martedì 7 ottobre 2008

Intervista a Marco Paolini pubblicata su "Poesia"

La sapienza dei colori
Un incontro con Marco Paolini


Chissà se ’ste paroe desmentegae
le pol ancora dir de mi e de ti.

Romano Pascutto




Lo spettacolo, nel Teatro Comunale di Monfalcone, si è appena concluso. Le luci, lentamente, si riaccendono. Non si è trattata, questo è certo, di una rappresentazione qualsiasi. “Bestiario veneto”, di Marco Paolini, è piuttosto un affondo, a volte lieto a volte insopportabilmente doloroso, nella storia delle nostre genti. Genti da sempre in fuga. Dai barbari, dai turchi prima. Da una miseria terribile, dalla fame ereditata come un’irredimibile ossessione da padre in figlio fino alla Seconda Guerra mondiale. Ed oggi - difese dietro una cortina di apparente benessere - non da altro che da se stesse, da un passato di cui con troppa facilità si sono sbarazzate e che adesso torna, attraverso le parole dei poeti, ad interrogarle.
Lo spettatore, in questo caso, si ritrova anche ad essere colui che ha contribuito, in maggior o in minima parte, coscientemente o meno, all’attuazione di questa sistematica distruzione di un paesaggio e di valori, tradizioni conservatesi intatte per centinaia d’anni. Coloro che assistono alla rappresentazione si trasformano così in tanti imputati ma, alla fine, non ci sarà nè condanna nè assoluzione: Paolini non è un moralista; espone dubbi, denuncia ciò che non è possibile non denunciare, mostra strade che gli sembrano ancora percorribili, ma si astiene dal giudicare. I conti veri, se li farà, ognuno li dovrà fare con se stesso, a casa sua, in seguito, nella vita di ogni giorno. Gli applausi sono meritati, pochi li meritano come questo attore, ma bisognerebbe avere poi la forza di ringraziare anche chi denuncia le nostre mancanze nella vita di ogni giorno. E questo non accade quasi mai. Se così fosse, non ci sarebbe stato il motivo per fare uno spettacolo del genere. Esiste a proposito una poesia, esemplare, di Noventa (che non a caso Paolini cita nello spettacolo) in cui ad una persona che si giustifica sempre, portando come esempio la madre, la moglie e i figli da sfamare, l’altro interlocutore consiglia alla fine, per il suo bene, di ucciderli tutti. Fin quando poniamo qualche giustificazione ai nostri comportamenti significa anche che non siamo disposti a cambiare. Manca la volontà vera per farlo. E, se non è così, allora bisogna dimostrarlo, concretamente.
In questo zone, dove nulla per secoli si buttava e dove l’abitudine allo spreco è diventata imperante, sappiamo anche che in molti casi, per produrre cambiamenti importanti nel mondo, basterebbe a volte che ognuno di noi rinunciasse a qualcosa di insignificante come a un paio di scarpe da ginnastica od un cioccolatino. Un semplice gesto ridurrebbe di colpo lo sfruttamento minorile in tanti paesi, ad esempio, eppure quasi nessuno si sogna di farlo. Se non si passa dunque dai discorsi all’azione, cominciando a cambiare noi stessi a partire dalle nostre abitudini più radicate, a metterle in discussione, rinunciando a ciò che ci piace se riteniamo che questo possa contribuire in qualche modo a nuocere a qualcosa o a qualcuno, non ci sarà mai un vero miglioramento.
Ascoltiamo, così, ma senza mai veramente capire, guardiamo, ci sembra di vedere, ma è come se i nostri occhi fossero chiusi. E lo sono, in realtà, infinitamente. Chissà quanti, assistendo a questo spettacolo, quante persone non saranno mai minimamente sfiorate dal dubbio di essere state chiamate in qualche modo in causa. Quanti continueranno a chiamarsi fuori.
Una piccola, tumultuosa folla, adesso, si accalca verso il camerino, in cerca di un autografo o anche di una semplice parola. Colpisce sopratutto, di Paolini, l’estrema mitezza, il tono di voce pacato, inimmaginabile a chi l’ha visto scatenarsi con tanta energia, fino a poco fa, sul palcoscenico. Chiusa la porta, mentre ancora qualcuno da fuori lo richiama, accende lentamente, con gesti misurati la pipa.

In “Bestiario veneto”, per parlare delle trasformazioni della tua terra ad un grande pubblico, hai scelto di partire da una posizione eccentrica, quella assunta da poeti, spesso grandi poeti, quasi del tutto sconosciuti. Nomi come Pascutto o Calzavara, difatti, non sono noti che a pochissimi. Ed anche se parliamo di Zanzotto, di certo uno dei massimi poeti del secolo, sappiamo comunque che sono pochi ad averlo letto, poche migliaia di lettori di fronte alle centinaia di migliaia che possono contare i vari romanzieri. Eppure, a ben guardare, ci si accorge che forse nessuno come questi autori è stato in grado di descrivere con tanta efficacia i cambiamenti che si andavano compiendo dal dopoguerra ad oggi, autori talmente immersi nella realtà da viverne a volte - e soffrirne in anticipo - le future trasformazioni.

Il dubbio che ho, a volte, è quello di essere quasi irriguardoso.
Io non li faccio conoscere, questi poeti, non sono un loro vero conoscitore: io sono, semplicemente, un ignorante che ha sbattuto il naso contro queste cose e mantengo, continuo a mantenere questo punto di vista sulla scena. Questo, per me, è importante. Il problema fondamentale del teatro, del raccontare, è che non c’è il contesto per capire la realtà a cui le storie fanno riferimento. Quindi, quando si parla di una cosa, bisogna assumere il dato dell’ignoranza come perdita di memoria ma anche di lingua. Bisogna trovare, allora, un punto di vista per parlare in modo tale che, chi ascolta, possa avere degli elementi di comprensione di ciò di cui si parla e la possibilità di contestualizzarlo. Questo però non deve avvenire in maniera saccente, dall’alto, riproponendo il problema della cosidetta cultura, il problema antico, mai estinto dei contesti separati.

C’è stata per molto tempo, e continua ad esistere ancora, la tendenza a credere che l’arte non possa essere spiegata, che si tratti di una sorta di fenomeno misterioso e indefinibile completamente staccato dalla vita di ogni giorno. Questo non ha fatto altro, credo, che allontanare sempre di più il pubblico da tutto ciò che non fosse immediatamente alla sua portata, istantaneamente riconoscibile. L’aumento della scolarizzazione non ha rilanciato le vendite dei libri di poesia considerati ancora, a priori, come un prodotto riservato ad una ristretta èlite. E di fatto, purtroppo, è così. La mancanza di conoscenza della poesia significa anche, però, una grande generale limitazione nel modo di percepire la realtà di tutta la società ed è per questo che, chi si occupa di queste cose, non può non porsi il problema di come portare la poesia al grande pubblico. Spesso, cadendo in un grossolano errore, si tende nelle letture a trasformarla in un evento spettacolare, drammatizzandola anche quando non è necessario e sfigurandone l’originaria fisionomia. Molto più efficace, invece, mi sembra il tuo tentativo di contestualizzarla, mettendo in luce i contatti profondi che la poesia instaura con la realtà in cui sorge e si sviluppa. Facendo capire in fondo che la poesia - pure con tutte le sue difficoltà d’interpretazione - è spesso più vicina alla vita dell’ascoltatore di quanto egli possa immaginare.

Io, ti parlo da vivo. Quello che faccio, quello che è appunto il mio lavoro, è il ritratto da vivo: ed è ciò che dice anche Noventa, parlando con Dante, Francesco, “come i fusse vivi”. Ecco, la necessità del dialogo con le cose rendeva dunque impossibile mettere in scena questi poeti in un contesto di antologia neutra o cose del genere. Sarebbe stata una scelta ideologica a priori. Allora, io faccio la scelta di far dialogare queste cose con il ritratto, anzi con la geografia, con la cartina, con la mappatura di questo territorio. Metto in relazione le due cose e questo crea il ritratto. Il ritratto, di conseguenza, è il cortocircuito di queste due cose diverse messe assieme.
Ero, credimi, molto imbarazzato all’inizio, non sapevo bene come si facessero queste cose. Non è un progetto, del resto, nato a tavolino, utopico: è venuto fuori strada facendo dalle reazioni delle persone, dalle scritture, non solo dagli applausi ma anche dalle lettere, dalle informazioni. Pian piano ho preso coscienza della potenzialità di questo lavoro, ma questa coscienza non ce l’avevo assolutamente all’inizio.

La mappatura di questo territorio implica anche la mappatura di tante parlate diverse, venete, ladine, friulane, e di ognuna di essa le mille varianti e diverse sfumature. Parlare del dialetto, che ha una fondamentale importanza in questo e in altri tuoi lavori, significa anche parlare di una perdita. Perdita di un mondo, di una natura per noi oggi sempre più irraggiungibile, distante anche quando - nei casi sempre più rari in cui è scampata alla devastazione - continua a circondarci. Quasi che abitare il mondo corrisponda, oggi, ad abitare una lontananza.

La realtà difatti c’è, ma sfugge. Io nomino le cose, perché nominarle è un modo di farle esistere, di dar loro dignità. Oggi si parla tanto di immagine, di dar immagine alle cose - e quindi colori. Il problema è che dietro ai colori ci sono dei valori. Ma tu, capisci, non puoi parlare di valori perché questo, oggi, è un discorso usurato e nessuno ha tanta buona volontà di esporsi, rischiando il ridicolo, per affrontare queste questioni. Eppure è necessario un appello ai colori nel momento in cui occorre la sapienza dei colori per poter rintracciare la forza dei valori. Bisogna dar peso specifico alle cose, non appellarsi ai valori in quanto tali. E’ come appellarsi all’epica in quanto tale, come bandire il federalismo senza sostanziarlo di parole. Il linguaggio della politica, il linguaggio della pubblicità si affidano ad una serie di messaggi che sono tante icone. Frammentate, frammentabili e separate fra di loro, che non disegnano più il quadro di riferimento. Quindi - magari in “maniera perdente” come dice Magris, una guerriglia perdente contro l’oblio, il ghiaccio - anche il ritratto è una guerriglia perdente contro la frammentazione del quadro, ma non è una cosa donchisciottesca, il farlo è salvifico per chi la fa.
Voglio dire, cioè, che per me questo dà un piacere alla vita, dà un piacere a fare questo lavoro; e questa cosa passa, ed è comunicabile ed è riscontrabile in una parte degli spettatori che rispondono a questo e si sentono segnati, toccati.
Non può essere neutro il teatro. Anni fa si diceva che il teatro può fare la rivoluzione. Il teatro fa uomini, come la scuola fa uomini, così come la televisione fa uomini, a volte. Ma se rinunci a far uomini sei tu il perdente.

L’ignoranza del passato, d’altra parte, l’abitudine a pensare senza riferirsi - per rinnovarlo - a ciò che ci ha preceduti, difficilmente credo potrà condurre a delle reali innovazioni. Il nostro mondo, basta guardarsi attorno, vive di cosidette novità che non sono altro che riproposizioni spesso banali di cose già scoperte.

La schizofrenia è la condizione quotidiana, anche nelle abitudini, nell’urbanistica, nel lavoro, nelle abitudini sessuali, sentimentali e nelle relazioni parentali, Io parlo di linguaggio blob spot script, feed blob spot. Già Nietzche scriveva spaventato che non c’era più l’uomo, quadrato, con i suoi solidi valori: ci sono, invece, più uomini dentro un uomo, all’inizio del secolo passato già si accorgevano di questo. Adesso noi non abbiamo più a che fare con degli individui ma con molteplici individui, e questa molteplicità caotica produce delle incongruenze che sono, ora, perfettamente compatibili. E allora come si racconta quest’uomo, a quale parte dell’uomo l’attore sta rivolgendosi? Io mi rivolgo alla parte meno cinica dell’uomo, e sono ottimista nel senso che credo che esista una possibilità vitale di opposizione al cinismo, che non ci sia un’unica direzione, ma che ci siano diverse letture possibili in cui per esempio, attraverso una presa di coscienza, attraverso una critica pessimista, si profili comunque lo spazio vuoto per un progetto, una speranza, un’utopia - chiamala come vuoi - non più vista in maniera fideistica, ottocentesca, con gli schemi ideologici rigidi, ma ben più possibilista, più aperta.
In ogni caso, non possiamo accettare che quello in cui noi viviamo sia il migliore dei mondi possibili o il migliore dei capitalismi possibili e che il modello di sviluppo proposto sia un modello di sviluppo realisticamente accettabile. Non possiamo accettare fideisticamente che i maghi della finanza o della tecnologia disegnino il nostro futuro mantenendo con loro lo stesso atteggiamento fideistico che si aveva una volta nei confronti dei maghi, dei filosofi o degli astrologi di corte. Abbiamo spostato il soggetto ma continuiamo a mantenere un atteggiamento simile nei confronti di questa categoria di potenti. Dobbiamo dunque relativizzare quanto ci viene proposto: se una parte continua a credere un’altra dovrebbe cominciare a dubitare, a mettere dei contrappesi.
La poesia è contrappeso e sintesi.

Una poesia che oggi più di tanti altri linguaggi riconosciamo capace di descrivere la realtà mobile, dalle molte facce, in cui siamo immersi. La parola poetica dunque, che non definisce ma allude, èvoca ciò che ci sta di fronte senza volerlo incasellare in una definizione conclusiva, riacquista senso e dignità proprio nel momento in cui sembrava maggiormente minacciata. Rimane così, ancora, un indispensabile antidoto contro la nostra radicata tendenza a ridurre il mistero della realtà racchiudendola in concetti, categorie separate.

La frase che io dico è “riequilibrare l’attenzione”. E’ ovvio che naturalmente nessun sano di mente va a chiedere ad un poeta una ricetta per risolvere la disoccupazione. Un tempo, quando si aveva un problema, si andava dagli anziani e si ascoltava. Si tratta, quindi, di ascoltare. E’ possibile? Ci sono strumenti per dare un peso a cose che non hanno un prezzo, perché hanno valore? Tutto ciò che non ha un prezzo non ha valore, questo semplice assioma spiega in modo telegrafico quello che correntemente si pensa, si tratta quindi di ridare valore a ciò che non ha prezzo. Con la poesia si può fare molto, perché è più leggera della fede e delle ideologie. Un rivoluzionario può fare la stessa cosa, o un grande filosofo, o dei partiti meno proiettati alla pura realizzazione dei loro interessi o al consolidamento delle proprie posizioni. Un paese può essere salvato da un industriale come Adriano Olivetti. Perché il problema è che non ci sono soltanto i padri della patria, ci sono anche altre persone che danno senso ad un’identità. Se parliamo del Veneto rispetto all’Italia, la particolarità e l’unicità di queste aree, di queste zone appare evidente. Ma se tu ce l’hai questa identità, allora devi anche necessariamente metterla in relazione con le altre identità, impiegando in questo caso inoltre, da regione privilegiata, la tua ricchezza per confrontarti con gli altri non soltanto da un punto di vista culturale ma anche pratico.

Travolti come da un’ondata improvvisa, molti importanti, millenari aspetti della nostra tradizione sono rimasti alle nostre spalle come quei brandelli di alberi, ricoperti dal fango disseccato sui greti deserti dell’Isonzo o del Tagliamento, dopo le piene invernali. Eppure, sembra dire il tuo lavoro, non è possibile proseguire oltre senza prima volgersi indietro - ad occhi aperti, senza infingimenti - verso questo orizzonte perduto di devastazioni, rovine, oblio. E da lì, anche da lì ricavare parole nuove per descriversi e dire cosa eravamo e cosa potremmo essere.

In un momento in cui non ci sono sistemi ideologici anche un minimo consiglio, un minimo di saggezza nell’affrontare i problemi può rivelarsi, molte volte, una fonte di salvezza. Ma tutto questo, in un momento come quello attuale, non può essere detto in maniera pedante. Sarebbe una cosa insopportabile. L’autorevolezza, l’unica autorevolezza possibile, si può guadagnare oggi soltanto attraverso forme che non siano pedanti.
Ed in questo - rispetto alla pubblicità, ad esempio, o i mass media - la poesia si trova anni luce più avanti.



Ivan Crico

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