sabato 31 gennaio 2009

Andrei Tarkovsky


C'è un solo viaggio possibile: quello che facciamo nel nostro mondo interiore.
Non credo che si possa viaggiare di più nel nostro pianeta.
Così come non credo che si viaggi per tornare.
L'uomo non può tornare mai allo stesso punto da cui è partito, perchè, nel frattempo, lui stesso è cambiato.
Da sè stessi non si può fuggire.
Tutto quello che siamo lo portiamo con noi nel viaggio.
Portiamo con noi la casa della nostra anima, come fa una tartaruga con la sua corazza.
In verità, il viaggio attraverso i paesi del mondo è per l'uomo un viaggio simbolico.
Ovunque vada è la propria anima che sta cercando.
Per questo l'uomo deve poter viaggiare.

Andrei Tarkovsky

venerdì 23 gennaio 2009

Poesie di Biagio Marin


E 'NDEVENO CUSSÌ LE VELE AL VENTO...

E 'ndéveno cussì le vele al vento

lassando drìo de noltri una gran ssia,

co' l'ánema in t'i vogi e 'l cuor contento
sensa pinsieri de manincunia.


Mámole e mas-ci missi zo a pagiol

co' Leto capitano a la rigola;

e 'ndéveno cantando soto 'l sol

canson, che incòra sora 'l mar le sbola.


E l'aqua bronboleva drío 'l timon

e del piasser la deventava bianca

e fin la pena la mandeva un son

fin che la bava no' la gera stanca.
E andavamo così, le vele al vento
/ lasciando dietro di noi una gran scia,
/ con l’anima negli occhi e il cuor contento / 
senza pensieri di malinconia. // Fanciulle e ragazzi seduti giù a pagliolo
/ con alla barra Leto capitano;
/ andavamo cantando sotto il sole
canzoni / che ancora volano sul mare. // L’acqua ribolliva dietro il timone
/ e dal piacere diventava bianca, /
persino la penna suonava: / 
fin che la bava non era stanca.

PAESE MIO

Paese mio,

picolo nío
e covo de corcali,

pusào lisiero sora un dosso biondo,

per tu de canti ne faravo un mondo

e mai no finiravo de cantâli.

Per tu 'sti canti a siò che i te 'ncorona

comò un svolo de nuòli matutini

e un solo su la fossa de gno nona

duta coverta d'alti rosmarini.

(da “Cansone picole”, 1927)

PAESE MIO

Paese mio,
/ piccolo nido
/e covo di gabbiani,
/ posato leggero su di un dosso biondo, /
per te di canti ne farei un mondo
/ e mai non smetterei di cantarli.
// Per te questi canti, perché ti incoronino
/ come un volo di nuvoli mattutini
/ e uno solo sulla fossa della nonna mia
/ tutta coperta di alti rosmarini.

UNA CANSON DE FÉMENA

Una canson de fémena se stende

comò caressa colda sul paese;

el gran silensio fa le maravegie

per quela vose drío de bianche tende.


El vespro setenbrin el gera casto:

fra le case incantàe da la so luse

se sentiva 'na machina de cûse

sbusinâ a mosca drento el sielo vasto.
Inprovisa quel'onda l'ha somerso

duto 'l paese ne la nostalgia:

la vose colda i cuori porta via

nel sielo setenbrin, cristalo terso.

(da “Minudagia”, 1951)

UNA CANZONE DI DONNA

Una canzone di donna si stende
/ come carezza calda sul paese; /
il gran silenzio fa le meraviglie
/ per quella voce dietro bianche tende. // Il vespro settembrino era casto:
/ fra le case incantate della sua luce
/ si sentiva una macchina da cucire
/ ronzare a mosca entro il cielo vasto. // Improvvisa quell’onda ha sommerso
/ tutto il paese nella nostalgia:
/ la voce calda i cuori porta via
/ nel cielo settembrino, cristallo terso.


(tratte dal sito del "Centro Studi Biagio Marin" di Grado)

giovedì 22 gennaio 2009

La poesia? Meglio dal vivo. Di Lello Voce


La poesia? Meglio dal vivo
L’Unità, 2008

di Lello Voce


C’è un fantasma che si aggira nelle librerie italiane: il libro di poesia. Nascosto sugli scaffali meno in vista, ignorato da commessi e clienti, raramente messo in vetrina, appena sopportato dai distributori, appena tollerato da qualche grande editore (Einaudi, Garzanti, Mondadori ad esempio) ma più che altro come vezzo di qualità, fiore all’occhiello di transatlantici editoriali che su ben altro investono tutte le loro risorse di marketing e danaro, il libro di poesia langue a un passo dalla morte definitiva, senza per altro morire mai, quasi fosse un animale preistorico, un dinosauro miracolosamente scampato alle darwiniane leggi di adattamento e selezione della specie, che continua ad aggirarsi tra le nostre pianure e le nostre montagne, più o meno invisibile, a volte avvistato da questo o quel turista in escursione, ma poi irrimediabilmente perso di vista.

Fuori dalle librerie, lasciati alla porta, restano inoltre centinaia di titoli all’anno che non hanno neanche la fortuna di sostare qualche mese su quello scaffale nascosto, prima di passare nel limbo dei resi, poi nel purgatorio degli stock dei Remainders, per infine andare all’inferno del macero.
Eppure l’Italia è un paese che pullula di poeti.
Siamo certamente migliaia, forse decine di migliaia di scriventi versi. Si tratta di un mercato che dà da vivere a decine di case editrici, piccole e un po’ meno piccole, più o meno serie, che pubblicano anche, o soltanto a pagamento, cioè con l’impegno dell’autore stesso a comprare in anticipo un numero congruo di copie del proprio libro e che così, grazie al disperato bisogno di ‘esistere’ di frotte di scriventi poesia, grazie a questi poeti (alcuni certamente mediocri, o pessimi, ma altri interessanti, bravi, addirittura bravissimi) si garantiscono profitto e sopravvivenza. Per buona fortuna in alcuni casi, purtroppo in altri.
Del libro in questione, naturalmente, sugli scaffali delle librerie non ci sarà traccia alcuna. Sulle gazzette ancor meno. Di riviste di poesia si è persa ormai ogni traccia.... Così le poche copie che l’autore riuscirà a ‘vendere’ saranno quelle portate con sé ad eventuali reading, e messe lì, in agguato, ad aspettare il pubblico all’uscita, in buon ordine su un banchetto, con il cartellino del prezzo (ovviamente scontato) scritto a penna su un foglio di quaderno. Da questo punto di vista la poesia è merce continuamente in saldo. Almeno in Italia.

Edoardo Sanguineti, un intellettuale attentissimo agli aspetti sociali e ‘politici’ della letteratura, sostiene spesso che in Italia non si è mai letta tanta poesia quanto oggi e questo grazie alla scuola dell’obbligo, che ne stabilisce una certa quantità da somministrare a ciascun allievo. Ha ragione, ma agli ‘obbligati’ spesso poi essa sembra quasi una poesia imposta per legge e decreto ministeriale. Una poesia- condanna, o, nei casi migliori, una poesia-medicina. E’ difficile che da un incontro di questo genere possa nascere un amore. A meno che chi la impone, o la prescrive, non sia capace nello stesso tempo di far scoccare, con la sua passione, la scintilla della passione dell’allievo. Ma di passione, a meno di 2000 euro al mese, i nostri insegnanti, loro malgrado, ne producono sempre meno. Certo, Sanguineti ha ragione, ma domandiamoci anche: come si legge la poesia nelle scuole italiane? La si legge fatta a fette, una o due poesie del Pascoli, qualche canto di Dante, quattro Canzoni leopardiane, due sonetti del Petrarca. Il problema, però, è che i poeti non scrivono solo poesie, bensì, spesso e volentieri, libri di poesie, cioè organismi in cui ogni tessera acquista il suo vero valore solo in relazione alle altre, come in natura, come nelle società edificate dall’uomo, come nel linguaggio. Chi riuscirà sino in fondo a percepire quella certa mediocrità della pascoliana Cavallina storna, se non ha letto la splendida ed altrettanto pascoliana Il lampo, entrambe dedicate all’assassinio del padre? Gli italiani a scuola rischiano di imparare che i poeti non scrivono libri di poesie, ma poesie singole, parti resecate dal tutto e poi messe insieme, magari alla rinfusa, una volta ogni tot tempo, in questa o quella raccolta e se qualche docente invita gli studenti a leggere uno o due romanzi per l’estate, chi di loro suggerisce di provare a leggere, per una volta tanto, un intero libro di poesia? E poi, se leggere Dante è assai più difficoltoso, in primis linguisticamente, che approcciare Montale, o Saba perché si chiede a un quindicenne di chiosare il canto di Ulisse, e a un diciottenne si concede l’apparente semplicità sabiana? Non sarebbe meglio fare il contrario?

Per altro verso, pur essendoci molta poesia, nelle scuole e nelle università italiane, al contrario di ciò che accade nella maggior parte degli altri paesi del mondo, ci sono pochissimi poeti. La scuola pubblica italiana non ha ormai più neanche i fondi per comprare gessi e lavagne, figuriamoci se ha soldi per ospitare un ‘poeta in residenza’, o quelli per organizzare un reading di poesia. Eppure a scuola, a incontrare gli studenti, ormai ci vanno tutti: poliziotti antidroga e sessuologi, esperti di marketing e tenutari di stage aziendali, pompieri ed aviatori, magari astronauti, o soubrette. Tutte degnissime persone, beninteso. Ma perché proprio i poeti no, perché proprio i poeti sempre meno? Proprio loro, che sono gli esperti della geometria dei sentimenti, i domatori di ogni incendio della lingua, gli esperti profondissimi dell’economia del dolore e dell’entusiasmo, proprio loro, minatori dell’animo umano con l’hobby dell’astronomia, proprio loro non possono parlare ai giovani, che di queste cose vivono giorno per giorno, milioni di volte più di un cosiddetto adulto...

Ma la poesia non è stata sempre un’arte ‘minore’. Lo è diventata sempre più, soprattutto nell’Occidente industrializzato e telematizzato, man mano che dalla voce e dal corpo essa si trasferiva sulle pagine dei libri, man mano che abbandonava i territori della Retorica, della recitazione, della performance, per posarsi come una farfalla muta sulle pagine a stampa. Più ‘borghese’ che mai. Ma certo meno del romanzo. Così facendo, per combattere una battaglia già persa, quella con il romanzo, rinunciava a una delle sue caratteristiche principali, cioè quella d’essere un’arte ‘viva’, fatta prima di tutto per essere fruita ‘dal vivo’, parola nata per essere pronunciata. La poesia ristretta nei libri non è solo un’arte minore, rischia così d’essere un’arte ‘minorata’, di caricarsi sulle spalle un handicap che non le compete. Come una donna dalla bellissima voce che si condannasse, di sua volontà, al mutismo.

Tutto perduto? No. Restano i festival, i poetry slam e la Rete. E lì le faccende vanno in modo ben diverso. Lì c’è vita, lì c’è ricchezza d’idee, lì c’è futuro, proprio perché attraverso la Rete, gli Slam e i festival la poesia riscopre la sue radici: quelle di essere nata per e nella comunità (non è forse questo il compito assolutamente inutile e insieme assolutamente necessario del poeta: quello di scoprire le parole giuste perché la comunità ed ognuno di coloro che ne fanno parte possa riconoscere la propria identità?) quelle di essere per eccellenza arte della performance, arte dal vivo per i vivi, parola che abita la voce e il corpo del poeta, arte dello scambio (dello sharing, del peer to peer) e del contrasto, del combattimento, del canto e del dialogo. Proprio come nei festival, proprio come nei poetry slam, proprio come in Rete. E basta fare un tour nei principali siti italiani dedicati alla poesia, o decidere di dedicare una serata più stramba del solito andando ad un festival, o addirittura partecipando a un poetry slam per scoprire che la poesia avrà anche pochi lettori, ma ha certo un suo rispettabile pubblico, nemmeno poi tanto esiguo, che accumula centinaia di migliaia di accessi Internet, per rendersi conto, insomma, che essa, come ogni sabotatore che si rispetti, non si fa mai trovare dove ci si aspettava che fosse, ma è già altrove, parla già altre lingue, percorre altre strade, scommette su sentimenti e idee e progetti assolutamente inauditi, imprevisti. Come è sempre accaduto, e confido sempre accadrà, nei secoli dei secoli.

domenica 11 gennaio 2009

Ivan Crico presenta il suo libro in tergestino

Dal Messaggero Veneto — 10 gennaio 2009 pagina 11 sezione: CULTURA - SPETTACOLO

Il Circolo Arci e l’assessorato comunale alla cultura di Cervignano propongono per oggi, alle 18, in Borgo Fornasir, la presentazione di De arzént zù , raccolta di poesie di Ivan Crico, originario di Pieris e che vive a Tapogliano.
Introduce Gianfranco Scialino. De arzént zù (Di argento scomparso), edita dall'Istituto Giuliano di Storia e Documentazione di Trieste, è una silloge di liriche scritte in tergestino, cioè l'antico friulano parlato fino agli inizi dell'Ottocento nella città di Trieste e di cui si sono perse le ultimissime tracce - secondo la testimonianza dello studioso Pavle Merkù - agli inizi della prima guerra mondiale.
Info: 338-8454492, www.artecorrente.it.Udine.

sabato 10 gennaio 2009

De Andrè e "Creuza De Mä"


In ricordo di un grande artista.

di Giovanni Agnes

La poesia in musica di Fabrizio De André ha affascinato almeno tre generazioni di ascoltatori, influenzato in modo decisivo gran parte degli artisti italiani dalla metà degli anni Sessanta a oggi, senza mai perdere fascino e attualità. "Creuza De Mä", pubblicato nel 1984, è uno dei dischi più importanti del decennio, e il suo impatto e la sua grandezza non sono ancora stati recepiti appieno dalla scena musicale italiana e internazionale.

"Creuza De Mä", cantato interamente in dialetto genovese, nasce da un progetto di collaborazione artistica con Mauro Pagani, compositore, arrangiatore, polistrumentista, che De André aveva già avuto modo di conoscere nelle file della Pfm.

De André inizia a pensare a "Creuza De Mä" dopo un'attività più che ventennale di altissimo livello, e dopo aver già ampiamente allargato il campo delle proprie fonti molto al di là dell'usuale per un cantautore italiano: dai Vangeli Apocrifi per "La Buona Novella", e dalla "Antologia di Spoon River" di Edgar Lee Master per "Non al Denaro non all'amore né al cielo", era passato ai sapori ermetici del "Volume 8" in collaborazione con Francesco De Gregori, e alle tinte mediterranee de "L'indiano", ispirato all'esperienza del rapimento. "Creuza De Mä" è dunque il punto di arrivo di un percorso artistico di grandissimo spessore, un fine distillato di trent'anni di riflessione, umorismo, poesia e ricerca compositiva. Si tratta un'opera dalla ricchezza sonora e dialettica sconvolgente, di fatto una pietra angolare dell'allora nascente world music, con quattro anni di anticipo su "Passion" di Peter Gabriel e due anni in anticipo su "Graceland" di Paul Simon. Il sound del disco infatti si allontana decisamente sia dalla semplicità cantautoriale dei primi lavori, pesantemente influenzati da Leonard Cohen e George Brassens nell'adozione della forma della "ballata" per chitarra e voce, sia dalla ricercatezza tecnica figlia del prog-rock che aveva caratterizzato i dischi della metà dei '70. "Creuza De Mä" si avvale dell'uso di una miriade di strumenti della tradizione popolare mediterranea, nordafricana, balcanica e mediorientale. Già in fase di composizione, l'uso di questi strumenti "etnici" condiziona in modo decisivo la stesura del materiale.

La decisione di scrivere i testi nella lingua madre di De André, il genovese, viene molto tardi nella gestazione del disco, poco prima delle incisioni definitive. Fino a quel momento il progetto prevedeva testi scritti in una lingua inventata o, come disse De André, un "arabo maccheronico". Questo dettaglio, oltre che dare un'idea della voglia di invenzione e di sperimentazione che accompagnò la gestazione dell'album, ci fornisce un'importante indizio per identificare la simbologia che si cela dietro la scelta di una lingua "altra" rispetto a quella del potenziale pubblico. La scelta risponde innanzitutto a considerazioni di linguistica pura: il genovese è una lingua più adatta dell'italiano alla poesia in musica, perché molto ricca di parole tronche. Inoltre, l'italiano è una lingua "aulica" per nascita, nella quale lo stile "basso" è sempre votato al grottesco e al farsesco; al contrario il dialetto conserva la propria caratterizzazione popolare senza diventare automaticamente comico, il che lo rende la lingua più adatta per parlare della vita del "popolo minuto" tanto cara a De André. Si aggiunga l'ulteriore considerazione che il genovese è una lingua ricchissima di fonemi e parole arabe, il che si adattava benissimo all'atmosfera musicale del disco. Il genovese di "Creuza De Mä" è molto più del particolare dialetto di una particolare zona d'Italia: si tratta piuttosto, a livello simbolico, di una lingua popolare universale, e in particolare della lingua del viaggio e della povertà, di quel linguaggio dell'emarginazione e della rivolta che De André ricercava fin dagli inizi della sua carriera. In questa luce, non è privo di senso udire in "Sidun" una madre palestinese cantare in genovese — quasi si sporgesse da un molo del porto — rivolgendosi al figlio, schiacciato da un carroarmato israeliano.

Allo stesso modo la Genova di "Creuza De Mä" si carica di molteplici valenze simboliche, e pur mantenendo la propria peculiarità geografica e culturale (con gustosissimi spunti tratti dalla storia del costume dell'antica Republica di Genova), diventa un fulcro semantico ricchissimo: Genova è ogni luogo, ogni casa e ogni meta: un vero e proprio "ombelico del mondo". Le storie particolari che vi si svolgono assumono valenza universale: le prostitute di "A Dumenega" passeggiano per le vie di ogni città, e dietro ogni angolo di ogni paese c'è una "pittima".

La title track si apre sui rumori del caotico mercato di Genova, presto affiancati da un assolo di gaida, sorta di cornamusa in uso fra i pastori della Tracia. Appena il canto si dispiega sulla semplice melodia, ogni residuo dubbio dell'ascoltatore riguardo alle scelte linguistiche di De André è fugato. Nel "suo" genovese, la voce di De André diventa ancor più ricca, più espressiva di quanto non lo sia mai stata, e gli ostacoli che il dialetto pone a un'immediata comprensione sono in realtà fonte di infinite suggestioni sonore. Chi non conosce la lingua di "Creuza De Ma" è, paradossalmente, in una posizione migliore per cogliere a fondo la ricchezza dell'opera rispetto a chi possa comprendere "al volo" il significato delle parole. Il distacco fra significato e significante fa sì che l'attenzione di chi ascolta si focalizzi in primis sul suono, permettendo un ascolto non condizionato dai meccanismi psicologici di aspettativa nei confronti della narrazione. Chi di noi, ascoltando musica cantautoriale italiana, non si è mai trovato, al termine di un brano, nella condizione straniante di aver prestato scarsa attenzione alla musica per concentrarsi sulla "storia" narrata dalla canzone? Può sembrare un approccio eccessivamente formalista, ma le scelte linguistiche di De André in "Creuza De Mä" rispecchiano chiaramente l'intenzione di porre l'aspetto fonetico della lingua cantata, la sua fusione sonora con l'accompagnamento, sullo stesso piano della narrazione delle vicende. Un piccolo passo in questo direzione l'aveva compiuto Bob Dylan abbandonando la scrittura polemica e "impegnata" e concentrandosi sul suo personale ed ermetico simbolismo, come in "Visions of Johanna" e "Sad Eyed Lady Of The Lowlands" realizzando così un intreccio più profondo di musica e parole. D'altro canto, una volta apprezzato il disco esclusivamente nei suoi aspetti "sonori" è estremamente interessante mettere mano alle traduzioni italiane dei testi, per scoprire che anche sul versante della narrazione De André raggiunge qui notevolissime vette di ispirazione, snocciolando uno dopo l'altro alcuni fra i suoi massimi capolavori poetici.

"Creuza De Mä" parla del ritorno a casa dei marinai dopo la pesca, ed è carica della rassegnazione di chi è costretto — come i marinai, come Ulisse — a un viaggio senza fine, un viaggio-condanna in cui le soste sono fonte di frustrazione e occasioni per ubriacarsi ("E nella barca del vino ci navigheremo sugli scogli/ emigranti della risata con i chiodi negli occhi/ finché il mattino crescerà da poterlo raccogliere/ fratello dei garofani e delle ragazze/ padrone della corda marcia d'acqua e di sale che ci lega e ci porta in una mulattiera di mare"). Il brano sa evocare odori e profumi della cucina ligure ("frittura di pesciolini/ bianco di Portofino/ cervelle di agnello nello stesso vino/ lasagne da tagliare ai quattro sughi/ pasticcio in agrodolce di lepre di tegole") o anche suscitare lampi di un'Oriente lontano e misterioso ("Ombre di facce, facce di marinai/ da dove venite dov'è che andate?/ da un posto dove la luna si mostra nuda/ e la notte ci ha puntato il coltello alla gola/ e a montare l'asino c'è rimasto Dio/ il Diavolo è in cielo e ci si è fatto il nido").

"Jamin-a" è forse la più bella ode a una prostituta che sia mai stata scritta: un ideale proseguimento delle storie narrate in "Via Del Campo" e "Bocca Di Rosa", ma qui il racconto perde ogni valenza polemica o iconografica. Grazie all'adozione del genovese, De André non teme censure, e affronta il brano con esplicita, cruda, irriverente, irresistibile sensualità: il corpo di Jamin-a è protagonista, con la sua "lengua nfeugà" — lingua infuocata — e il "nodo delle sue gambe", incatena l'ascoltatore in un vortice di suggestione erotica e sonora. La struttura armonica del brano è affidata all'oud e al bouzouki, strumenti a corda di tradizione araba e greca.

Di "Sidun" si è già detto: il canto funebre della madre palestinese è al tempo stesso uno dei vertici dell'espressione poetica di De André e uno dei massimi risultati musicali della carriera del cantautore genovese. "Sinan Capudan Pascià" è la storia (vera) di un marinaio genovese che venne catturato dai turchi e divento pascià per aver salvato la nave del sultano dal naufragio. Il ritornello, adattamento di un canto di marinai diffuso in area tirrenica, è un piccolo nonsense con ambizioni da metafisica simbolista ("in mezzo al mare c'è un pesce palla, che quando vede le belle viene a galla; in fondo al mare c'è un pesce tondo che quando vede le brutte se ne va sul fondo") e più in là lo stesso refrain diventa un'apologia del "farsi da soli" in chiave di bassa e surreale comicità ("La sfortuna è un cazzo, che gira intorno al culo più vicino… un avvoltoio che vola intorno al culo dell'imbecille"). C'è spazio anche per una sparata del novello pascià sull'universalità dell'ossessione per il denaro ("E digli a chi mi chiama rinnegato, che a tutte le ricchezze, all'argento e all'oro, Sinàn ha concesso di luccicare al sole, bestemmiando Maometto al posto del Signore").

Le due tracce successive riportano la narrazione e l'atmosfera nell'antica Genova, e danno piena voce a figure di emarginati. La "pittima" ovvero l'esattore di debiti privati per conto terzi, lamenta la sua condizione precaria e pericolosa, rivendicando con orgoglio la "rispettabilità" del suo mestiere meschino. In "A Dumenega" le prostitute genovesi, relegate nel ghetto per tutta la settimana, in libera uscita la domenica, passeggiano per la città come gran dame, schernite dalla folla ipocrita degli abituali frequentatori dei bordelli cittadini. È bene anche ricordare che anticamente i proventi dei bordelli erano incamerati dal comune di Genova, che con essi ricopriva quasi interamente le spese di manutenzione del porto.

L'ultima traccia, "Da me riva", è una "ode del distacco", il pensiero malinconico del marinaio che riparte, ancora una volta, e saluta la propria compagna, rimasta a riva, ormai solo un profilo lontano, controluce.

venerdì 9 gennaio 2009

Gerhard Richter: «I nuovi ricchi hanno mandato in malora il mercato dell'arte»


Intervista al grande pittore tedesco di Farah Nayeri (traduzione di Maria Adelaide Marchesoni)

Le pareti della Serpentine Gallery a Londra sono coperte di grafici colorati di quel tipo che si possono trovare di solito nei magazzini hardware. Solo che questi colori non sono stati raggruppati: verdi, blue o rossi, ma sono stati disposti casualmente, sistemati in griglie a intitolati: "4900 colori. Versione II" dell'artista tedesco in mostra fino al 16 novembre.
Gerhard Richter (Dresda, 1932) ha usato la stessa tecnica casuale per disegnare le vetrate di acciaio e vetro della Cattedrale di Colonia: 11.500 quadrati in vetro soffiato furono prodotti in 72 colori. I 49 pannelli della Serpentine possono essere disposti in 11 modi, fra cui anche una versione che mostra tutti i pannelli, uno accanto all'altro.
Richter, 76 anni, ha disegnato a lungo griglie colorate. Nella metà degli anni 60, mentre era occupato a realizzare quadri basati su fotografie, riprodusse grafici colorati su grande scala.
Nel corso di un'intervista rilasciata a Farah Nayeri di Bloomberg News, avvenuta in Galleria, Richter, che indossava una giacca scura e una polo blu, parlava senza pregiudizi degli stili di pittura, del mercato dell'arte e di Damien Hirst, qualche volta cercando un aiuto dal traduttore.
Con la testa rapata a zero e gli occhiali, somigliava a un professore universitario.

Nayeri: Che cosa rappresenta il suo lavoro?

Richter: Proprio all'inizio, quando dipingevo dopo il periodo delle fotografie, entrai in un negozio di colori. Vidi questo piccolo catalogo con le carte colorate, e pensai "Come è bello!". Albers (l'artista tedesco Josef) affermò che solo i colori speciali sono abbinabili ad altri, e la vera arte li potrebbe unire. Io pensavo: "Non è vero: si possono mettere insieme colori su colori" vedi Bacon, Rothko.

Nayeri: Così lei ha messo insieme i colori in modo casuale e ha funzionato?

Richter: Devi prima prepararli oppure fare una scelta. E' comunque un lavoro impegnativo. In questo caso sono 25 i colori, che stanno bene insieme. Devi rappresentare l'intera gamma.

Nayeri: Londra sta ospitando una mostra su Francis Bacon e Mark Rothko (entrambe alla Tate Gallery) e una sua mostra. Sembra una celebrazione della pittura. A che punto è oggi la pittura?

Richter: Sono molto contento che ci sia un ritorno alla pittura, sento che è un contrappeso a tutta la pazzia che sta invadendo il mercato dell'arte, dei prezzi eccessivi pagati per le opere d'arte. Il mercato dell'arte è andato in malora. Questo è successo con l'arrivo dei Russi, dei Cinesi e dei nuovi ricchi. Non hanno cultura. C'è la necessità di comprendere l'arte e avere sentimento.

Nayeri: Così, questo mercato è trainato da persone che considerano l'arte una commodity o un investimento?

Richter: Sì… divertimento.

Nayeri: Non sta però forse anche lei beneficiando dell'"inflazione" presente nel mercato dell'arte? I Suoi lavori ora hanno prezzi elevati.

Richter: Sì, certo, è così, o almeno i prezzi sono più elevati che in passato; però solo i miei lavori meno recenti hanno quotazioni elevate, mentre i nuovi tendono ad andare a galleristi e con queste opere non faccio certamente molto denaro.

Nayeri: Cosa pensa dell'ultima asta di Damien Hirst, in cui l'artista ha bypassato gli intermediari e si è rivolto direttamente a Sotheby's?

Richter: E' un genio, un genio finanziario!

Nayeri: Intende fare lo stesso?

Richter: No, no, io non posso!

Nayeri: Perché no?

Richter: Ho ricevuto l'educazione sbagliata per poterlo fare, e ormai è troppo tardi per cambiare!

sabato 3 gennaio 2009

Francesco Morena, un bisiaco star internazionale dell'architettura


Francesco Morena, pur lavorando ormai da anni in giro per il mondo, ha deciso di costruire la sua base operativa nella nativa Monfalcone. Un segno d'amore per la sua terra ed una speranza, per tutti noi che come lui l'amiamo, di poterla migliorare, sempre, facendola diventare un trampolino di lancio di nuove idee nel mondo, idee nate anche da quel gusto di fare le cose bene che ci hanno tramandato i nostri avi. Assieme a Cappello, Elisa e tanti altri talenti nati in Bisiacaria.
Ecco allora, qui di seguito, due articoli dedicati a questo importante architetto monfalconese.


venerdì 9 gennaio 2009
Francesco Morena: Sono orgoglioso di essere un bisiac
CALANDARIO DEDICATO AI BIG: QUEST’ANNO IL CALANDARIO VA A UN MONFALCONESE

Il Circolo Brandl ogni anno lo dona ad artisti, musicisti, sportivi …. bisiachi divenuti famosi nel mondo.

TESTIMONIAL PER L’EDIZIONE DELLA TREDICESIMA EDIZIONE L'ARCHITETTO FRANCESCO MORENA.

L'architettura quest'anno ha fatto da sfondo alla consegna del Calandario dei paesi bisiachi al testimonial prescelto. Francesco Morena, monfalconese, architetto di professione e bisiaco nell'anima. "Sono orgoglioso di essere un bisiac - ha affermato Morena - e sono convinto che le tradizioni delle nostre terre siano da portare avanti."
Dopo Fabio Capello, Gino Paoli, Polo Rossi, Elisa, Stefano Zoff, Mauro Pelaschier, Luigi Delneri, Massimo e Adriano Gon, Luca Dordolo, Claudio Tuniz, Giovanni Maier e Claudio Pascoli è stato dunque l'architetto Morena il testimonial individuato dal circolo Brandl, per la consegna del Calandario dei paesi bisiachi 2009, donatogli da una delegazione del circolo stesso, dai due autori, Dorino Fabris e Sergio Gregorin in compagnia di una rappresentante del Gruppo costumi tradizionali bisiachi.
A vedere un bisiaco divenuto famoso nel mondo è stata dunque la sfera dell'architettura, un ambito ancora non toccato dalle consegne del calandario. Morena, nato a Monfalcone e residente a Duino, si è laureato in architettura a Venezia negli anni Ottanta con Aldo Rossi: ha conquistato i Cinesi con il progetto di una nuova città da 100 mila abitanti e non solo. Sta lavorando al restyling di Tong Li, una delle città più antiche e tutelate, patrimonio dell'Unesco dal 2000, situata a mezz'ora da Shangay dove ha uno studio; un altro studio lo ha a Bruxelles senza dimenticare quello di Monfalcone. Si definisce un "architetto di provincia" che ha però vinto concorsi internazionali, ha partecipato alla Biennale dell'Architettura e sta appunto lavorando al piano completo di restauro per una delle più pregiate città storiche cinesi, una sorta di piccola Venezia lacustre: master plan e progettazione della città nuova; elaborazione di una cintura ecologica, basata su un modello di sostenibilità ambientale che qui è novità recente. "Lavoro con un collega cinese, e lavorare in quei luoghi significa entrare in una mentalità diversa, in un modo di interagire lontano dal nostro, ma pur sempre affascinante." Morena ha spiegato come sia diverso lavorare in un ambiente come quello orientale e come, pur trovandosi bene, non dimentichi le sue origini di cui è orgoglioso. Onorato dell'omaggio fattogli ha salutato il gruppo augurando buon lavoro per il futuro.

Elisa Baldo








"Monfalcone è in provincia di Shanghai"
di Enrico Arosio

Non è una star dell'architettura. Ma ha conquistato i cinesi. Per realizzare una new town da 100 mila abitanti.
No, lui alla carica dei 500, i 500 imprenditori e operatori del made in Italy portati in Cina da Romano Prodi,
non ha partecipato. In quei giorni di settembre, mentre il presidente del Consiglio, quattro ministri e 12
delegazioni delle Regioni vorticavano tra Pechino e Shanghai tra centinaia di incontri bilaterali, lui,
l'architetto Francesco Morena se ne stava a Monfalcone provincia di Gorizia. A pensare a cosa? A Tong Li.
Alla città di Tong Li, una delle più antiche (tracce archeologiche di 5 mila anni fa) e più tutelate, patrimonio
Unesco dal 2000, a mezz'ora di strada da Shanghai; e anche alla Tong Li del futuro, alla new town da 100
mila abitanti da progettare e realizzare nei prossimi anni, chissà quanti.
È una nuova storia che arriva dal Nord-Est. L'avventura di un "architetto di provincia" (parole sue) che,
senza l'aiuto di Prodi, di Berlusconi, di un ministro, della Confindustria, dell'Ice, della Regione, di un
partito, di una lobby, ma solo grazie al suo lavoro e alle sue idee, ha trovato un Eldorado in Asia. Il salto di
qualità. L'occasione della vita.Chi è Francesco Morena architetto di provincia? È un professionista estraneo
allo star system italiano; fino a oggi: la sua presenza alla Biennale Architettura (con visita ed elogi del
presidente Davide Croff ) è anche la fine del suo anonimato. Il progetto Tong Li è una missione da far
tremare i polsi: piano completo di restauro per una delle più pregiate città storiche cinesi, una sorta di
piccola Venezia lacustre; master plan e progettazione della città nuova; elaborazione di una cintura
ecologica, basata su un modello di sostenibilità ambientale che qui è novità recente. Il tutto in società con
un collega cinese, anzi "un grande, vero amico", dice Morena mostrando una foto di loro due che discutono
con ampi gesti davanti a un porta di pietra di chissà quale dinastia. L'amico è Mi Qiu (leggi: Mi Ciu), artista
e architetto della generazione Tienanmen, una testa fine, un protagonista della intellighenzia under 50 di
Shanghai. Com'è successo tutto quanto?
Morena è di Monfalcone, città di cantieri, alle spalle il Carso, davanti il mare. Abita a Duino, sull'acqua, non
lontano dal castello dove soggiornò Rilke e che incantò i viaggiatori inglesi e danubiani. Ha cinquant'anni,
capelli corti, occhi chiari con un bagliore metallico. Indossa giacca nera gessata e T-shirt di Versace,
un'aria come da tedesco, cui si aggiunge una Porsche Carrera nera con interni in pelle color senape. A
Francoforte, guarda un po', ha lasciato una ex moglie tedesca, con figlio. La Porsche segnala i primi soldi
cinesi? Lui ridacchia, il suo nuovo studio a Monfalcone, 1.200 metri quadri in un edificio da lui progettato
con grandi vetrate accanto alla chiesa di Sant'Ambrogio, gli costerà oltre un milione 200 mila euro. Morena
ha una prima vita curiosa. Laureato a Venezia con Aldo Rossi, nei primi anni Ottanta era incerto se fare
l'architetto o mantenersi come pianista e cantante di blues con il suo gruppo Venice. "In Germania ho
suonato moltissimo, ma anche a Los Angeles, e funzionava, incidemmo anche qualcosa", racconta: "A
Francoforte era l'epoca del progetto 'Das neue neue Frankfurt', mi studiai bene, perché li vidi nascere, i
cantieri dei nuovi musei di Richard Meier e Hans Hollein. Aprii uno studio, lavorai due anni, poi rientrai in
Italia. Pensavo che sarei rimasto quel che mi sentivo: un architetto territoriale, che lavora a casa sua".
Si sbagliava. Cominciò con case, casette, negozi, villette. Poi condomini, alberghi, centri commerciali,
interni delle navi Fincantieri, poi gli shopping center di nuova generazione, quelli che hanno ricoperto di
'schei' tanti imprenditori nordestini. Infine il recupero di una grande area mineraria dismessa a
Bruxelles-sud, da trasformare in La Citadelle, quartiere multifunzionale con residenze, shopping, campi
sportivi e un po' di buchi dei mineurs come memoria e come attrazione.
"Ma qualcosa mi mancava. Sentivo che stavo cambiando: cercavo più qualità, più profondità, più senso",
racconta Morena mentre attacca uno scorfano al forno davanti al mare calmo di Duino: "Più che un
architetto mi pareva di essere un cameriere in un ristorante di lusso. Gli impresari pensavano al soldo. E
l'architettura era entrata in quest'era neobarocca, da fiera delle vanità, tecnologia esibita e
autocelebrazione. E io iniziavo a chiedermi: facciamo nuovi shopping center, ma noi cittadini viviamo
meglio? O siamo tutti omologati, un po' come l'effetto turbodiesel? Con le station-wagon che sgommano
ai semafori più di me in Porsche?".
ATTUALITÀ
Pagina 1 di 2

Page 2
Nel 2004 arriva il fulmine. Parte dalla Svizzera, si scarica in Cina e illumina il suo vecchio studio a
Monfalcone. Una società di Lugano attiva con i developer cinesi, la Eurofinanziaria, invita Morena a tenere
una conferenza in un albergone di Shanghai sui rapporti tra la Cina e l'architettura europea. Morena non è
allenato: studia e si butta. L'intervento piace. Gli arriva un messaggio da un costruttore, Ma Xiao Ping:
vuole conoscerlo. Ne nasce l'incarico per un albergo di 500 camere, a forma di pesce, inclinato sul mare, e
altri edifici su un'isola di fronte a Shanghai collegata alla terraferma da un ponte di 32 chilometri.
"I rapporti di lavoro in Cina si consolidano in tempi lunghi", spiega Morena: "Se vuoi vendere il progettino e
far soldi al volo, è il posto sbagliato. Devi costruire l'amicizia, la fiducia. E direi anche lo scambio
spirituale. Con Ma si è parlato del rapporto fra terra e cielo, di orientamento Feng-Shui. Mai successo nulla
di simile con i miei clienti italiani". I cinesi lo stupiscono: "Per il loro narcisismo", dice. Ma è chiara la loro
ammirazione per la civiltà italiana, costruita sulle individualità, le soggettività, gli autori di grandi gesti.
Imprenditori cinesi gli presentano Mi Qiu, artista e architetto che dopo piazza Tienanmen era emigrato in
Svezia, Germania e Francia. Magro, simpatico, molto colto, capelli lunghi da rockstar. Diventano amici
parlando di tutto, di archeologia, filosofia, musica. "Notti intere a parlare, con una spontaneità come non
mi capitava da quando ero ragazzo". Mi Qiu lo introduce all'amministrazione di Tong Li, al governatore
della provincia. Tong Li, vecchia e nuova, è cosa loro. Il progetto riguarda 4 milioni di metri quadrati: sei
volte l'area di Milano-Bicocca. Da tre persone il suo studio è cresciuto a venti, dalla sera alla mattina.
I developer cinesi che avranno i terreni in concessione per 50 anni hanno partner finanziari svizzeri. Si
dovrà restituire, dopo i restauri, la città antica agli abitanti. Qui il turismo interno è cresciuto del 200 per
cento in pochi anni. Per ideare la città nuova, in una topografia complessa di laghi e di canali, tra boschi
intatti, luci azzurrine ma anche foschie e grigiori, bisogna creare team di specialisti: pianificatori,
paesaggisti, esperti di mobilità. "Faremo una squadra italiana", già Morena ha contattato il collega veneto
Aldo Cibic. Bisognerà valorizzare gli edifici rappresentativi sull'acqua, il municipio, il teatro, il centro
congressi, pensare ad alberghi, area business, zone residenziali: un'enormità. Il suo primo riferimento
europeo è lo sviluppo a mare di Barcellona. Funzionerà? Sul computer c'è una foto di lui con Mi Qiu in un
bosco insieme al governatore: "Romolo e Remo", sorride. Appare incredulo, e insieme adrenalinico. "In Cina
l'inizio è molto, molto lento. Ci vuole pazienza e anche modestia. Ma una volta partiti non ci si ferma più".