strade piene di curve verso la pianura.
Oh flama, oh scûr.



Miguel Hernàndez, Se fosse in noi la vita della rosa, traduzione di Guido Cernetti in “Come un talismano”, Milano, Adelphi, 1988, p. 100.

1 commento:

Blumy ha detto...

è solo e semplicemnte GRANDIOSA !

Blumy