giovedì 6 novembre 2008

Gianni D'Elia: verso Pordenone e il mondo


VERSO PORDENONE E IL MONDO



Tal sercli net da li pupilis
dai zovinùs in cieris lontanis
il sigu nòuf da li sisilis,
il veciu ciant da li ciampanis
a colin sensa scaturìju.

<>
e dis-ciapinela pal sulisu
a cor a vistisi par zì ju
in Glisia pai ciamps zà clars.

A torna ch’a son un puc pì clars.
A stissa il fòuc, a met a boj
il lat, a distira tai bars
li intimelis blancis, i ninsoj.
A svualin intor li òdulis.
I fis sot il biel suf biont,
a vuardin sensa pì jodilis:
a àn dismintiàt li so sfiòndis
zint ju viers Pordenon e il mont.

Pier Paolo Pasolini



Il treno ricomincia a rallentare. Poco a poco, emergendo dal caos informe in cui fino a un momento prima erano immersi, riemergono timidi, quasi indecisi i lineamenti della campagna friulana. La linea è quella che porta da Trieste, facendo scalo a Udine, a Venezia. Nel capoluogo friulano bisogna scendere per cambiare. Lungo i corridoi, in cerca del proprio binario, si incontrano tra studenti con cappellini, giubbotti tutti uguali e le immancabili Nike ai piedi, gli sguardi tristi dei soldati e le prime prostitute di colore che si dirigono, in vista della notte, verso Trieste o Pordenone. Assonnate, senza trucco, sono vestite con tute da ginnastica, magliette anonime su cui si adagiano, spesso, cupe cascate di treccine ornate di conchiglie. Molte di loro vengono dalla Nigeria o dalla Sierra Leone; alcune, le più allegre tra loro, probabimente da qualche zona del Sud America. Parlano in uno strano spagnolo, o forse portoghese, incupito dalla lontananza, dalle loro voci profonde, nasali. Si capisce, da subito, che quello che in questo momento si riflette nei loro occhi è un mondo freddo, destinato a rimanere, forse per sempre, estraneo.
Ci sono spazi, come questi, in cui ci si trova come cadendo nel vuoto. Niente a cui potersi aggrappare. In cui anche rimanere fermi ad aspettare non dipende mai da noi. Ma da orari prestabiliti o, spesso, dai sempre più numerosi ritardi. Allora, anche se il treno che arriva si sa, come accade con questo, che ripartirà solo fra mezz’ora, salire in fretta, quasi facendosi strada tra quelli che scendono, del tutto illogicamente, appare come una specie di liberazione. L’importante è passare in un altro luogo, un altro spazio. Trovare, sdraiandosi sui sedili, una collocazione. Un punto fisso da cui affacciarsi e tornare magari a fissare, con altri occhi, quello che fino a poco prima era assorbito senza scampo dal vuoto. Operai che agganciano le carrozze tatuate durante la notte con le bombolette spray; il venditore di panini, un colombo che scende in volo sul marciapiede di pietra chiara, lisciata da migliaia di passi.

Lentamente prima, poi sempre più veloce, il treno riparte. Poco fuori città, oltre i caseggiati della periferia, si tornano a rivedere i primi pioppeti, qualche gelso, le rogge che scandiscono ritmicamente le distese dei campi. Man mano che si va avanti ci si immerge in un’altra atmosfera, diversa da quella udinese, cittadina e borghese, anche se non più - come la descriveva Pasolini - appartenente ad un mondo contadino, arcaico, legato al succedersi ciclico delle stagioni. Rimangono ancora grandi, a volte immensi appezzamenti coltivati a mais, soia, filari interminabili di vigneti, ma i contadini sono rimasti in pochi. Poche decine di famiglie in cui da tempo, alle molte braccia, si sono sostituiti moderni macchinari. Ai lati delle strade le file di salici gialli, che venivano piantate per ricavarne i lacciuoli per legare le viti, sono state sostituite da insegne di faesite dipinta con slogan triti di banche o di grandi magazzini, sexi-shop, cantine sociali.
Certo, la memoria di ciò che era, quell’immagine di terra romanza fissata per sempre nei versi dei poeti dell’Academiuta, riesce ancora a sopravvivere e sovrapporsi, per un momento, a questi segni di morte che l’intaccano e nascondono, come i bozzoli bianchi, nuvolosi delle processionarie gli aghi verdi dei pini. Ma per quanto? Se nulla, forse, sopravvive all’erosione del tempo come la poesia, questo non basta a salvare, però, i luoghi cantati nei suoi versi. Anzi, forse tutto questo non fa che renderne in un certo senso, mantenendo vive davanti agli occhi queste lucenti immagini del perduto, più doloroso il ricordo. Anche se l’occhio capta ancora, e spesso, angoli sperduti di quiete, fitti boschetti di rovi e acacie, muri calcinati di casolari su cui al mattino, come su di una vela tesa, tra le onde terrose dei campi nudi si riflette la prima luce rosata.

* * *

A Casarsa della Delizia, dove Pasolini visse e scrisse i suoi versi friulani, c’è un’altra fermata. Da lì, poco più che adolescente, mi recavo a piedi verso Versuta, un piccolo borgo dove il poeta con sua madre visse durante la guerra. Ci andavo a piedi, forse l’unico vero modo per capire un paesaggio. Di assorbirne i colori, coglierne i profumi. In macchina, ovunque si vada, è da dietro un vetro, ad una velocità non nostra, che attraversiamo i luoghi. Li attraversiamo; ma questo non basta: l’importante è essere attraversati dai paesaggi che incontriamo. Bisogna respirarli, lasciare che penetrino dentro, in ogni fibra, attraverso i pori della nostra pelle.
Anche a Versuta le cose negli anni sono molto cambiate. Resta ancora però presso una casa colonica, segnalata da una targhetta, la fontana cantata nei famosi versi d’apertura delle “Poesie a Casarsa”:

ë ü ç ï ö ä© b ê û î ô â á ú í ó


Fontana di aga dal me paìs.

A no è aga pì fres’cia che tal me paìs.

Fontana di rustic amòur.


Fontana d’acqua del mio paese.

Non c’è acqua più fresca che nel mio paese.

Fontana di rustico amore.

Tra i campi lì vicino si trova anche, mezzo diroccato e senza più il tetto, il “Casél”, una piccolissima costruzione in muratura per tenere gli attrezzi dove, durante la guerra, Pasolini faceva da maestro ai bambini della zona. Rami di alberi entrano dalle finestre senza vetri in quel luogo in cui - esperienza quasi unica in Italia - venivano discussi versi di Penna e Machado, Caproni e Lorca. Nascevano qui, tra i campi, poesie nuove e traduzioni in friulano dallo spagnolo, dal catalano, dall’inglese, mentre si andavano formando alcune delle maggiori personalità della cultura friulana del nostro tempo. Una lezione, dopo quasi mezzo secolo, mai appresa, o solo in minima parte, dal nostro sistema scolastico. Destinata a consumarsi, probabilmente, tra quelle macerie. Macerie che però, riprendendo un pensiero di Wittgestein, diventeranno “ alla fine un mucchio di cenere, ma sulla cenere aleggeranno spiriti”.
A Versuta abita ancora Ernesta, una gentile contadina che aveva affittato una stanza a Pasolini e a sua madre quando Casarsa, per via dei bombardamenti, era diventata troppo pericolosa. Racconta di quando morì Guido, il fratello, nella strage di Pòrzus, e Susanna rimase per giorni abbracciata a Pier Paolo fissando, lontane, le cime azzurrine delle montagne.
Chiacchierando insieme, ogni tanto mi diceva in veneto: “Pasolini el iera un omo bon, bon”. Sempre gentile e disponibile, era molto amato dalla gente semplice di qui che ancora non si capacita delle modalità della sua morte.
Raccontò, prima di congedarsi, che un giorno gli chiese: “Dimmi, Pier Paolo, poiché io sono ignorante e non capisco queste cose, secondo te, che hai studiato, esiste Dio?”. Lui, dopo un attimo di silenzio, le rispose: ”Dio c’è”. E tornò a ripeterci questa sua risposta fissandoci con un’aria solenne, come a volerla sottolineare meglio, per tre volte di seguito.

Proseguendo ancora si arriva a Codroipo del Friuli, dove vive Amedeo Giacomini. Piccolo di statura, la barba bianca, il suo corpo come il suo sguardo tormentato trasmettono un’energia interna che i malanni fisici, le dure prove che ha dovuto attraversare, non sono riusciti a spegnere. I suoi lineamenti ricalcano la tempesta interiore in cui, fin da giovane, ha dovuto dibattersi. Spirito combattivo, polemico nel voler ristabilire ad ogni costo la verità dei fatti quando la vede minacciata. Parla nelle sue liriche di giorni immersi nel buio crogiolo della malinconia -Tal grin di Saturni, nel grembo di Saturno come dice una sua poesia - ma segnati nel fondo da una “barbara speranza” che lo porta, ugualmente, ogni giorno a tentare di ricominciare daccapo:

ë ü ç ï ö ä© b ê û î ô â á ú í ó


Jo, nassut di zenar,
fì de ploe e de nef,
tampieste tal cour di une mari
ch’a no mi voleve,
scampanotà di cjampanis
a saludà il miò no vole jessi tal mont...
’Ste’ barbare speranze
ch’a ti à fat vivi tal grin dal jessi,
grin di Saturni, ti puarte, madrac vert,
a sbrissa ta lis sfesis,
ombrene malade, gjat avostan...
Il fouc e la sinise, cjalde cjaresse
sul trima dai vues, ti sburtin
ogni di a sercja di scuminsa...


Sulle pareti, tra i molti quadri, pende un lavoro in pelle di Luciano Fabro, il grande artista concettuale, che è anche suo cognato. Ne possiede molti altri, forse anche più belli, ma, dice, non c’è spazio sufficiente. Dietro a lui, invece, si staglia una delle più belle incisioni di Zigaina regalatagli in occasione della pubblicazione del libro Mistieroi- Mistirus, con una prefazione di Padre David Maria Turoldo, in cui appare la sua traduzione in friulano del famoso poemetto di Zanzotto.
Amedeo fuma in continuazione. Spegne nel posacenere già colmo una sigaretta dopo l’altra, affondato nella poltrona del suo salotto, mentre il cane Mozart - il “salvato dalle acque”, l’ultimo di una cucciolata destinato a morire - gli si infila sotto le gambe, guarda incuriosito gli ospiti o si volta verso Sandra, la moglie di Amedeo, in cerca di una carezza. Mozart deriva il suo nome dalle sue insolite qualità canore: più che abbaiare sembra inseguire, con grazia, qualche confusa traccia melodica ascoltata in chissà quale altra vita.


Il cjanut ch’a’ ti sta intor,
botul dols e pelos di cjarina
quant che il cour, lat d’ aghe lamie,
al trime intal glas di une vite
ch’ ’a ti rive al sveati svintade,
chel bastart squasi ros che il segret
al cognos dal sta par sé sense dole-si
se il fret distac di cheatris
a’ lu insit sicu piere tal quadri,
al dà la misure, bajant,
dal tiò jessi siarade e lontane...
(...)

Il cagnolino che ti sta intorno,
botolo peloso e dolce da accarezzare
quando il cuore, lago d’acqua insipida,
trema nel ghiaccio di una vita
che ti giunge al risveglio portata dal vento,
quel bastardo quasi rosso che il segreto
conosce dello stare per sé senza dolersi,
se il freddo distacco dagli altri
lo incide come pietra nel quadro,
dà la misura, abbaiando,
del tuo essere chiusa e lontana...

Giacomini, come anche Ida Vallerugo, si è dedicato alla scrittura in friulano dopo aver iniziato come apprezzato narratore e poeta in italiano. E, anche in questo caso, l’occasione scatenante è stata il terremoto, come una sveglia che abbia bruscamente riportato alla realtà, alla propria prima esperienza della realtà, due tra i più raffinati sperimentatori in lingua della nostra regione. Come un conto in sospeso, dimenticato nel tempo, che chiedeva di essere saldato. Un appuntamento, di cui non si sapeva nulla, ma che ugualmente non si poteva più rimandare.
Oltre a Pasolini, oggi, è difficile trovare un altro autore in Friuli della statura di Giacomini: opera dopo opera, fino alle ultime, altissime prove, la sua produzione lirica si è imposta come una delle esperienze più importanti nella storia della letteratura italiana (anche se, a differenza degli altri grandi nomi della poesia in dialetto tutti editi da grande case editrici, i piccoli, molto raffinati editori con cui ha pubblicato, non sono mai riusciti a farlo conoscere bene al grande pubblico ). Filologo finissimo, traduttore dal francese, di testi provenzali e dell’Historia Longobardorum di Paolo Diacono, dirige tra l’altro la fondamentale rivista dedicata ai dialetti Diverse Lingue. E’, inoltre, un grande conoscitore degli uccelli e questa sua esperienza è confluita nei suoi due trattatelli intitolati L’arte dell’andar a uccelli con vischio e L’arte dell’andar a uccelli con reti.
Se la lingua di Pasolini è quella materna, elegiaca, in cui il confronto con la realtà si scioglie sempre in una visione lirica e trasognata, addentrata in una lontananza quasi mitica, il friulano addottato da Giacomini è quello duro, intercalato da imprecazioni violente, dei padri. Il confronto con l’esistenza, nella poesia di Giacomini, non è separato dal diaframma delle mediazioni. Come nella vita, la sua parola penetra direttamente nel cuore delle cose.

A’ si reste chi a regjistrâ events,
suts i vôj, doprant peràulis
ch’a no nus làssin scjamp,
vueits di sens e di spassi
intal reliquiari ch’al fo dai siumps.
E a’ no si vores ch’ ’a si jevassi buere
a tirâ- sú i ôrs dai dîs,
a mostrâju crots intune lûs di vêri.
Li piíssimis mòscjis a’ nus svuàlin intôr
insiliôsis ’romai pluj di vècjus sarpints.
’I lassin lâ la man sul ôr dal sfuej
fermant ancje i zesç.
Un orloj di lontan
al bat intal sanc òris di pene.

Un affondo doloroso, spietato a volte, ma naturalmente votato al canto, come se, nelle sue poesie, anche l’aspetto più brutale della vita non fosse destinato ad altro che a questo: a un canto ininterrotto che, come negli uccelli accecati da richiamo, si conclude solo con la morte. Un’estrema dissipazione di sé fino ad annullarsi, ma che resta il prezzo da pagare per dare una voce all’esistenza che arde dentro di noi.
Perché ciò che distingue subito l’opera di Giacomini, la rende diversa da quella di molti altri scrittori in lingua e in dialetto contemporanei, è proprio la profonda musicalità che permea tutti i suoi versi. E non si tratta, qui, soltanto di lirismo, ma di vera e propria musica, come se, a seconda delle stagioni della vita o degli stati d’animo, egli sia andato componendo di volta in volta un tango o un preludio orchestrale, una composizione corale o un lied, un canto d’amore.

Tu èris pai miei làvris
more madure di morâr.
’A ti rideve tai vôj ’ne dolse sede,
promesse a traimi-four
di là che il sorêli al ere une feride,
aghe clare, lusinte
pa la mê sêt di sbisse
sbrissade fra li’ sfésis dal estât.
O li fiéstis de viarte
su la cise dai rosârs!
Il tió cuarp di agane
al fermave la lûs
tanche sui pètuj li’ pèrlis de rosade.
Strénzilu, peâti
al fo jessi agnul
colât tal cour dal mont,
ta une tiare uarbe di pecjât.
Pò al vigní misdí; pò sere...
Vualive si speglave tai flancs
’ne strache pâs:
al suplît amôr
la glorie dai cuarps scunîts
’a no j bastave.
Ti ài piardude par pôre di no savê
peràulis a disi la fan di té rinade;
j’ ti ài piardude ch’ j’ eri cjoc
inmò di ben e di bieltât...
Amôr, se pùar ch’ al é il lengas de gionde!
Mitût di bande
j’ mi disfâs cumò in tardívis soledâts.

Sono i suoi ultimi lavori comunque, come questi, a rappresentare i vertici della sua produzione. Presumut Unviar e In agris rimis sono i libri della maturità, dell’avvicinarsi dell’ultima stagione della vita. Del farsi inverno, lasciate cadere le foglie come gli alberi, in un’estrema economia dei propri mezzi espressivi per fronteggiare l’attacco del nulla, del gelo. La parola si scarnifica, come restringendosi in un unico punto e rilasciando così, in seguito, la luce limpida nata da questa sempre più tesa concentrazione.


Al cale il soreli sul cil dal mont
turbul ’romai di siumps scuminsats.
Intor de’ cisis, grìviis d’ ombrene,
a’ svuàlin i gnòtui inmubinats.
Tra poc ’a muardarà la suite
i ors de gnot cu dinc dal siò strit
ch’ al plate ogni revoc maturìt.
’A é l’ore di piardi-si in sé
fats grancs di scusse dure
a strenzi il segret dal cour ch’al madure.

Non cambia il paesaggio descritto, ma la volontà di fuga presente nelle sue raccolte iniziali via via scompare per lasciar posto ad un incontro, sentito senza via di scampo, con il proprio destino.


(...) Bisugne impara a resisti.

No a la vìe. No a restâ,
a resisti,
ancje se di sigur
varin smenteanse ancjemò, dolur.

Le opposizioni brucianti, insanabili, che lo hanno tormentato per tutta la vita, tendono allora a dissolversi. Anche il dolore, così a lungo patito, pur senza estinguersi, anzi, sembra oltrepassato e si aprono allora, improvvisi, inattesi, squarci inattesi di liberazione:

In Friuli il rapporto tra musica e poesia, scaturito naturalmente dalla sonorità unica di questa lingua, ha origini antiche che si diramano fin nel presente. Una passione che contagiò anche Pasolini e che mantenne, poi, anche negli anni romani, partendo proprio dalla suggestione delle stupende villotte, le vilotis, caratterizzate come scriveva dalla

brevità metrica, che del resto si fa profonda nell’intimità dei contenuti, e vasta nella melodia: a esprimere come si canta uno spirito a volte ciecamente malinconico come possono esserlo certi sperduti dossi prealpini, di sera, d’inverno; e talvolta colmo invece di un’allegria accoratamente rozza, sgolata, di cui si empiono piazzette e orti nei vespri odorosi, nelle notti tiepide.

A Gradisca di Sedegliano, a pochi chilometri da Codroipo, abita anche il pianista Glauco Venier. Glauco è ancora giovane ma, dopo essersi diplomato in organo, ha intrapreso una carriera nell’ambito del Jazz costellata da numerosi riconoscimenti. Alto, dal fisico imponente, i capelli scuri incorniciano un volto che esprime la sua naturale apertura verso gli altri, verso ogni nuova esperienza creativa. Figura aliena alle mode e sfuggente ad ogni classificazione precostituita, sempre pronto ad affermare con forza il bisogno e il diritto di spaziare liberamente in più campi diversi senza per questo perdere la propria identità, Venier è considerato oggi come uno dei migliori pianisti europei viventi.
Come scriveva recentemente Carlo Boccadoro, in una sua recensione all’ultimo lavoro dell’autore friulano, “L’insiùm”, il pianismo di Venier è “memore dell’esperienza del Jarret di Belonging e My Song eppure perfettamente in grado di affrancarsi da quel modello per esprimere una personalità multiforme. Armato di un solido bagaglio tecnico che gli deriva da un passato di studi classici, Venier unisce l’assoluta bellezza del tocco a un uso molto controllato del virtuosismo, sempre incanalato verso il massimo dell’espressività di fraseggio. Anche le sue improvvisazioni si caratterizzano per un uso molto intelligente della costruzione, in cui ogni elemento è inserito in un nucleo compatto; nulla viene sprecato, tutto ha un senso, e spesso a Venier bastano poche note per creare una costellazione melodica piena di autentica poesia”.
“L’insiùm”, “Il sogno”, è un album di grande bellezza in cui Venier ha rielaborato brani popolari e poesie in friulano dal Cinquecento ai nostri giorni in chiave jazzistica: un atto d’amore nei confronti dei luoghi in cui è nato, al legame antico in questa terra tra musica e parola, con le migliaia di Villotte nella cui lingua preziosa, romanza, il profumo del lontano torna a spirare portato dal vento.

* * *

Pordenone, tra tutte, è forse la città che ha subito più trasformazioni fra quelle del Friuli. A partire proprio dall’uso del friulano che, qui, è stato sostituito da una parlata veneta importata dalla media borghesia quasi a segnare, una volta per tutte, il distacco dal mondo contadino. Da borgo rurale, difatti, nel giro di pochi decenni si è trasformata in uno dei centri industriali del Nord Est.
Le tracce del lavoro iniziato da Pasolini, però, non sono state cancellate. L’amore per la poesia sopravvive nell’opera di molti confluendo in importanti pubblicazioni a cura delle “Edizioni Biblioteca dell’Immagine” e, sopratutto, grazie a Gian Mario Villalta che qui ha portato in una serie di incontri i più importanti poeti italiani, da Fortini a Sanguineti, da Loi all’Anedda.
Alla fine del viaggio, di questo itinerario lungo le tracce di Pasolini e insieme della poesia in friulano, giunto a destinazione, nella torre antica di mattoni che hanno trasformato in una bella enoteca, tra il fumo e il tintinnìo dei bicchieri, guardo Gianni D’Elia mentre parla con la sua voce sottile. I capelli ondulati e fluenti, la barba, sulle guance, morbida e rada come quella di certi orientali, gli occhi vivi e attenti sotto le lenti cerchiate da una sottile montatura dorata. Le dita chiare ed eleganti. Aperto e disponibile, a tratti nella sua voce, tra i discorsi, s’insinua una nota dolorosa, come assorbito da qualche memoria triste che l’attraversa dal fondo del tempo.

...quanto più di me vivo privo,
non tardare nel nome dell’amore
a sentire levare lo sguardo del mattino
che passa in una solitudine perenne.

Con tanto silenzio la vera stagione,
anche se l’inverno è ovunque,
si alza altissimo nel cuore
dove udire e scorgere ogni volta.

Agli inizi d’autunno del’75 Katia Migliori, che stava allora allestendo l’indice ragionato della rivista Officina, telefonò a Pasolini per chiedergli un incontro. Il poeta le promise che finito il montaggio di Salò, a cui stava lavorando, l’avrebbe attesa a Casarsa, dove si sarebbe recato per qualche giorno a riposare. A quell’incontro doveva esserci anche Gianni D’Elia. La morte di Pasolini non rese mai possibile quell’incontro. La nostalgia per la scomparsa di un maestro come Pasolini veniva ad assommarsi così a quella, altrettanto bruciante, per un incontro che non è potuto accadere. Forse è stato anche questo avvenimento a far sì che nell’opera del poeta pesarese si ripresenti di continuo la figura di Pasolini, come se il lutto per quell’incontro così brutalmente sottratto dal proprio orizzonte, non potesse esaurirsi. Come se quel vuoto non si possa tentare di colmarlo che cercando, oltre la morte, un colloquio mai avvenuto.

Passato attraverso l’esperienza difficile, contrastata di Lotta continua, dopo aver vissuto fino in fondo la crisi delle ideologie, come egli stesso ricorda, “la poesia di Pasolini, la prosa e la letteratura critica di Officina, e in special modo le analisi storiche di Romanò, che legavano i testi e gli autori tra Ottocento e Novecento al contesto della società e della cultura italiane, mi sembravano di un efficacia incredibile. La crisi della politica ne veniva illuminata, in profondo, senza rifiuti formalistici, ma neppure senza indulgenze plenarie. C’era qualcosa che poteva capire la storia e interrogarla, oltre ogni idea di autonomia delle forme, a contatto con le idee del secolo, con le speranze e le disperazioni più vere di ogni vivo. Ed era la poesia, come forma di conoscenza, come indipendenza da ogni ideologia prescrittiva e di partito, come esercizio di un realismo critico e ideologico di pensiero, e proprio nel solco di una nuova conczione marxista ed eretica, come estrema risorsa anche morale dell’individuo anonimo,magari anche come scandalo della contraddizione e rifiuto delle logiche dominanti, politiche e culturali”.
Poi ci fu l’incontro fondamentale con Roversi, a cui seguì la pubblicazione del suo primo libro di poesie Non per chi va, e la necessità di attrezzarsi sempre più autonomamente, dando vita a una nuova rivista da farsi a Pesaro. Un’esperienza per molti versi unica nel panorama italiano, con quattordici numeri, usciti tra il febbraio 1982 e il novembre 1994. Innumerevoli interventi critici, interviste, racconti e sopratutto poesie di autori come Giudici, Luzi, Fortini, Pasolini, Roversi, Caproni, Bilenchi, Santi, Macchia, tra i tanti, tantissimi, che hanno collaborato e dato un volto - in forma più o meno diretta - a quella che rimane una delle più interessanti e importanti riviste di questi decenni: “Lengua”.

Nel corso di questi anni, per incontri o conferenze, Gianni D’Elia si è recato spesso in Svezia e, ultimamente, grazie alla sensibilità della casa editrice Artemisia, con sede a Helsinki, a cura di Elina Suolahti e Martii Berger, è uscito anche un elegante volume intitolato Voci di scrittori italiani, che raccoglie alcune fra le più note testimonianze pubblicate a partire dal primo fino all’ultimo numero uscito. Testimonianze di straordinario valore e densità ma, anche, di sorprendente godibilità, accomunate da uno stile limpido, da un cristallino nitore che permea anche i ragionamenti più complessi. Si apre così, già ad una prima lettura, un mondo attraversato da una mai sepolta passione per la scrittura, il ragionamento, ostile ad ogni improvvisazione gratuita, che prende rilkianamente le parti, sempre, del “difficile”. Esemplare, in questo senso, l’intervista a Fortini a cura di Attilio Lolini in cui - tra le altre - molto intense e significative appaiono le risposte riguardanti il suo modo di comporre:

Essere sottoposto all’occasionalità della lirica è cosa che ho sempre considerato come propria di una fase storica della poesia che rifiuto con tutte le mie forze e che mi pare legata, oggi, ad una tteggiamento errato e perfino puerile. Di qui l’ambizione, sempre regolarmente fallita, di altro: cioé di un discorso lungo. Quando oggi qualche voce critica (ad esempio Berrdinelli) mette in evidenza la relativa brevità della durata interna alle mie composizioni dice qualcosa di vero: ma erra solo se parla di epigramma. Ci sono, naturalmente, mie scritture che hanno e vogliono avere carattere di epigramma; ma è un’altra faccenda. La poesia non si misura con il doppio decimetro, e tuttavia quella critica ha ragione se vuol dire che nelle mie poesie c’è una forte tendenza centripeta. Ogni composizione si presenta come un nucleo, più o meno irradiante; di qui la difficoltà della sequenza e l’eccezionalità di composizioni come La poesia delle rose o Il nido che a me paiono a distanza e a memoria, incredibilmente lunghe mentre non lo sono affatto.
La composizione, quel che supera cioè il momento dell’immediatezza lirica è opera di architettura. Ho dovuto lottare tutta la vita perché la critica capisse - e finalmente c’é arrivata - che il rifiuto di pntare sulla “parola” era a favore della sintassi e della metrica e che quindi, nato e cresciuto in una poesia che aveva il culto della parola, accettavo una dimensione apprentemente prosastica puntando tutto sugli strumenti metrici e sintattici; sul periodo, cioè, sulle cadenze, sulle tensioni. Dietro la loro apparente disgregazione, nei libri da me pubblicati, si disponevano sequenze, blocchi, movimenti interni. La prosasticità gessosa con la quale ho per tanto tempo civettato può riscattarsi soltanto con una persino prepotente importanza conferita alle cadenze, alle cesure, ai ritmi.

Non meno interessanti e ricche di fertili suggestioni le due interviste a Mario Luzi, in cui ogni risposta, segnata da una grazia severa e penetrante, potrebbe dare l’avvio a una serie senza fine d’interrogazioni sul fare poesia oggi:

Ecco, la riconquista della naturalezza. E’ un pensiero, questo della naturalezza, su cui posso fare centro, un motivo caro da tempo, che mi preme. La naturalezza io la devo riconquistare continuamente, perché tutto va contro di essa: la convenzione, l’artificio, il patteggiamento conscio, inconscio, l’istituzione; tutto va contro, l’innaturale si ricostruisce di continuo ed io devo continuamente demolirlo, di libro in libro. Devo riconquistare la naturalezza. Se no va all’aria tutto. Quando ricomincio un libro - almeno fino ad ora così è successo - riorganizzo tutto daccapo, non c’è nulla del libro precedente che mi può servire, perché servirsene appunto, sarebbe già una perdita della naturalezza. E questo vale anche per la lingua di un’opera, sia in senso personale che generazionale. Ogni volta va riconquistato lo spirito contro la lettera, ogni volta va liberato lo spirito vivente del parlato, dell’esserci della parola, per potersi mettere in ascolto e poter accedere anch all’ascolto degli altri. Questo è il momento fondamentale, ed è soltanto a questo patto che l’operazione è linguistica nel senso totale, proprio del verbo. Non è più della tecnica espressiva che si tratta.

Uno spazio importante, in questo volume, è dato alla memoria: memoria, custodita e coltivata, di esperienze fondanti come quella di “Officina” a cui questa rivista, fin dagli esordi, ha sempre fatto riferimento; e memoria, infine, di autori che ripercorrono le tappe del loro percorso esistenziale, tratteggiando vive descrizioni di luoghi scomparsi, di poeti e narratori incontrati, impietosamente descrivendone, a volte, le debolezze, lucidamente ponendo in risalto la loro grandezza non sempre compresa.
Ricchissima e stimolante, in questo senso, la lunga “Conversazione in atto” di Gianni D’Elia con Roberto Roversi o quella con Piero Santi. Non bisogna tralasciare, tra le altre cose, il ricorrente interrogarsi sulla nuova poesia in dialetto, un punto di onore di questa rivista, che ritorna nelle risposte - diversissime ma tutte ugualmente illuminanti - sempre di Roversi, di Fortini, Luzi. Del resto, come scrive D’Elia:

Nel solco di un realismo critico e problematico, la rivista intende rileggere l’eredità del Novecento poetico, annettendovi la grande stagione della poesia in dialetto, con un atteggiamento paritario e inclusivo, non sostitutivo, della contemporanea rigogliosa stagione in lingua, in suggestione dantesca e materna.
Si devono al sottoscritto (...) le definizioni di “interdialettalità della lingua e letterarietà dei dialetti”, oltre al nuovo conio di “neovolgare”, per approssimazione alla nuova istanza creativa dei poeti neodialettali (Franco Loi, Raffello Baldini, Franco Scataglini, Amedeo Giacomini, Tolmino Baldassarri, fino ai giovani Giovanni Nadiani, Nevio Spadonie Nino De Vita, tutti ospitati con testi e studiati, insieme ad altri, sulla rivista.

Ma non bisogna dimenticare, poi, le lettere di Saba in risposta all’allora esordiente Sandro Penna o quelle, in cui in altra forma torna a configurarsi il rapporto tra “maestro e allievo”, se così si può ancora intendere un umanissimo confronto tra diversi saperi, che Pasolini scriveva, tra il ’56 e il ’57, al giovane Ferretti. E con Pasolini, con un ricordo che di Pasolini ci ha lasciato Elsa de’ Giorgi, si chiude, idealmente, questo volume. Un volume che, oltre agli autori citati, contiene altre, non meno alte testimonianze: segni lucenti di quella poetica della “compresenza” - lingua/dialetto, vita/opera, etica/estetica - che rimane uno dei più significativi contributi che questa rivista ha donato (arricchendolo di voci diverse e tematiche nuove) al panorama dell’attuale poesia italiana. Aggredendo, come alludeva una volta ancora Pasolini, e come ricorda Gianni D’Elia nella sua introduzione , “la nuova lingua...che dobbiamo tentare”.

Mentre ci alziamo per uscire il locale comincia ad affollarsi e, nel rumore che aumenta, si fondono confusi i saluti. L’aria di marzo già buia, fredda si dischiude oltre la porta. Gianni, accompagnato da amici, se ne va in direzione dell’albergo. La piazza di Pordenone per un momento, come in un sogno, resta irrealmente vuota, senza macchine, passanti.
Guardo gli alberi, tornando a piedi verso la stazione. Pensando a come bisognerebbe ripartire da qui, imparare dal silenzio di quella forza nascosta che costringe queste piante a mille contorsioni pur di sciogliersi dall’ombra in cui sono state piantate, quel bisogno di luce gridato da ogni ramo, ogni stelo tra i muri alti, i mattoni anneriti, scabri delle case.


Ivan Crico, 1996

Gianni D’Elia vive a Pesaro, dov’è nato nel 1953. Ha pubblicato le raccolte di poesia Non per chi va (Savelli, 1980), Febbraio ( Il lavoro editoriale, 1985), Segreta (Einaudi, 1989), Notte privata (Einaudi, 1993), Congedo dalla vecchia Olivetti (Einaudi, 1996). Ha fondato la rivista “Lengua”. Gli anni giovani (Transeuropa, 1995) riunisce una sua trilogia narrativa.



Note

Wittegestein, Pensieri diversi, Milano, Adelphi Edizioni, 1980, p. 20.

Pier Paolo Pasolini, Noterella sulla poesia friulana, in “Un paese di temporali e di primule”, a cura di Nico Naldini, Parma, Ugo Guanda Editore, 1993, p. 245.

La nuova poesia slovena



Nella foto: 1989, Ivan Crico e Ales Steger nella Chiesa di Santa maria in Monte a Fogliano (GO)

PIGNA, TROTTOLA...DADI...SPECCHIO
Un viaggio attorno alla nuova poesia slovena
di Ivan Crico


Perché il canto, emerso dal suo luogo natale, dopo il compimento, l’errare,
sia che di esso importi o no, debitamente ritorna...

Walt Whitman


Le case sono poche, lungo la strada; molte le facciate nude, quasi mai intonacate. I pagliai sui prati verdi, che risalgono i pendii fino a lambire i boschi, qualche mucca libera al pascolo. Entrando in Slovenia si entra, ancora, in un mondo che ripropone, come riesumati dal fondo dell’infanzia, i paesaggi dei nostri primi anni, quando campi immensi, canali, vigneti, isolavano i paesi nel silenzio della luce. Pause di lontananze in cui addentrarsi liberandosi via via in un mondo non più umano, ma fatto di germogli teneri che rigavano la terra umida, di odori d’uva sui tralci ormai matura, di un volo di tortore dal collare sopra ingrigite distese di stoppie allagate. Camminare o andare in bicicletta lungo le strade semideserte voleva dire, innanzitutto, lasciare che quel grumo irrisolto d’illusioni in cui crediamo di riconoscere il nostro io, si disgreghi sfaldato dal fitto andirivieni di luci sulle rogge, richiami di cince, sussurri di porcospini tra l’erba, riflessi aranciati sulle nuvole che ci sovrastano. Così, mentre quello che pensiamo di essere si scioglie come neve al sole, in quell’essere ogni cosa senza sapere mai esattamente cosa, riscopriamo la nostra più vera dimenticata immagine. Al di là ciò che, in noi, ci oscurava. “Cercare è trovare una strada affinché lo splendore possa fuoriuscire dal di dentro”, dice una poesia cinese.
Per questo, per entrare in questi luoghi, in questo mondo a lungo interdetto, sembra quasi necessario - più che altrove - lasciarsi alle spalle ogni nostra idea preformata: non sarebbe nient’altro che un impedimento, un velo attraverso cui guardare, riflesse, le ombre di quel mondo nuovo che si sta disegnando dall’altra parte.

In fondo, tra le montagne, Lubiana si dilata sulla pianura.
Nel cuore di questa bellissima città le cui facciate recano ancora i segni della passata dominazione austroungarica, oggi un ruolo molto attivo e stimolante è ricoperto dalla SOU, l’organizzazione degli studenti universitari, che da qualche anno, sostenuta anche economicamente dai Ministeri per la cultura e l’istruzione, pubblica i testi poetici di alcuni fra i migliori giovani poeti sloveni, come Taja Kramberger, Matjaz Pikalo, Ales Steger e Uros Zupan.
Poeti, come anche Ales Debeljak, Alois Ihan e Peter Semolic, accomunati da una medesima preoccupazione nei confronti dello stile e per un approccio originale - sconosciuto alla passata poesia di questo paese - ad un sorta di pseudoreligione vicina (come ricorda Michele Obit, poeta che per primo li ha fatti conoscere in Italia) ad una sorta di mistica medioevale.
Confini, fisici ed ideologici, vanno difatti dissolvendosi, e l’ago sensibile della poesia non poteva non registrare questi cambiamenti. E, se anche in molti luoghi si tenta ancora di erigere nuove barriere, divisioni, ogni tentativo, in questo senso, sembra inesorabilmente nel tempo, se non subito nel nostro tempo, destinato a fallire. Ogni cosa, cancellata la protezione rassicurante di uno spazio intimo, si ritrova esposta, raggiungibile ovunque - e non c’è riparo possibile. Possibilità di difesa. Tutto scorre attraverso tutto ed è in questa condizione di estrema incapacità a definirsi, mantenere un’identità precisa, in questa costante corrosione dei confini tra interno ed esterno, che l’individuo deve muovere i propri passi 1).
Eppure, anche se attorno tutto sembra muoversi - vista da fuori - la cultura del nostro paese appare ancora per molti versi ancora immobilmente chiusa in sé stessa, autoreferenziale. Una sorta di isola inaccessibile, difesa da argini invisibili ma, in larga parte, ancora invalicabili. E questo, oltre a limitare la libera circolazione di nuove idee provenienti dall’esterno ( la cultura di interi paesi è spesso da noi del tutto sconosciuta), rende poco comprensibili i nostri autori all’estero e quindi, di conseguenza, difficilmente traducibili.
Uscire da questa lunga impasse, da questa chiusura limitante, sembra la cosa più urgente per la nostra cultura e, insieme, per il nostro paese. La conoscenza di quanto accade vicino a noi, per cominciare, può essere determinante per studiare diversi approcci alle problematiche moderne, diversi modi di percepire l’esistente.

Prima di altri paesi l’Italia, attraverso il Friuli Venezia-Giulia, ha avuto per molto tempo, non sfruttandola appieno, la possibilità di accedere ad un mondo ignoto come quello dei paesi slavi; diventare, anche attraverso la conoscenza di queste culture, una porta verso l’Est, il mondo.
Dopo anni difficili ad esempio, in cui la libertà d’espressione veniva pagata a caro prezzo, la Slovenia dal ’91 ad oggi, dopo l’indipendenza, ha potuto assistere ad una stupefacente, rigogliosa fioritura di manifestazioni culturali, pubblicazioni, mostre, concerti che hanno, nella città di Lubiana, la loro chiara e fervida capitale. Introvabili, comunque, e inesorabilmente datate le quattro antologie di poeti sloveni contemporanei, a parte qualche sporadica traduzione di nuovi autori come Salamun su “Nuovi argomenti” e “Testo a fronte”, rispettivamente a cura di Edoardo Albinati e Giuliano Donati, le prefazioni e gli accenti critici di Arnaldo Bressan, Livio Guagnini, Jolka Milic, Giacomo Scotti, Giacinto Spagnoletti alle opere di Kravos, Pangerc, Zlobec e pochi altri ancora, si può dire che la Slovenia rimane ancora per noi, in larghissima parte, un continente tanto vicino quanto sconosciuto 2).
Ora finalmente, sempre a cura e con traduzioni di Obit presso l’editore ZTT EST di Trieste nel corso del 1998 è uscita una preziosa antologia, intitolata “Nuova poesia slovena”, che colma una grave lacuna nella comprensione di questo fenomeno di certo fra i più vitali ed interessanti nel panorama del mondo poetico contemporaneo. Un’antologia ricca di numerosi testi tradotti per la prima volta in italiano, ma in parte già noti da tempo all’estero, ed arricchita da una splendida e assolutamente indispensabile postfazione di Miran Kosuta in cui, con la solita profondità, questo studioso analizza le vicissitudini della moderna poesia slovena, dal dopoguerra ad oggi, e presenta l’opera di questi giovani autori (tutti nati dopo il 1960) perlopiù sconosciuti nel nostro paese.
Difatti, a parte il volume di Ales Debeljak Momenti d’angoscia (Napoli, Flavio Pagano editore, 1992), la prima organica presentazione di questi nuovi poeti in Italia risale appena al 1997, con un gruppo di testi inediti apparsi sulla rivista “CorRispondenze” a cura di Michele Obit 4). Altri testi sono stati pubblicati rispettivamente nei preziosi libriVoci dalla sala d’aspetto 5) nati a margine delle letture poetiche nell’incontro internazionale di poesia, musica, arte, danza a Topolò, sulle montagne al confine della Slovenia presso Cividale, e nel volume Di Fiamma e Ombra 6) che raccoglie i testi dei partecipanti ad una rassegna di musica e poesia che si tiene annualmente in un’antica chiesa rinascimentale a Fogliano, nei pressi di Gorizia. Piccole ma attentissime rassegne queste, come anche quella tenutasi a “Zona Centro” a Udine, che hanno avuto il merito di far conoscere per prime di persona, al pubblico italiano, questi autori.

Ma che cosa, già ad un primo ascolto, distingue la voce di questi autori dai tanti, anche grandi, giovani poeti europei contemporanei? Certamente ciò che più colpisce, in questi testi, è la naturalezza - a noi quasi ignota ormai - con cui questi autori si confrontano con i temi più ardui (e a volte abusati) della tradizione riuscendo, quasi miracolosamente, a creare testi poetici affatto banali. È come se, uscendo dal buio continuo di un lungo inverno, fosse concesso a questi autori di riappropriarsi, per un momento, di una giovinezza negata. E da qui, forse, la mancanza d'ogni timore nell’attingere a piene mani, armonizzandoli nell’onda di un comprensibile entusiasmo, echi simbolisti e beat generation, la tradizione ermetica e Pavese; da qui lo spirare, in ogni verso, di una ventata d’aria nuova che, pur non cancellando le ferite profonde del passato, sembra volgersi con fiducia - fiducia nella potenza trasformatrice della poesia - verso il domani.
Tutto questo, a differenza della generazione passata, sembra in qualche modo favorito dal continuo sfaldarsi d'ogni residua componente ideologica, per cui questi poeti risultano, rispetto ai loro predecessori, forse ancora più “moderni” (anche nella loro maggiore vulnerabilità) perché in fondo più aperti e privi di preclusioni di fronte ad ogni sollecitazione esterna. Molte esperienze del passato, forse troppo sbrigativamente messe da parte, da Stefane George al Surrealismo, rivelano così, rielaborate in questi nuovi testi, un’attualità insospettabile e potenzialità ancora tutte da scoprire.
Davanti dunque, all’improvviso, quello che si dischiude è uno spazio vuoto, sfrondato dalle ideologie del passato, nel quale il poeta deve, orficamente, “rinominare il mondo” e riscoprire - come è ricordato nella postfazione - con Schiller la “Lied” dormiente in ogni cosa.
Difficile indovinare, spenti i naturali e giustificati entusiasmi per una ritrovata libertà d’espressione, quali saranno gli sviluppi di questa poesia. Una naturale vocazione a confrontarsi con l’esterno, a intrecciare continui contatti (favoriti anche dalla approfondita conoscenza delle lingue straniere di tutti questi poeti) con molti autori di tutto il mondo, sembrano comunque sicure garanzie del mantenimento, nel tempo, di una produzione poetica qualitativamente elevata. Si vedrà, se sarà dato vedere.

* * *

Il primo degli autori antologizzati, Ales Debeljak, il più noto e affermato anche a livello internazionale tra gli autori della sua generazione, è nato nel 1961 a Lubiana. Poeta saggista e traduttore, laureatosi in letteratura comparata e filosofia a Lubiana, ha ottenuto il dottorato in sociologia della cultura alla Syracuse University di New York. Attualmente insegna sociologia della cultura e della religione alla facoltà di Scienze sociali a Lubiana. Scrive liriche e saggi attinenti alla letteratura, alla filosofia e alla sociologia. Fino ad oggi ha pubblicato le raccolte poetiche Imena smrti (1985), Slovar tisine (1987), Minute strahu (1990), Mesto in otrok (1997), oltre a sei saggi. E’ stato redattore dell’antologia Ameriska metafikcija (1998) e dell’antologia contemporanea in lingua inglese Prisoners of Freedom (1994).
Personalità multiforme e complessa, supportata da un vasto e approfondito lavoro in campo teorico, Ales Debeljak è un poeta nei cui versi si incrociano e fondono i più diversi, e alti, percorsi del pensiero contemporaneo. E’ un’atmosfera di perpetua sospensione, difatti, quella che si crea in questi poemi, in cui la parola non diviene più portatrice di un senso, di un messaggio da offrire al lettore, ma vaga inquietamente tra gli oggetti, i volti e i paesaggi che nomina lambendoli ma senza sperare di infrangere, con questo, il velo del loro mistero. La loro essenza rimane sempre al di là della nostra comprensione: nominarla vorrebbe dire allora, innanzitutto, svilirla, semplificarla costringendola entro la nostra capacità di definirla.

Nulla è raggiungibile. Nessuna voce si duplica.
Come se non fosse mai accaduto. Le cose perdurano, tranquillamente.
E al mattino tornerà a farsi giorno. Nelle vene scorre il sangue.
Tu sei niente. Per tutti gli altri, tranne che per una donna, sei

l’oscurità profonda in fondo al fiume. Un sasso sconsolatamente liscio
con un soffio d’azzurro. L’incavo sul pozzo. L’inizio
di nessuno, che nessuno riconosce. Come il diario di Scott
perduto nel turbine polare. Tu sei niente. Potresti essere la mia

tristezza, ampia come il cielo. Ed il pieno e il vuoto del film
avvolto per sempre nella bobina. La città ora non è davvero meno
vulnerabile di quanto fosse prima. Io solo, questo posso aggiungere, risuonerò
sulla frequenza del tuo silenzio e aspetterò una tua risposta.

Le cose rimangono, alla fine, come se fossero vuote. Un nulla inafferrabile. Una negazione perenne - dentro il continuo rinnovarsi e riaffermarsi della presenza - di cui la lingua poetica si fa tramite, racconto, con la sua capacità di “illudere, incantare, stregare” velando il vuoto e illuminandolo attraverso reminiscenze letterarie, ponendosi in colloquio con tutto quanto è stato già detto e scritto. Ritraducendolo, in altre forme, in una infinita circolarità di discorso. La parola del poeta non può, forse, far altro che cantare, come ancora ripete Debeljak, i mutamenti e le trasformazioni in cui il soggetto lirico è immerso, continuando a confrontarsi - al di là dell’orrore di fronte al vuoto che lo circonda - con i grandi eterni temi della poesia, della morte, della malinconia, del ricordo, del silenzio, della solitudine e seppur meno spesso- com’è ricordato nella postfazione di Kosuta- dell’amore e dell’amicizia.
“L’argento, la vulnerabilità, il lungo viaggio” oltre di noi.

Alojz Ihan, invece, è nato nel 1961. Laureato alla Facoltà di medicina di Lubiana, dove si è specializzato in immunologia, lavora come docente di microbiologia e immunologia. E’ stato redattore capo della rivista Aleph mentre attualmente è direttore responsabile della rivista Sodbonost. Ha pubblicato le raccolte in versi Srebrnik (1986), Igralci pokra (1989), Pesmi (1990), Ritem (1993), Juzno dekle (1995) e il romanzo Hisa.
Tra i nuovi autori sloveni l’opera di Ihan appare come la meno interessata ai labirinti e alle straniate tessiture verbali della poesia contemporanea, recuperando, invece, una forte componente narrativa, una limpidezza di dettato tutta tesa a chiarire le tesi di volta in volta esposte da questo poeta nella forma, oggi quasi dimenticata, della parabola. Ihan, difatti, affronta i temi della vita moderna direttamente, sezionandoli con la lama tagliente di uno spirito aperto e sempre sottilmente ironico, sviluppando senza trascurare alcun particolare importante il suo discorso per rovesciarlo completamente, di solito, con l’introduzione di un verso finale teso a sconvolgere la situazione. Un colpo di scena, abilmente preparato, che introduce nel testo la possibilità inattesa di altre letture, altri modi di guardare il reale, proiettando così ciò che sembrava appartenere soltanto alla più concreta quotidianità nei territori del mito, dell’allegoria fantastica.
Evitando le secche della sperimentazione linguistica, oltre i problemi di stile, questo poeta si distacca dalle generazioni precedenti ponendo nuovamente il problema della necessità di una poesia capace di raggiungere il lettore attraverso la forza dell’idea, dell’intuizione, di un moderno e per nulla semplicistico uso della parabola. Una poesia alla portata di tutti ma, non per questo, popolare; una poesia capace, invece, di non rinchiudersi in un universo autoreferenziale, per soli adepti, ma rimanere uno spazio aperto al discorso, luogo dell’umano in cui ognuno possa ancora dibattere e confrontarsi.
Alludendo così ad una poesia di Salamun, non è dunque senza una vena sottile di polemica che Ihan, impiegando in una sua poesia l’immagine dei giocatori di poker, si rivolge ai modernisti (prima abili e brillanti e poi in seguito, con il passare del tempo, sempre più goffi, deboli, piccoli):

Li riconosci facilmente, questi grandi giocatori
di poker, sopratutto quelli, i migliori, che senza posa
vincono d’assi e di re, e se per puro caso hanno
in mano solo carte senza valore, lo si viene a sapere
alla fine, quando con fare indifferente, quasi fosse il più
naturale dei passatempi, si prendono tutta la posta in palio;
la cosa più strana, però, è che non utilizzano alcuna
analisi e strategia, e con passione infantile
credono nel favore della sorte, finché...
...finché un bel giorno, giocando, non si colgono loro stessi
di sorpresa a ripartire le carte con affinata
attenzione, e quando poi diventano
più attenti, fanno i conti con la propria inconscia
scaltrezza, e poco dopo ne scoprono una seconda, una terza,
una quarta; li entusiasma la loro efficace semplicità,
però è strano perché poi iniziano poco a poco a perdere,
prima solo una partita o due, poi sempre più;
non riescono ad attuare nessuna delle astuzie scoperte
né ripetere alcun trucco, e dopo un po’ li trovi
che stanno appoggiati tra i bicchieri vuoti, con gli occhi
persi cercano qualche spiegazione, bestemmiano, accusano,
in ogni caso nessuno capisce ciò che vogliono dire,
a nessuno nemmeno importa di quei goffi, deboli,
piccoli giocatori di poker.

Nata a Lubiana nel 1970, dove vive, Taja Kramberger ha studiato storia e archeologia presso la Filozofska fakulteta lubianese. Dopo la laurea ha continuato gli studi di antropologia presso la facoltà degli studi umanistici. Suoi versi sono comparsi finora sulle riviste Dialogi, Literatura e Nova revija. Nel 1997 ha pubblicato il suo primo libro di poesie intitolato Marcipan.
Le lunghe poesie della Kramberger si sdipanano in prevalenza lungo i sentieri dell’infanzia, l’infanzia dell’autrice a Salara, “sul natio litorale bilingue”, in ambienti domestici e paesaggi descritti con la minuzia fantastica e quasi miniaturistica di certe illustrazioni favolistiche ma - ed in questo sta la novità dell’autrice - con insieme un’estrema modernità nell’impiego della lingua. Una lingua, a cui si mescolano frasi intere in italiano, capace di essere realistica ed evocativa, fantastica, al tempo stesso; una lingua in cui, come in alcuni mirabili cartoni animati disneyani degli inizi, gli oggetti assumono all’improvviso una vita propria, dialogano fra loro, rendendo in questo modo significativo, pieno di potere magico anche ciò che, ad occhi adulti, può sembrare assolutamente insignificante: il quaderno con le piccole api o l’orsacchiotto in cantina, negli occhi un luccichìo diverso.

...Nessuno fa caso alle limpide e delicate posizioni
della Terra. Solo le figurine degli animali coperti
di blu scuro, odoranti di cioccolata, parlano di sé.
Si girano di schiena col palmo della mano e si perdono
in tasche altrui. Via serpenti, andatevene dalle vigne,
mi facciano questo piacere, per favore,
perché ho paura di voi e poi perdo la chiave
e con papà devo strisciare in casa attraverso la finestra della via Vanganel 57 d.
Se incontri la serpe devi essere gentile,
non provocare, solo stare immobile come una foresta pietrificata
per non scatenare ciò che non puoi dominare.
Si può irrigidire l’infanzia, se non fai attenzione,
o addirittura estinguersi per punizione, se non
sei gentile con lei.

Il tentativo di assumere un punto di vista anteriore ai condizionamenti che segnano, in ogni individuo, la fine dell’infanzia - di dare voce a quel mondo il cui nome deriva proprio dal non possederla ancora, la parola - si traduce dunque in questi estesi, ricchissimi componimenti in cui ritorna l’ansia di uno sguardo diverso, vergine sul mondo. Un’ansia di purezza originaria, di libertà in fondo, che ha attraversato tutta l’arte contemporanea, per riappropriarsi di quello sguardo iniziale, proprio dei bambini, in cui lo stupore prevale ancora sulle gabbie delle classificazioni, delle interpretazioni, quando ciò che ci sta dinnanzi può essere ogni cosa, senza un nome o un ruolo preciso, parte viva di un gioco creativo in cui ogni mossa, anche la più impensata, rimane possibile.
Proteggere questi ampi e delicati spazi di movimento, di pensiero diventa uno degli obbiettivi principali di questa poesia, sottrendo alle devastazioni da parte del mondo esterno, il mondo dei grandi, il proprio, ancora intatto mondo interiore se, come ripete l’autrice, ciò che

senza successo per tanti anni hanno voluto
estirpare in me è all’improvviso diventato il massimo
di quanto possa dare.

Matjaz Pikalo, nato nel 1963 in Carinzia, oggi vive a Lubiana. Poeta e vagabondo, come ama definirsi, a trecento anni dalla nascita di Voltaire ha fondato il gruppo musicale e teatrale Autodafé. Ha pubblicato V avtobusu (1990), Dobre vode (1991), Pes in plesalka (1994) e Bile (1997).
Scrive Miran Kosuta: “C’era una volta un’antica parola slovena: igrc. Significa pressapoco istrione, cantastorie, trovatore, giocoliere del verso. Matjaz Pikalo è questo. Un igrc. Un giocoliere del verso. E’ quasi impossibile gustare appieno la sua poesia senza vederla cantata, raccontata, interpretata da questo autore-attore”. Interprete tagliente di una realtà in continuo rivolgimento, in cui la normale successione temporale degli eventi sembra definitivamente perduta, la poesia di Pikalo deflagra - apparentemente caotica e spezzata - nello spazio insonne di un presente unico, totale, in cui i sogni e le lacerazioni del passato, come i presentimenti riguardanti il futuro, si confondono in un canto straniato, di periferie di grandi città abbandonate nella notte, di destini che si intrecciano senza riconoscersi, come ne “La raccolta”, nei silenzi di solitudini inscalfibili:

Mi sono perso nel mondo, nella notte, ho acquistato
ancora tre, quattro suoi libri, anche s e ne ho già
alcuni, ma dovete sapere, ne ha scritti

molti. Ora davvero faccio quello che
una volta, nell’esercito, mi faceva sorridere sprezzante,
il mio mestiere. Ho il mio cantuccio e il telefono. Il vicino

rumoreggia. A volte telefono, leggo e bevo
allo stesso tempo. Con i compagni di ginnasio non ci troviamo
ogni anno. Da tempo con più ostinazione

raccoglievo mirtilli e per primo mi vestivo. le coppie
sulla via mi guardano strano, quando parlo
da solo. Sto preparando una raccolta. Dopo, gli dei
potranno riposarsi del tutto.

Sono parole nate, prima che per essere lette, per venir recitate, cantate come si diceva, unite più che da un senso logico dal ritmo interno, musicale, che le domina. Il ritmo della vita che s’insinua ovunque, per Pikalo, “grandiosa e positiva”, come un’onda di gesti quotidiani, tracce oscure sulla sabbia, precipitati di frasi in lingue diverse. Situazioni diversissime, opposte a volte, che devono convivere nello spazio breve di un verso come devono convivere, del resto, all’interno di ogni vita esposta, ora e sempre, ad un flusso infermabile di accadimenti troppo numerosi e veloci per poterli analizzare e classificare con ordine, perchè chi

può verificare tutte le lentiggini sul suo
viso, chi può sapere i nomi di tutte
le erbe e chi gli ha preparato le camicette,
quando tacciono i grilli e dove dimorano

gli uccelli?...

Peter Semolic, invece, è nato a Lubiana, dove risiede, nel 1967. Ha pubblicato finora tre raccolte di poesie: Tamar.isa (1991), Bizantinske roze (1994) e Hisa iz besed nel 1996.
Traduttore e critico, nella sua poesia apparentemente immediata e semplice si possono scorgere invece, ad una lettura più attenta, “infinite allusioni, complicità, reminiscenze” - come ricorda Kosuta - “a partire da Yeats a Mandelstam, da Salamun alla filosofia zen”. “La musicalità, il pudore, la forza delle sue immagini” di cui ha recentemente parlato Franco Loi 7), contraddistinguono l’opera di Semolic:

Come posso cantarti,
cervo che sei guizzato
nella sera d’inverno accanto
al mio volto, lasciando
dietro la traccia rossa
della tua passione che scorre?
Come posso cantarti al di là del tuo nome?
Al di là della mia sofferenza
come posso cantare la tua,
cervo? Nei miei pensieri
ti mescoli con l’immagine
che mi ero fatto
di te. Nei miei pensieri
ti mescoli con tutte le poesie
che ho letto sui cervi,
con le xilografie dell’Altai
ed i bassorilievi degli Indiani
Maya. Attraverso i versi
tento di toccarti
mentre giaci nella pace di un cespuglio
brullo e ti perdi
nel crepuscolo della sera
e nel delirio che precede la morte.
E comunque: sei proprio tu
quello ferito una sera d’inverno
dalla pallottola di un cacciatore
prepotente, o è solo il ricordo
di un’immagine già dimenticata
che è riemerso all’improvviso
dall’infanzia?
Cervo, la mia poesia ti lascia
al confine estremo della sera,
al confine estremo della vita,
quando l’ultimo respiro
è già iniziato, ma non avrà
mai fine. Cervo, in questa poesia
non si farà mai notte.

La purezza del dettato è, quindi, il risultato di una lunga decantazione, di un assiduo lavoro alla ricerca di una “parola magica”, capace di oltrepassare il senso quotidiano e approdare, così, all’essenza stessa delle cose. Per far questo Semolic non esita ad inventarla, questa parola, come nel caso della poesia “Flounder”, in cui questo termine di fantasia, dal suono suadente e misterioso, diventa “ il rifugio per tutto ciò che è umano”, il luogo in cui il respiro dell’essere infinitamente, in mille diverse forme, si riversa. Si potrebbe, allora, affiancare alle liriche di Semolic quanto affermava Mircea Eliade, il grande studioso rumeno, ricordando che “la poesia è uno sforzo per ricreare il linguaggio, in altri termini per abolire il linguaggio corrente, di tutti i giorni, per inventare un nuovo linguaggio, personale e privato, in ultima analisi segreto” 8).
La lirica di Semolic diventa dunque un “distillato d’anima”, in cui la ricerca della Parola fra moltitudini informi di parole ha bisogno di continue metafore per definirsi, metafore che si dilatano fino ad occupare l’intero spazio di una poesia, in un’implacata ossessione di luce, d’essenza.

Nato a Ptuj nel 1973, Ales Steger è studente di letteratura comparata e lingua tedesca presso l’Università di Lubiana. Fa parte della redazione della collana studentesca Beletrina. Ha pubblicato finora due raccolte poetiche Sahovnice ur (1995) e Kasmir (1997). E’, inoltre, organizzatore dell’incontro annulae tra giovani poeti di tutta Europa Dnevi pozije in vina (Le giornate della poesia e del vino) che si tiene a Medana.
La poesia di Steger scava lo spazio bianco del foglio con l’incisività e la lucentezza di parole che sono assolutamente sue ma che non nascondono, e non vogliono nascondere, le loro più diverse provenienze. Parole che ci restituiscono la sospesa stupefazione dei componimenti di autori come Wallace Stevens o Auden; il magico, surreale nitore di Paz; le ardue meditazioni metafisiche di Milosz; come, a volte, la lacerata dolente atmosfera delle poesie amorose di Celan. Ne risulta quindi una poesia colta, evocativa; una poesia estremamente contemporanea, senza per questo uscire dai metri classici, capace d’insinuarsi dentro di noi continuando a lungo a scavare, invisibilmente, i suoi rarefatti tracciati.
Nel solco della miglior tradizione poetica contemporanea anglo-americana di questo secolo (con Stevens, già citato, fra i suoi autori prediletti troviamo Ted Hughes e Les Murray), Steger riesce a partire, allora, da dati minimi, oggetti immersi in una luce mentale ma sempre venata da una forte carica sensuale, un erotismo intriso di sacralità, per approdare ad una parola che svelle in linea anche con la poesia surrealista, dall’interno come in “Estate”, ogni codificazione concettuale.

La roccia rovente, che spezza l’acqua, il cielo
Che lascia cadere da sé uccelli di carta, affinché svaniscano
Nel tuo corpo: il corpo del tempo e dello spazio. Il corpo
Con il viso da bambino, che nel sonno conta il mare.

Il corpo con gli occhi di nero carbone, che guardano fissi
Dalla brace. Il corpo con tracce di preghiera. Con i seni,
I sacrifici al domani. Con la mano che sul palmo
Brucia il mio palmo. Quante parole pronunciate.

Che non capisci, perché non puoi capirle.
Quante parole con cui puoi solo fare l’amore
Sul letto del silenzio; sulla lingua dell’angelo; sulla punta
Della spada del sole. Guarda: la luce all’istante ci taglierà

La pelle tesa, per unire i nostri corpi in un foglio
Bianco sul quale porrà con il sangue il suo nome d’autunno.

Attraverso un ricercato, cosciente e consapevole abbandono del proprio io (in favore di un “altro io in lui, quello creativo e ispirato”, come ricorda Kosuta), la parola dell’autore insegue dunque la lingua lontana, impenetrabile delle cose - filtrata dal silenzio dello sguardo - attraverso uno straniato processo descrittivo che la conduce a sprofondare di continuo in una dimensione altra, sacralizzata senza, per questo, mai oltrepassare la realtà. Il mistero senza fondo, intatto e inscalfibile che si trova dentro e non dietro, o al di fuori, dei confini delle cose, nel “corpo del tempo e dello spazio”.

Uros Zupan, nato nel 1963 a Trbovlje, si è laureato in letteratura comparata all’Università di Lubiana. Scrive liriche e saggi letterari; è traduttore, inoltre, dall’inglese e dal serbocroato. Le sue raccolte poetiche sono Sutre (1991), Reka (Fiume, 1993) e Odpiranje delte (L’apertura del delta, 1995). Di prossima pubblicazione la raccolta Nasledstvo (La successione). Una raccolta di sue poesie è stata tradotta in lingua inglese.
Figura a suo modo distante dalle altre voci slovene (come ha recentemente ricordato Michele Obit, nel primo numero della rivista Koan, presentando alcuni suoi bellissimi testi inediti 9), Zupan, anche se continua a dichiarare di “non appartenere a nessuna generazione” e a definirsi “un outsider”, non si può negare che “ne sia in qualche modo il punto di riferimento” e “una delle voci più ascoltate e seguite degli ultimi decenni”.
Attualmente vive a Lubiana, dov’è attivo all’interno della collana studentesca di libri “Beletrina”. Zupan, dalle prime raccolte ancora fortemente influenzate dall’attuale poesia americana è giunto, con i suoi ultimi lavori, ad una poesia in cui il quotidiano, le cose della vita di ogni giorno si trasformano in simboli di una ricerca sempre più venata dai segni, segni d’acqua e luce, di un approccio tutto personale, come in “Preghiera”, al mondo metafisico.


Nella cavità, nella cavità i muri
sono umidi di fiato.
Ma non era il tuo,
non hai respirato,
il cielo lo ha fatto per te
ed i fiumi il mare e le stelle
lo hanno fatto per te.

Fuori, dai rami crescevano fiori,
il vento calmava il mare sotto
il cielo di Palestina
e il nostro sospetto si è
propagato come i fiori,
il nostro desiderio di toccare la ferita
con gli occhi asciutti
si è propagato come i fiori.

L’acqua scorreva nel sogno.
Nell’acqua eri immerso
quando per la seconda volta hai avuto nome.
Sognavi, sapevi
di sognare?
Nell’aria ti immergerai
quando per la terzaa volta avrai nome.

Il Padre ha liberato le nuvole.
Ha riempito le ore
con l’attesa.
Tutti l’aspettavamo. Anche tu.
Tutti, fatti con la Parola,
aspettavamo.

L’acqua ti ha escluso.
L’acqua come l’aria.
Di una bianca nuvola ti sei vestito.
La gente ha creduto in questo mattino,
ha creduto
quando l’agnello ti ha dormito nel cuore.

Te ne sei andato. Noi siamo rimasti.
Nel cielo e nell’abisso osserviamo
come la traccia del tuo sacrificio scompare,
il cielo e l’abisso di nascosto ascoltiamo,
dove con uno scoppio fragoroso
si rifrange la luce.

Un approccio che non ricerca soccorso, che rimane sempre attesa, e non ancora raggiungimento, della perfezione. Le immagini sono a volte quelle allora, alte e immaginifiche, della Bibbia, dei testi cabalistici, ma riempite soltanto, secondo le stesse parole dell’autore, con la propria personalità, senza rimandare ad altro, se al poeta è consentito ( come dice in una sua poesia) di “camminare senza nozionismi né maestri lungo i sentieri, varcando le cadenze delle preghiere, immergendosi nel centro dei misteri”.
Per questo forse, alla fine, i suoi testi si presentano come una continua oscillazione tra due mondi, quello della visione e quello della veglia quotidiana, permettendogli, nel contempo, di vivificare con la luce del simbolo ciò che è anonimo, scontato, e dare corpo e verità al volo - altrimenti senza peso - della mente che questi simboli decifra.

* * *

Pigna, trottola, dadi...specchio.
Nella vita tormentata di questi paesi sembra di rivivere antichi drammi, incisi sulle auree lamette orfiche, narranti la lotta, nella natura umana, tra l’elemento violento, distruttivo, titanico, e la vitalità inafferrabile, sempre rinascente di quello dionisiaco.
Con giochi da fanciullo Dioniso difatti venne ingannato e, successivamente, straziato dai Titani. Grazie a Rea, che ne ricompose le membra, il Dio conobbe la sua terza nascita, dopo la prima dalla madre e, la seconda, da una coscia. L’iniziazione passa attraverso lo smembramento di sé ma, anche, dalle seduzioni con cui la vita ci svia. Le promesse, le voci che ci attraggono (mostrandosi inizialmente benevole come si sono mostrati, ai popoli, i vari regimi totalitari di questo secolo) per condurci in seguito in un cerchio cupo, infernale. Il corpo smembrato, una volta ricomposto, mantiene la memoria di ciò che era ma, ormai definitivamente diverso, guarda alle cose da un altro versante, quello di chi ha tradotto il mistero della sua vita con le parole della morte.
Nel mondo quello che si specchia è, da quest’istante, lo sguardo di un altro.


Note

1) Per evitare i rischi di un’eccessiva generalizzazione di questi temi, senza dimenticare le difficoltà e le ancora drammatiche attuali divisioni, vedi l’intervista illuminante di Danilo de Marco a Predag Matvejevic Tra asilo ed esilio, Circolo culturale Menocchio, Montereale Valcellina (PN) , 1997, p. 40.

2) La mancanza di una nuova antologia in italiano che raccolga l’opera dei poeti del dopoguerra - da Salamun a Janus, da Kravos a Grafenauer e tanti altri - rappresenta un grave ostacolo alla comprensione dell’interessantissima poesia slovena e dei suoi attuali sviluppi; sarebbe auspicabile, in questo senso, che questo vuoto potesse essere colmato al più presto.

3) “La nuova poesia slovena”, a cura di Michele Obit, in “CorRispondenze”

4) Questa, come tutte le seguenti citazioni nel testo di Kosuta, sono tratte dal saggio “L’eterna ricerca del Santo Graal nella nuova poesia slovena” in Nuova poesia slovena, a cura di Michele Obit, ZTT EST editore, Trieste, 1998, pp.170-191.

5) “Voci dalla sala d’aspetto”, a cura di Michele Obit, edito a cura della “Associazione Artisti della Benecia, Cormons, 1996, p. . e “Voci dalla sala d’aspetto”, a cura di Michele Obit, edito a cura della “Associazione Artisti della Benecia, Cormons, 1997, p. 31.

6) Di fiamma e ombra, numero monografico di CorRispondenze n. 8, a cura di Ivan Crico con la collaborazione di Charls Ward, settembre-ottobre 1997, edizioni Kappa vu, Udine, p. 52.

7) F. Loi, “Ma a Topolò c’è tutta un’altra aria”, in “Il Sole-24 Ore”, 27-9-1998.

8) Mircea Eliade, Miti,, sogni e misteri, Milano, Rusconi, 1986.

9) “L’alchimia tra solitudine e amore”, poesie inedite di Uros Zupan a cura di Michele Obit in “Koan”, n. 0, anno I, settembre 1998, Vittorio Editore, Udine, pp. 30-40.

mercoledì 5 novembre 2008

Il patrimonio linguistico del FVG nel tempo dell'omologazione

Gli scontri, le infinite polemiche sorte in occasione di ogni vertice sul commercio, a partire da quello di Seattle, iniziano a porre interrogativi percepiti come decisivi - anche da parte delle persone meno impegnate - in ogni luogo del pianeta.
Che ne sarà di questo mondo, ci si chiede, della natura, delle tradizioni, di cibi, costumi, linguaggi tramandati a volte da tempi immemorabili?
La necessità di una comunicazione rapida ad esempio - time is money - in un mondo sempre più dominato dall’ossessione di immediati profitti non poteva, da subito, che trovare un ostacolo, un ostacolo di cui sbarazzarsi al più presto, nell’infinita varietà di lingue e dialetti presenti nel nostro pianeta. Varietà che aveva trovato, finora, rifugio nelle enormi difficoltà create dagli spostamenti o dalla mancanza di strumenti come il telefono, il fax, per non parlare di Internet. Ora, comunicare con qualsiasi luogo della terra è, in gran parte, possibile. Le nostre esigenze, del resto, sono cambiate e ciò che ieri era del tutto sconosciuto è diventato oggi, nel giro di pochi anni, per noi assolutamente indispensabile. O ci appare tale. L’offerta, di qualsiasi cosa, si è immensamente allargata rispetto ad un tempo e questo comporta obbligatoriamente il contatto sempre più stretto con chi, in ogni parte del mondo, queste cose ce le può offrire. E non solo merci ma anche musiche di popoli sconosciuti, filosofie diverse dalle nostre e così via di seguito. E tutto questo, non può essere messo in dubbio, è un grande arricchimento per genti che come le nostre a volte, fino ancora a cinquant’anni fa, non vivevano troppo diversamente dai popoli primitivi, spesso abitando entro tuguri malsani, senza cibo né vera istruzione.
Ma come e in che modo il mondo, improvvisamente, giunge nelle nostre case? Qui sorge una legittima perplessità. Nessuno, difatti, può pretendere di conoscere a fondo tante culture tanto diverse e così, spinti perlopiù da un’effimera curiosità, ci accontentiamo di grossolane traduzioni (quasi sempre a loro volta mediate dall’inglese) di altri modi di percepire la realtà in altre, anche lontanissime, parti del mondo. Approfondire è una parola, sembra, sempre più estranea al nostro lessico e dunque, com’è accaduto nel caso della New Age o di certa cosiddetta World Music, ciò che ci si illude di studiare o di sentire non è che una sorta di riassunto ad uso di chi le fonti originarie non avrebbe mai né il tempo, né la costanza, di studiarle. In questo brumoso e infermabile ramificarsi di informazioni che, per non essere state vagliate criticamente da chi le diffonde e da chi le riceve, spesso si rivelano altrettanto inutilizzabili (e in più foriere di confusione) di quando non ne eravamo a conoscenza, in questo preteso abbattimento di ogni distanza, c’è anche chi si pone il problema di salvaguardare come può la fisionomia originaria di antiche culture che oggi rischiano seriamente di scomparire. Già, perché il mito di comunicare con chiunque e ovunque ha avuto come primo ed immediato risultato la necessità, come si diceva, di trovare una lingua comune; e così la possibilità di sopravvivenza di una lingua o di un dialetto non dipende ormai da altro che dal maggiore o minore numero dei suoi parlanti. Si tratta di un problema antico; ma la vertiginosa sparizione di lingue e dialetti a cui assistiamo in questi ultimi decenni non ha precedenti nella storia. Semplicemente, chi non impiega una lingua parlata da almeno qualche milione di persone è destinato ad essere escluso, a vivere confinato e bloccato in un’isola immobile quando tutto, intorno a lui, diventa Oceano, correnti in continuo movimento che si spostano in ogni direzione.

Eppure queste numerosissime lingue parlate nel nostro pianeta sono tutte ugualmente importanti testimonianze della varietà della vita, della relazione millenaria, fisica e spirituale, tra l’uomo e i luoghi in cui è vissuto, per cui la perdita di ognuna di esse significa anche la perdita - irrimediabile - di un sentimento e di una conoscenza profonda delle cose. E non cose genericamente intese, ma esattamente gli elementi specifici che compongono un certo paesaggio e soltanto quello, quegli alberi e quegli animali, quelle rocce e quel cielo. Il rischio è dunque quello che, assieme alle parole, si perda anche ciò che esse nominavano. E, anche qui, in Friuli, il desolante, monotono proliferare di villette e capannoni industriali tutti troppo simili, dal mare fino alle cime delle montagne carniche, sembra tristemente dimostrarlo. Diventa, cioè, più facile distruggere ciò con cui non abbiamo più un rapporto diretto: come nelle guerre, ad esempio, in cui la prima necessità è sempre stata quella di creare una distanza incolmabile tra le parti. Non diventa più così facile, allo stesso modo, abbattere un albero o costruire su un prato se abbiamo imparato a conoscere e a sentire la vita che si agita in queste cose, se un albero o un prato non sono semplicemente due termini vaghi ma hanno un nome preciso, dato ad essi da persone che ne conoscevano ogni remota fibra o le centinaia di creature che da quelle erbe, tutte diverse, tutte con un proprio nome, traevano sostentamento o rifugio.
In questi anni, per puro e cieco calcolo opportunistico mascherato sotto il nome (anche qui significativamente generico) di Progresso, sono state eliminate dal pianeta migliaia di specie animali e vegetali, per non parlare degli innumerevoli disastri ambientali. È quanto è accaduto anche in una regione come la nostra quando, solo per fare un preciso esempio tra i tanti possibili, si decise che la pezzata rossa friulana, un’antica razza bovina di queste zone, non rendeva più e si scelse quindi, senza rimorsi, di sostituirla con altre razze considerate più redditizie. Diffusissima fino a qualche decina d’anni fa in tutte le nostre stalle, di questa specie (di cui quasi nessuno parla) non esistono ormai che pochi esemplari sempre a rischio d'essere abbattuti o incrociati con razze non autoctone.
E la lista degli orrori potrebbe, volendo, continuare per pagine, come lo spettro del “Corridoio 5” che rischia di devastare definitivamente parte del paesaggio della Bassa e quel che resta della Bisiacarìa (dopo l’aeroporto, Centrale, Cantieri navali ecc.) e un buon tratto del Carso monfalconese e triestino.

Per quel che riguarda alcuni linguaggi ritenuti particolarmente significativi si è tentato, in Italia, di salvaguardarli con apposite leggi di tutela. Leggi che però forse, se ci riusciranno, salveranno come abbiamo detto soltanto alcuni dei linguaggi a rischio d’estinzione presenti nel nostro paese. È necessario dunque, a partire da questa importante anche se non in ogni punto condivisibile legge, che proprio chi ha beneficiato di questo riconoscimento e dei finanziamenti ad esso collegati, si adoperi attivamente per estendere quest’opera di salvaguardia delle diversità impegnandosi affinché nulla, di ciò che caratterizza nel profondo il nostro paese, venga sciaguratamente disperso.
Ricordiamo a proposito che, anche se all’interno dei confini dell’antica regione storica del Friuli la lingua friulana è oggi certamente quella maggiormente conosciuta e diffusa, da molti secoli questi territori sono stati caratterizzati anche dalla presenza di altri (non meno significativi e meritevoli di tutela) linguaggi. Parliamo delle parlate medievali tedesche in alcune località della Carnia e di quelle - legate al mondo slavo o sloveno a seconda della loro vetustà, isolamento fisico o ragioni storiche - della Val di Resia, delle valli del Natisone, fino ad arrivare al Carso monfalconese. Vi sono poi altre tre comunità, le cui parlate sono state definite “venete autoctone”, nel senso di luoghi in cui il veneto non è stato semplicemente il linguaggio adottato dagli strati più abbienti, com’è successo nelle città di Udine o Palmanova ad esempio, ma - come minimo da almeno quattro, cinque secoli - è diventato il linguaggio impiegato dalla maggioranza della popolazione, dai contadini all’alta borghesia. Ci riferiamo a cittadine come Grado e Marano ed alla Bisiacarìa, cioè gli otto comuni del monfalconese. Ma non si può dimenticare altri importanti linguaggi, qui, come il triestino, il pordenonese e le altre parlate di tipo veneto presenti in regione. Come sappiamo, il friulano, lo sloveno ed il tedesco hanno avuto finalmente, con la legge di tutela delle minoranze linguistiche 482/1999, un loro giusto riconoscimento. Non godono, al momento attuale invece, né da parte dello Stato né da parte della Regione, di alcuna forma di tutela gli altri linguaggi citati dianzi. Questo nonostante si tratti di parlate di straordinario interesse, secondo il parere di molti studiosi italiani ed esteri. Parlate ancora ricchissime di antichi termini veneti ma, anche, di alcuni straordinari relitti lessicali friulani e sloveni medievali. Si tratta, difatti, di vere e proprie “isole linguistiche” che hanno continuato ad impiegare, nel loro isolamento, parole altrove abbandonate ormai, a volte, già da alcuni secoli. Hanno impiegato questi linguaggi per dar voce ai loro sentimenti più profondi, tra l’altro, grandi poeti come il gradese Biagio Marin - tradotto in ogni parte del globo - fino ad arrivare tra gli altri, in anni più recenti, alla celebre cantante monfalconese Elisa, che ha esordito cantando in bisiaco. Tutti questi elementi dovrebbero essere più che sufficienti a spingere la nostra Regione a cercare di salvaguardare in ogni modo questo straordinario patrimonio - linguistico e culturale - che contribuisce a rafforzare in modo ancora più forte la sua “specialità”, mi sembra, rispetto ad altre regioni della penisola. Paradossalmente, invece, le leggi di tutela delle minoranze linguistiche storiche hanno avuto, specialmente su buona parte del mondo politico, un effetto opposto rispetto a quello che ci si sarebbe aspettato. L’approvazione di questa legge non ha coinciso, difatti, con un aumento di sensibilità ed attenzione nei confronti di tutti quei linguaggi che oggi, in un mondo sempre più globalizzato, sono a rischio d’estinzione. La legge 482 è diventata per alcuni, invece, un ottimo alibi per non occuparsi più - od occuparsi in modi a dir poco risibili - di tutto ciò che lo Stato ha relegato (speriamo non definitivamente!) nel limbo dei “dialetti”. Si dice: “Lo Stato ha detto chiaramente quali sono le lingue meritevoli di essere tutelate. Perché si dovrebbe perdere tempo e soldi pubblici per occuparsi d’altro?”. Se questi ragionamenti fossero accettati non saremmo mai arrivati, però, nemmeno alle leggi di tutela attuali. Come esempio dell'arbitrarietà di questi ragionamenti valga, per tutti, il caso del sardo: fino al 1995 il governo italiano parlava sempre ed esclusivamente di dialetti sardi, negandone la dignità linguistica, mentre due anni dopo veniva approvata dal governo la legge sulla lingua sarda (con l’ovvia conseguenza che oggi nessun politico si sognerebbe di definire il sardo un “dialetto”).
Noi invece affermiamo con forza che la scomparsa di questi linguaggi sarebbe per la nostra regione una perdita irreparabile. Nonostante questo, le associazioni che si impegnano per sottrarre all’oblio queste parlate sono spesso ignorate ed ogni loro appello cade nel vuoto. Eppure la logica vorrebbe che si desse, in primis, una mano a chi è in maggiore difficoltà.
Dunque, quello che qui si chiede è un ulteriore, comune passo in avanti nella salvaguardia della stupefacente varietà che contraddistingue il Friuli Venezia Giulia gettando, fin d’ora, le basi per un serio piano di tutela delle parlate storiche regionali.
La sopravvivenza e la continuità delle cose può dipendere quindi dal nostro volerle o non volerle custodire e cercare di mantenerle in vita. È, in gran parte una questione di scelte. Dipende soltanto da noi, dalla nostra attenzione - traghettandole con la nostra opera vigile e costante di difesa verso il domani - se l’oblio avrà alla fine il sopravvento.
Il friulano, lo sloveno con le altre parlate slave, il tedesco e gli idiomi storici veneti: diademi luminosi e rari, di cui mai vorremmo vedere la nostra regione spogliata.

Intervista alla cantante Elisa di Ivan Crico


La cantante Elisa in visita nello studio di Ivan Crico


DI UN ALTRO MONDO CHE SI RIVELA
Intervista ad Elisa di Ivan Crico


La conversazione che segue è, per molti versi, un documento unico. Si tratta difatti di un'intervista alla cantante Elisa, registrata nella sua Monfalcone, nell'ormai lontano 1997. Qualche giorno prima aveva presentato, in una memorabile serata presso il locale Teatro Comunale, il suo primo album. Questa è dunque, molto probabilmente, una delle prime interviste di un certo respiro rilasciate da questa artista di statura internazionale ma, allora, quasi del tutto sconosciuta.
Un'altra particolarità di questo testo è che doveva, in origine, essere pubblicato non su una rivista di musica ma di poesia. Per cui le domande (senza preoccuparsi di risultare accattivanti per il grande pubblico) mirano invece a scavare in profondità all'interno dei processi creativi mentre, nelle risposte date da Elisa, già compaiono - con grande lucidità - molti temi che saranno poi ulteriormente meditati e sviluppati nei suoi lavori successivi.
Conobbi Elisa, quindicenne credo, quando presentò ad un festival locale un brano nella nostra parlata bisiaca. Mi avevano chiamato per dare alcuni consigli sul testo e rimasi molto colpito dalla voce e dall'energia che sprigionava da quella ragazzina che suonava, con foga, una chitarra resa ancor più grande dal contrasto con quella figura così esile e minuta. Provai lo stesso stupore che si prova quando, ascoltando un uccellino cantare, ci si domanda come possano - da un essere talmente piccolo - scaturire suoni così potenti, acuti, capaci di coprire immense distanze. Ci rincontrammo, alcuni anni dopo, pochi giorni prima del concerto a Monfalcone. Elisa non solo, come immaginavo, è diventata una grande artista nota in tutto il mondo ma si è rivelata anche una persona estremamente sensibile alle problematiche di tipo sociale. Nel corso degli anni, difatti, sempre con grande discrezione ha sostenuto diverse iniziative che, con amici, abbiamo promosso per offrire aiuto a giovani con problemi di disagio aiutando molto anche, in questi ultimi anni, l'Associazione "Il Focolare" che si propone di costruire una grande casa - nei pressi di Palmanova, in provincia di Udine - per accogliere bambini in affido.
L'intervista che segue, per problemi della rivista che doveva accoglierla, non è mai stata pubblicata. L'ho riscoperta qualche giorno fa, riordinando vecchie carte. Ecco, qui di seguito, il testo integrale.

Mercoledì, 8 ottobre 2008.




Domanda: Oggi, per molti nuovi autori, al momento di scrivere i propri testi, l'impiego della lingua italiana non sembra più una scelta così naturale e ovvia come poteva essere un tempo. Partita cantando e componendo, tra le altre cose, anche dei brani nella tua parlata nativa, approdando con "Pipes & Flowers" alla lingua inglese, anche il tuo lavoro sembra confermare questo sempre più frequente cambiamento di direzione.

Risposta: Se si crede in ciò che si fa, secondo me, è possibile cantare in qualsiasi lingua: l'essenziale è il messaggio più che il modo con cui lo si esprime. Anche se poi, ovviamente, è bello lavorare sui particolari, curando, raffinando la costruzione.

D. La scelta della lingua inglese rispetto alla lingua italiana, in ogni caso, da cosa si origina?

R. Ho provato più volte a scrivere in italiano ma non sono ancora soddisfatta dei risultati. Diciamo che con l'inglese è tutto più facile, avendo sempre ascoltato musicisti di quell'area. Riguardo a questo, comunque, ora come ora troverei più facile cantare in bisiaco piuttosto che in italiano, una parlata che ha comunque dei suoni più vicini allo spagnolo. Adesso, in ogni caso, con il tipo di musica che scrivo va molto bene l'inglese come suono. Ascolto da tanti anni musicisti e cantanti inglesi che credo di averne assorbite le cadenze, di aver preso più da quella cultura musicale che da quella italiana.
Si è rovesciato un po' tutto, insomma.

D. Da che cosa parti in genere, qual'è lo spunto, l'intuizione da cui prende avvio di solito il tuo lavoro di composizione?

R. Devo essere sempre sicura di ciò che sto facendo, innanzitutto. Poi ciò che ne risulta, alla fine, può essere più o meno chiaro, a volte voluto, cercato, a volte no. Di solito, comunque, il punto di partenza è un'immagine mentale da cui nasce un suono e un'espressione vocale legata ad un testo: un testo che descrive tutto un mondo, quindi, sempre interno. È difficile, in questo modo, essere sempre chiari, poiché sono cose molto piccole, queste che descrivo, molto leggere. Sfuggenti.

D. Ci sono, comunque, opere o autori che ti hanno maggiormente ispirata nel tuo lavoro?

R. Più che ispirazioni, secondo me, sono da intendersi come influenze, quelle che traiamo dalle letture, dai film, da ciò che sentiamo e vediamo. C'è sempre un'influenza: se fai un viaggio ti ritrovi a scrivere in un modo, se ritorni a casa ne impieghi un altro. Come un'anima camaleontica, che riesce a trovare il suo habitat un po' dovunque.
Per quanto riguarda gli autori, invece, credo di essere stata influenzata da Tori Amos. Una grande cantante, secondo me. Una grande musicista, che suona il piano in un modo unico.

D. Ci sono anche scrittori o poeti tra questi?

R. Un libro che ho letto di recente e che mi è piaciuto moltissimo è "Inquietudine d'amore" di Yukio Mishima. Sono rimasta molto colpita anche dalla lettura del volume di racconti "Eva luna racconta" della Allende, da molte cose di Hesse e, soprattutto, di Karen Blixen e Kipling. Amo molto anche le liriche che scriveva Morrison, il cantante dei Doors.

D. A proposito di scrittura, quando componi i tuoi pezzi sei solita scriverli di getto, o c'è anche una fase di rielaborazione, di limatura dei testi?

R. Ultimamente sto un po' cambiando modo di scrivere. Già con questo disco ci sono stati dei mutamenti. Credo sia un fattore di età, di nuove esperienze, che nasce da ciò che ti succede, da quello che assorbi. Penso di essere sempre rimasta uguale nel profondo, però di essere anche, comunque, un po' una spugna. In genere le cose che sento di più, nel tempo, sono quelle che arrivano in cinque minuti, tutto il pezzo, musica e testo, com'è successo per quest'album.
Scrivo tutto in cinque, sei minuti di solito.

D. Un affiorare improvviso di cose che si sono depositate, decantandosi, al nostro interno...

R. Credo che si tratti di qualcosa del genere; e, comunque, sono sempre queste cose molto semplici, molto piccole di cui ti dicevo prima, che mi attirano. Proprio quei particolari minimi che noti - purtroppo o per fortuna - solo per caso.

D. Nel tuo lavoro il testo può essere apprezzato anche da solo o ha sempre bisogno della musica per sorreggersi?

R. No, non sempre. Tantissimi testi erano, prima, delle poesie.

D. Quindi ti dedichi anche alla scrittura?

Ho scritto molte poesie e, per un periodo, anche una serie di racconti comici su tutti i viaggi che facevo. Scrivevo tutto, mettevo dentro ogni cosa, ma sempre in chiave ironica. Comunque non si trattava di vere e proprie storie, non racconto mai storie, soprattutto non parlo di altre persone: è un mondo, che è il mio ma è estraneo anche a me. in un certo senso, perché ciò che sono normalmente, nella vita quotidiana, non combacia con ciò che descrivo. Non si tratta però di uno sdoppiamento, ma di un altro mondo che si rivela. A volte passano dei mesi cercando di scrivere, perché sai che devi scrivere, ma al tempo stesso non puoi, perché è come se dovessi fare un lungo percorso, qualcosa di particolare per arrivarci. È faticoso, faticoso come tutto, come vivere scrivere.

D. Quali musiche ascolti?

R. In genere mi fisso molto, sulle musiche: se trovo qualcosa che mi piace l'ascolto e riascolto anche per anni, prima di passare a qualcosa d'altro. Non si tratta però di una scelta, semplicemente è qualcosa che accade.
In questo periodo ascolto principalmente musica attuale ma non necessariamente commerciale. Quindi sì Björk, Tori Amos, sì PJ Harvey, ma anche alcuni brani dei Depeche Mode in cui ci sono interessanti ricerche di suoni filtrati attraverso strumenti elettronici. Ma poi, ad esempio, anche i Verve, dove si trova questo connubio, molto forte, tra musica, testo e video. Apprezzo molto queste forme d'arte in cui vari aspetti si compenetrano e fondono assieme allo stesso tempo.

D. L'attenzione per l'immagine ritorna spesso nelle tue risposte. Sei interessata anche ad altre manifestazioni artistiche, come le arti figurative?

R. Oltre a comporre musica dipingo, mantenendo sempre lo stesso modo di esprimermi. Seguo un'immagine mentale, cerco di renderla il più possibilmente perfetta, a seconda di ciò che vedo; non succede mai per caso, non si tratta di uno sfogo, è qualcosa di molto inconscio, credo. Amo molto le espressioni di visi di esseri che non appartengono alla sfera dell'uomo, o al mondo animale, né lavoro su di un oggetto particolare. Diciamo che esce qualcosa che vive, secondo me, e devo dargli un'espressione.

D. Ne abbiamo accennato prima, ma pensi che ci saranno ulteriori cambiamenti con il tuo prossimo album?

R. Credo, come dicevo, che non sia cambiato poi molto nel mio modo di scrivere, soltanto devo concentrarmi di più, per forza, perché sento come molta più materia attaccata a me stessa e, allora, faccio molta più fatica per togliermela di dosso. Quindi ciò che faccio ne risente, anche se non so ancora se vedere in questo una maturazione, un regresso, o un cambiamento verso non so quale direzione.
È necessario, comunque, un alto livello di coscienza. Voglio essere sempre perfettamente cosciente di ciò che esce fuori, prima di portarlo alle altre persone.

D. Più in generale, verso dove allora si sta orientando, o vorresti che si orientasse, la nuova musica?

R. Credo che sia giunto il momento di essere un po' più estremisti. Di cercare un connubio tra una ricerca molto avanzata nello studio del suono, anche attraverso l'uso di nuove tecnologie, ed una ricerca interiore di essenzialità, nel tentativo di esprimere tutto in una sola nota, come se questa fosse l'ultima.
Di ritornare alla voce, senza strumenti.
Un canto che potrebbe vivere da solo, una specie di ninna nanna che poi muta, si trasforma con il supporto della tecnologia. Non bisogna, poi, preoccuparsi tanto del mercato. Della gente in genere.

D. La voce come punto di arrivo. Nudo ed immediato riverbero della nostra e altrui presenza nel mondo.

R. È la cosa che studio di più. Non sono una chitarrista. Non sono una pianista. Cerco, quindi, di fare uno studio approfondito, personale sulla voce, anche se oggi tutto si fa sempre più difficile, dato l'accumularsi di tutta la musica composta finora. Un bombardamento radiofonico, televisivo, che arriva da tutte le parti; i concerti poi, la musica ovunque e quindi, di conseguenza, una sempre maggiore difficoltà a trovare il proprio spazio dentro tutto questo.
Porto avanti, come dicevo, uno studio per cercare di essere il più personale possibile, ma non è che poi mi preoccupo più di tanto a rifare qualcosa che è già stato fatto. Penso che se arrivi al punto di essere sincero, se arrivi a raggiungere un equilibrio di sincerità, umiltà e coscienza, necessariamente crei qualcosa che ti appartiene. Che appartiene più a te che al mondo. È lì che vorrei arrivare.


(Nota: L'intervista può essere riprodotta con qualsiasi mezzo purché si citi sempre la fonte e l'autore)

lunedì 3 novembre 2008

Origini dell'idioma bisiàc

“Ella può conoscere che riguardo
alla lingua sono fuori del Friuli”
Su Leonardo Brumati e le prime testimonianze intorno alla “lingua bisiacha”


Partiamo da un’interessantissima risposta - ancor oggi pochissimo conosciuta e citata - ad una lettera andata perduta (come ricordava Silvio Domini nell’articolo “L’epistolario dell’abate Brumati” pubblicato nel 1994 sulla rivista «Bisiacaria») di Jacopo Pirona. In questa lettera, molto probabilmente, l’insigne studioso metteva l’amico al corrente dei suoi studi per un vocabolario friulano e gli chiedeva lumi sui nomi italiani di certe piante ed animali. L’abate Leonardo Brumati, nella sua lettera, scrisse comunicandogli che anch’egli stava preparando uno studio sulla sua parlata nativa affermando inoltre, con una certa bonaria ironia, di non conoscere il friulano come non lo conoscevano, del resto, i suoi amici del Territorio quando insieme studiavano ad Udine:

“Io pure sto mettendo a parte qualche materiale per un lavoro sul dialetto del mio paese; ma a chi mai, parmi sentirla esclamare, potrà servir uno scritto sulla lingua d’un così angusto luogo qual è il Territorio di Monfalcone. (…) Pure formando esso un tempo i principali sobborghi della seconda Roma in Italia conservano tutt’ora i suoi abitanti nel loro linguaggio una grandissima analogia con quelli del Lazio, e specialmente i nomi degli oggetti di storia naturale s’avvicinano ai latini assai più che non i Toscani medesimi; onde parmi poter giustamente dir qualche cosa in favore degli Italiani in confronto degli Etruschi, che non contenti di primeggiare pretendono anche signoreggiare nell’Italica favella. Osserverò qui di passaggio, che noi, è ben vero, abbiamo troncato per comodo e facilità di discorrere una gran parte delle parole terminate per vocale, ma ci siamo preservati dalla terminazione in “ao”, lasciata agli abitanti di Grado e di altri paesi marittimi delle venezie dai Greci, che sotto gli Esarchi di Ravenna li dominarono. Queste ed altre ragioni mi determinarono a trattar un soggetto, il quale andando privo di ogni interesse, mi avrà fatto passar almeno qualche ora istruendomi.
Circa la sua richiesta devo dire: che, o non ben La intendo, o Ella vuol da me cose superiori alle mie forze. Come vuol Ella che Le dia i nomi friulani degli oggetti appartenenti alla storia naturale se non ne conosco il dialetto? Per ciò che Le dissi qui sopra, Ella può conoscere che riguardo alla lingua sono fuori del Friuli, e se sono stato alle scuole in Udine, allorché avevamo il bene di appartenere a codesta Diocesi, poiché appunto il nostro linguaggio più del loro accostavasi all’italiano ed al latino, che si studiavano, eravamo sì scioccamente superbi di esso, che sdegnavamo di parlar il loro”.

Ma chi è l’autore di questa lettera e cos’era questo linguaggio parlato nel Territorio di Monfalcone che il Brumati si premura di distinguere, nei primi anni dell’Ottocento, tanto nettamente dal friulano?
Cerchiamo, dunque, di rispondere alla prima domanda che ci farà conoscere una figura singolare ma poco conosciuta, di straordinaria modernità, su cui vale davvero la pena di soffermarsi. Leonardo Brumati nacque a Ronchi dei Legionari ( chiamata al tempo “Ronchi di Monfalcone”) il 4 agosto 1774 da un’umile famiglia di artigiani. Come ricordava Silvio Domini nelle belle pagine a lui dedicate (da cui abbiamo ampiamente tratto le note seguenti), dimostrando fin da piccolo una non comune intelligenza, venne fatto studiare da Giuseppe Berini, anch’esso di origine ronchese, importante archeologo, storico e traduttore di classici, nato nel 1762 e morto nel 1820. Leonardo Brumati compì i suoi studi superiori a Udine e successivamente, per meriti personali, fu invitato a Venezia dove ebbe modo di perfezionare le materie, soprattutto di tipo scientifico, per le quali era naturalmente portato. Pochi mesi dopo la caduta della Serenissima, il 14 gennaio 1837, ricevette a Gorizia l’ordine sacro.
A Vermegliano, un piccolo paese presso Ronchi dei Legionari, fu cappellano esposito. Presso il "Ginnasio" di Monfalcone, in cui insegnarono anche Giuseppe Berini, Alessandro Stagni, Domenico Scocchi e Francesco Cosani, e dove si distinse per le sue doti di insegnante di fisica, scienze naturali e grammatica latina. L'istituzione scolastica ebbe, però, vita breve: fu difatti soppressa dall’Austria che vedeva, in questi insegnanti di vedute assai avanzate per l’epoca, abituati ad intrattenere contatti con i maggiori studiosi europei, dei fautori di idee libertarie e antiaustriache. Il Brumati, di conseguenza, fu a lungo osteggiato tanto da spingerlo ad un soggiorno, probabilmente forzato, in Istria. Rientrato in questi luoghi, che divennero negli anni l’oggetto principale di tanti appassionati e precisi studi, divenne cappellano festivo a Staranzano. Rimase però a vivere in una sua casa che possedeva nel borgo ronchese di San Vito e a Vermegliano dove, tra l’altro, creò un suo Orto Botanico visitato da prestigiosi studiosi italiani e stranieri. Contatti che sono testimoniati anche da un interessantissimo epistolario con lettere del chimico francese Gaj Lussac, del conchigliologo Buillet, del celebre professor Bertoloni di Bologna, dello scienziato tedesco Guglielmo Schiede di Cassel d’Assia, del botanico triestino Bortolo Biasoletto, del filologo Jacopo Pirona (autore del grande vocabolario friulano, che si era avvalso, come abbiamo detto, del Brumati per tradurre esattamente in italiano nomi di piante ed animali del vicino Friuli), e della poetessa friulana Caterina Percoto, che soggiornava spesso a Ronchi dei Legionari. Tra questi, inoltre, anche uno dei massimi botanici tedeschi, il Reichenbach (1793-1879) che gli dedicò il nome di una pianta che cresce lungo le rive del Natisone, il “Leontodon Brumati” appunto. Fu tra i fondatori dell’Orto Botanico di Urbino e, per la sua opera di ricercatore instancabile, preparatissimo, ottenne l’encomio solenne dell’Accademia delle scienze di Francia e un ambito riconoscimento della Società dell’Agricoltura di Milano.
Presso le Biblioteche di Udine e Gorizia sono conservate più di una ventina di sue opere manoscritte, ma soltanto due suoi lavori, escludendo i numerosi articoli apparsi su giornali o riviste del tempo, furono pubblicati in vita: il Catalogo sistematico delle conchiglie terrestri e fluviali osservate nel Territorio di Monfalcone edito a Gorizia nel 1838 dalla tipografia Paternolli, e la lunghissima ode anacreontica, intitolata Per Messa Novella, dedicata a Don Giovanni Battista Nob. Dottori e fatta stampare a Udine nel 1838 da Padre Pietro Benedetti presso la tipografia Murero.
Il Brumati sentì il bisogno di diffondere fra il popolo, dal quale proveniva, una cultura pratica - specialmente nel campo dell’agricoltura - che era frutto delle sue esperimentazioni, dei suoi studi e, se si vuole, della sua notevole erudizione. E nella prima metà del secolo scorso fu lui il personaggio trainante della comunità contadina e non solo di questa, fu lui il consigliere, il burbero amico, il confortatore, il maestro. Arrivava sul suo calés, trainato dal musset, per andare da una stalla all’altra, dalle vigne alla palude, dalla chiesa alla canonica-scuola con la tonaca impolverata e la barba incolta. Si rimboccava le maniche per insegnare, lavorando insieme ai gruppi che lo aspettavano o lo mandavano a chiamare. È merito suo se le donne staranzanesi (e quelle vermeglianesi) iniziarono la raccolta di quelle erbe e di quelle piante che, per diversi scopi, venivano preparate e portate a vendere a Trieste. L’opera di questo uomo genuino - particolare per quei tempi - favorì pure l’economia del paese, ma soprattutto gettò le basi di quelle idee e aspirazioni nuove (compito difficile in una comunità contadina e conservatrice!) che furono lievito sociale e culturale per molti decenni.
Era creduto e ascoltato, perché la sua azione disinteressata era ben diversa da quelle di coloro che non si ponevano neppure il problema dell’emancipazione delle classi subalterne e che curavano soltanto gli interessi personali e la conservazione dei privilegi. Con la sua voce tonante, tramandano i vecchi, si esprimeva nel colorito e vigoroso dialetto antico, mezzo insostituibile per entrare nelle menti di poveri analfabeti o quasi, piuttosto restii alle innovazioni; dialetto che egli sentì il bisogno di fissare sulle pagine dei suoi interessanti e precisi cataloghi sistematici della flora e della fauna del Territorio. Al Brumati sono stati attribuiti anche gli ottanta Detti sentenziosi, proverbi, adagi e pronostici de' Contadini del territorio di Monfalcone che più frequentemente si sentono, possibilmente esposti nel vernacolo ivi usato, salvo qualche parola cambiata a motivo di decenza, pubblicati anonimi alle pp. 53 e 54 del «Calendario per l'anno bisestile 1852» dell I.R. Società Agraria di Gorizia.
Mi sembra qui importante, dato l'interesse della scoperta, riportare inoltre per intero l'articolo che Silvio Domini ha dedicato al rinvenimento di tre poesie inedite del Brumati che riportiamo in fondo a questo saggio. Un articolo che contiene inoltre numerose ed importanti considerazioni riguardo al “bisiàc” ottocentesco:

"Catalogando l’archivio dei notai Cosolo quando sono arrivato agli atti del 1830, in mezzo ad un fascicolo di contratti e testamenti, legato con un nastrino verde, mi è saltato fuori un fascicoletto di tre sole pagine, legato sul dorso con un cordoncino bicolore. Alla vista di tre composizioni poetiche in dialetto scritte con l’originale calligrafia di Leonardo Brumati, la mia sorpresa è stata enorme. In calce al primo foglio, con altra scrittura minuta, la seguente scritta: “Manoscritti di Leonardo Brumati del 1837 e da me posseduti - Giuseppe Cosolo”.
Confesso di essermi emozionato, in quanto questa scoperta sposta l’inizio della letteratura bisiaca di molto indietro: il primo verseggiatore in bisiaco che finora si conosceva era il foglianino, Pietro Cauzer, che nel 1882 compose una serie di quartine, che lasciano molto a desiderare metricamente e di scarso valore letterario, per la “Sagra dei discolzi”.
La prima composizione del Brumati è un sonetto, scritto per le nozze di Giuseppe Cosolo con Elisabetta Lucia Maria Vio, avvenute nel 1789. Gli endecasillabi hanno rima AC BD nelle due quartine ed AC nelle due terzine: la metrica è perfetta e il bisiaco è quello usato a cavallo tra Sette e Ottocento.
Devo far notare che lo stesso anno dello sposalizio del Cosolo, il Brumati venne consacrato sacerdote: così si spiega questa poesia nata dalla loro amicizia per essere stati quasi coetanei.
La seconda poesia, intitolata “Morosi”, è composta da quattro quartine di perfetti ottonari con rima AD BC; in essa si rivela tutta la verve dell’autore, arguzia che già si conosceva nella citata “Ode anacreontica”.
La composizione "Morosi" non è databile con precisione, comunque sta nell’intervallo tra il 1798 e il 1837.
La terza composizione, intitolata umoristicamente “Mussa vernacola” (quel “Mussa” è una scherzosa trasformazione di “Musa”) è ancora un sonetto non caudato: le due quartine sono rimate AC BD e le due terzine AB, con C della prima e A della seconda che amalgnao i sei endecasillabi. L’argomento è serio: l’Autore si sfoga con i ricchi possidenti che avevano tentato, contro il suo parere di esperto e con nessun successo, la coltivazione del riso cinese o a secco, rovinando povera gente di San Canziano e di Staranzano e portando le zone malsane a ridosso dei paesi. Questa poesia è stata scritta senz’altro nel 1837. È pensabile che l’anziano notaio proprio nel 1837 abbia chiesto al Brumati di scrivergli i testi delle tre composizioni poetiche: la prima lo riguardava direttamente, le altre due forse gli piacevano.
Non sapremo forse mai quante e quali siano state le poesie del Brumati: io penso molte.
Ci sono bellissimi vocaboli come “felize”, “finamente”, “zoventù”, “corazo”, “solache”, “noma”, “cunsilgi”, “feva”, ecc. che ci confermano la continuità nei secoli di termini che sono arrivati fino a noi e che vengono ancora usati da quelli che parlano bisiaco. Mi fermo ancora un momento soltanto sulle voci verbali “diseuo”, “andeuo” e “desfauo”, dove la “u” sta al posto della “v”, come si usava negli scritti veneti anche di molti secoli passati; queste voci, nell’uso parlato, avevano perso molto tempo prima la vocale finale, diventando “andéu” e “diséu”, uso che perdurò fino alla fine del secolo scorso e anche oltre, per trasformarsi col tempo, anche nell’uso scritto, in “andevo” e “disevo”. E si potrebbe continuare, perché le tre poesie offrono molti spunti sull’evoluzione del nostro dialetto”.


*


Dopo aver ricordato le parole di Domini, a cui tutti noi dobbiamo moltissimo, possiamo così adesso tentare di rispondere alla seconda domanda: di che tipo di linguaggio stiamo parlando quando parliamo del bisiàc e, soprattutto, come si è diffusa una parlata di tipo fondamentalmente veneto in territori lontani da Treviso o Venezia, in cui sarebbe stato più logico incontrare - piuttosto - lo sloveno o il friulano?
Oggi certamente i comuni del monfalconese non si sentono più parte in alcun modo di quello che viene chiamato “Friuli Storico” (i cui confini coincidono per i bisiachi con quei luoghi, oltre l’Isonzo, in cui comunemente si parla il friulano) ma piuttosto di quell’area giuliana, accomunata da linguaggi di tipo veneto, composta da gradesi, triestini e istriani. Se pensiamo al passato di queste terre, però, gli ultimi studi riguardanti la storia linguistica del territorio di Monfalcone, oggi comunemente chiamato ‘Bisiacarìa’, ci fanno pensare sempre di più ad una zona ‘mista’ e meno omogenea di quanto non ci appaia oggi. Una zona in cui nei primi secoli dello scorso millennio, a seconda delle famiglie, si poteva parlare un dialetto di tipo sloveno o ladino (molto affine al tergestino e al muglisano), e in cui una buona parte della popolazione, almeno quella più dedita agli scambi o ai commerci, fosse in grado all'occorrenza, ma forse anche continuativamente, di impiegare il veneto del tempo. Già nei documenti più antichi del monfalconese difatti, come ha osservato lo studioso Maurizio Puntin, capita spessissimo d’imbattersi nella forma friulana e veneta di una medesima parola come se ci trovassimo in un’ambiente in cui si potevano usare con tutta tranquillità l’una o l’altra forma: cosa, tra l’altro, comunissima nel bisiàc dove possiamo trovare, ancor oggi, sedon, sculier o guciar, brosema o zelugna.
Si è parlato a lungo dunque, da parte di diversi studiosi come il Pellis, per spiegare il fenomeno della presenza di una parlata come quella bisiaca, in queste zone, di una relativamente recente ‘venetizzazione di un fondo ladino’; ma forse a questo punto, pur tenendo in parte come buone queste teorie, diventa necessario sfuggire alla genericità di queste affermazioni aggiungendo altri elementi. Oggi dunque possiamo finalmente allargare il discorso parlando, da Aquileia fino in Istria, di un contatto, certamente molto più antico, tra diversi linguaggi che si sono trovati a convivere in questi luoghi, in alcuni casi, già nei primi secoli dello scorso millennio quando, del resto, le differenze non erano così accentuate come lo possono essere oggi. Basti pensare, solo per fare un esempio, ai celebri processi di “Lio Mazor”, redatti in un veneto arcaico in cui alcuni studiosi hanno creduto, addirittura, di riconoscere elementi friulaneggianti. Evidentemente l’influenza del latino volgare era all’epoca così forte da poter far assomigliare ancora, almeno in alcuni tratti, il veneto ed il friulano più di quanto oggi non accada.
In seguito, l'arrivo graduale ma comunque imponente nel monfalconese di famiglie provenienti nella maggior parte dal Veneto dalla fine del 1400 (dopo le devastazioni arrecate dalle scorrerie delle armate turche) comportò certamente una ulteriore progressiva venetizzazione della parlata mantenendo però, al suo interno, numerosi elementi riconducibili al ladino, e forse anche al veneto di tipo più arcaico, periferico, che qui probabilmente già si conosceva. Per quanto riguarda il dialetto sloveno invece, di certo troppo difficile per i nuovi immigrati, o già in fase declinante, esso andò rapidamente perdendosi quasi del tutto, come si diceva, sopravvivendo solo in alcuni termini, tanto che la quasi totalità delle famiglie di certa origine slovena nella Bisiacarìa, già da secoli, hanno perso del tutto la memoria della loro parlata. Questa parlata sopravvive ed è impiegata quotidianamente (anche se non sappiamo se proprio nella sua forma originaria) ormai soltanto da alcune famiglie dell'area pedecarsica monfalconese mentre è ancora invece molto viva in quasi tutti i paesi del Carso.
Il risultato finale, secondo queste nuove teorie, fu quindi che, nell'arco di un centinaio d'anni, le famiglie che ancora parlavano ladino o il dialetto sloveno si adeguarono alla parlata dei nuovi arrivati arricchendola con molti termini particolarissimi che, misteriosamente, furono addottati e fatti propri anche da chi non era originario di queste zone. Come sembrano mostrarci soprattutto i documenti legati alla toponomastica locale, ma anche vari atti notarili, a partire dalla metà del 1500 il ladino e lo sloveno, di fatto scompaiono quasi del tutto da queste zone per far posto ad un linguaggio di tipo fondamentalmente veneto.
Da allora nei paesi del monfalconese tutte, se non tutte le persone che si sono trasferite dal Friuli in questa zona prima dell’apertura dei Cantieri Navali agli inizi del secolo scorso, tendevano così ad abbandonare la loro parlata natìa in favore del linguaggio impiegato dalla maggioranza della popolazione locale, cioè il bisiàc. Queste persone che si sono qui trasferite nel corso dei secoli dunque, anche se con cognomi di chiara origine friulana, non possono essere dunque oggi comprese ovviamente tra i parlanti la lingua friulana come dimostrano diverse famiglie che si sono trasferite tra Seicento e Ottocento che sono diventate a tutti gli effetti bisiache come, ad esempio, i Braida, i Fabris, i Braulin che non serbano più alcuna memoria della loro lingua d’origine. Nessuna famiglia ha del resto nemmeno conservato, come è stato invece a Muggia e Trieste fino almeno nell’Ottocento, nemmeno quello che è stato felicemente battezzato come “ladino oltreisontino” adottando tutte, in seguito ad un mutato assetto sociale del territorio, una parlata di tipo veneto. Facciamo presente, ad esempio, che alla famiglia Fulizio e Miniussi, di chiara e antica onomastica ladina oltreisontina e tra le prime documentate nel nostro territorio, appartenevano anche due dei compilatori del Vocabolario Fraseologico del dialetto bisiàc. Per cui non vi è stata continuità, com’è forse accaduto ( ma comunque solo in minimissima parte invece per la comunità slovena ), tra il ladino oltreisontino ed il friulano che viene parlato in ambito famigliare dalle famiglie di friulani trasferitisi in seguito a quella data nel nostro territorio. Gli unici che hanno dunque ereditato e conservato alcune tracce di quella misteriosa parlata sono, invece, proprio le famiglie che parlano bisiàc, non quelle che oggi in casa oggi parlano friulano, che è a tutti gli effetti, in questi luoghi, una lingua di recente importazione.
Alla fine del 2005, ad esempio, compiendo un grossolano errore, due comuni del territorio, come Monfalcone e Sagrado, sono stati inseriti in una tabella intitolata “I comuni friulani” all’interno dell’Enciclopedia tematica del Friuli Venezia Giulia, definendoli come appartenenti “all’ambito territoriale della lingua friulana”. Sarebbe invece più esatto dire che a Sagrado si parla il dialetto bisiàc mentre soltanto nella frazione di Sdraussina (Poggio Terza Armata) si parla il friulano assieme allo sloveno e a San Martino del Carso il dialetto “Samartinàr”. Per cui il friulano, in tutto il Comune di Sagrado, è parlato soltanto da circa la metà degli abitanti di una piccola frazione. Per quel che riguarda Monfalcone, invece, il friulano viene parlato (soltanto ed esclusivamente in ambito famigliare) soprattutto all’interno di quelle famiglie che si sono trasferite per lavoro nel corso del Novecento, mentre gli immigrati friulani di più antica data, come abbiamo detto dianzi, hanno praticamente tutti nel corso degli ultimi secoli adottato come lingua principale il bisiàc. Per cui se vogliamo parlare di una comunità storicamente radicata e di un uso pubblico e condiviso di questa lingua, gli unici due paesi dei comuni del monfalconese dove si è sempre e continuativamente parlato il friulano sono dunque Poggio Terza Armata ed Isola Morosini, due paesi che però per l’appunto non fanno parte di quella che noi chiamiamo ‘Bisiacarìa’, cioè i paesi in cui si parla il bisiàc, in cui invece rientra a pieno titolo Monfalcone. Una città dove, ad esempio, due tra gli avvenimenti più importanti ed attesi dalla popolazione, come il celebre discorso di ‘Sior Anzoleto postier’, in occasione del Carnevale, e la pubblicazione della rivista «La Cantada» che viene venduta in migliaia di copie, sono accomunati dal fatto di impiegare rigorosamente il bisiàc e non certamente la lingua friulana.
Ricordiamo inoltre a proposito le parole del grande linguista Graziadio Isaia Ascoli (che, essendo Goriziano, doveva di certo conoscere bene la nostra zona) scritte nel 1863: “Trieste, Rovereto, Trento, Monfalcone, Pola, Capodistria, parlano la favella di Vicenza, di Verona, di Treviso; Gorizia, Gradisca, Cormòns, quella d’Udine e di Palmanova”. Ma già nel 1853 lo studioso sloveno Kociancic aveva pubblicato un lungo articolo « Zgodovinske drobtinice pò Goriskem nabrane v letu 1853» (Briciole storiche raccolte nel Goriziano nel 1853) dove aveva enumerato tutti i luoghi in cui vivono i Friulani (« laski, vlaski ali furlanski prebivalci ») “con eccezione per il territorio tra la sponda sinistra dell'Isonzo ed il Carso fino a Gradisca, dove vivono gli Italiani, circa 12.000 anime, che si chiamavano « Bisiacchi ». Sempre nello stesso anno, scrivendo della provenienza di nomi di luoghi in Friuli, spiega in un altro articolo le origini di una certa lingua « bisiacha » nel territorio da Duino a Gradisca, tra il Carso e l'Isonzo aggiungendo che le popolazioni dei territori appartenuti una volta alla Repubblica Veneziana erano nell'anno 1848 seguaci della « cosa italiana » e contrari all'Austria, mentre « tutti gli altri nostri Friulani » erano fedeli all'impero austriaco.
Anche il Prof. Sebastiano Scaramuzza nel suo Le Vicende e le Conclusioni del mio studio giovanile della Parlata Gradese, stampato a Udine nel 1894, scriveva che “nell'autunno della mia quarta ginnasiale (1845 circa) a qual punto mi trovavo io co' miei studi gradensi?.. Ecco : Io aveva già conosciuto parecchi dialetti Veneti : il dialetto di Pirano, d'Isola d'Istria, di Capo d'Istria, il dialetto del Territorio di Monfalcone, il dialetto di Venezia, le parlate dei Chioggiotti, dei Caorlotti, dei Buranelli e di altre popolazioni venete”.
Per continuare, nel fondamentale Atlante storico-linguistico-etnografico friulano inoltre, si dice che le "principali località <> sono: Sagrado, Fogliano, San Pier d'Isonzo, Cassegliano, San Zanùt, Turriaco, Pieris, San Canzian d'Isonzo, Polazzo, Selz, Vermegliano, Ronchi dei Legionari, Begliano, Staranzano, Aris, Dobbia e Monfalcone". Dobbiamo inoltre notare che nello stesso testo, in schede riguardanti altre località della nostra Regione, sono evidenziate anche minime, mininimissime tracce di un uso più o meno recente del friulano. Nel caso del territorio di Monfalcone, invece, si parla solo ed esclusivamente del dialetto "bisiacco". In un'altro importante testo dell'insigne studioso Giovanni Frau, I dialetti del Friuli (edito tra l’altro proprio dalla Filologica Friulana), l'autore afferma che il "bisiacco" è una varietà dialettale fondamentalmente veneta", parlata nei paesi sopracitati, mentre la Bisiacarìa è definita come ‘il territorio in cui vivono i Bisiac(c)hi’. E anche qui non si fa alcun accenno ad un uso, seppur minimo, del friulano (e, sbagliando per mancata conoscenza certamente, nemmeno dello sloveno) nel territorio di Monfalcone. Riassumendo, allora, gli unici paesi del Territorio di Monfalcone dove è accertata storicamente la presenza e l’uso del friulano sono le frazioni di Poggio Terza Armata (in parte) ed Isola Morosini mentre è da escludere, nel modo più assoluto, la città di Monfalcone a meno che non si voglia dar spazio ad interessate riscritture della storia linguistica del territorio prive di ogni scientificità e subito rigettate, del resto, dai più autorevoli studiosi della regione.

Ciò che distingue il bisiàc da tutte le altre parlate della nostra regione è dunque dato soprattutto dalla sopravvivenza, al suo interno, delle tracce di questi diversi antichi linguaggi a cui dobbiamo aggiungere, in tempi relativamente più moderni, anche diversi termini di origine francese e, soprattutto, tedesca. Spesso così, in maniera del tutto inconsapevole, gli abitanti del monfalconese hanno quindi continuato ad impiegare fino ai nostri giorni termini altrove scomparsi, a volte, da molti secoli.
Come abbiamo detto, al ladino oltreisontino e al dialetto sloveno, parlate a cui Maurizio Puntin ha dedicato degli studi approfonditi, sempre più si sta diffondendo la convinzione che già in epoca medievale dovesse affiancarsi a queste parlate anche un terzo linguaggio. Un linguaggio che evidentemente doveva essere una sorta di lingua franca, derivata dal veneziano del tempo ed impiegata in tutta la fascia costiera, atta a permettere una migliore comprensione tra la popolazione locale e quanti - ed erano molti - arrivavano in queste zone anche da lontano, da Milano e oltre, per smerciare le proprie mercanzie. Monfalcone difatti, come testimoniano molti documenti, era città di ‘Muda’, di dogana, e tra le sue mura si svolgeva un importante mercato dove si vendevano prodotti locali ma anche merci più preziose. Questo spiegherebbe, meglio di un’ipotizzata, ma difficilmente dimostrabile, diretta discendenza di una parlata di tipo veneto dallo sfaldarsi del latino aquileiese, la presenza in alcune parlate della nostra regione di diversi termini veneti dai tratti più arcaici. A testimonianza di ciò le parlate tergestine e muglisane conservavano al loro interno numerosi termini veneti di tipo più arcaico come òglo ad esempio, testimoniato anche nell’antico chioggiotto, al posto del friulano vòli. È evidente che in questo caso non possono trattarsi di influenze del triestino moderno che, come sappiamo, è privo o quasi di termini riconducibili alle parlate venete più arcaiche, ricalcando piuttosto fedelmente quella veneziana settecentesca.
Per quanto riguarda il monfalconese, a proposito, è inoltre documentata la presenza di guarnigioni venete nel Territorio a partire dal 1289 (‘ma frequenti incursioni armate attraverso i canali lagunari risalgono almeno al secolo precedente’, ricorda Domini) con gli inevitabili continui contatti con quel mondo durante i quattro secoli di dominazione veneziana. Inoltre nel tempo pescatori, cacciatori (e, anche se molto più tardi, i ‘marineri’ che raccoglievano la preziosa sabbia dell’Isonzo per le costruzioni), avevano probabilmente già allora contatti con la comunità di Grado ed altri pescatori dell’Adriatico di lingua veneta, contatti che hanno lasciato la loro impronta soprattutto nel lessico marinaresco, nei nomi della fauna ittica, degli uccelli e delle piante di palude come, solo per fare un esempio tra i tanti possibili, la ‘brula’, la canna palustre.
Quel linguaggio che sarebbe stato in seguito definito come bisiàc ha iniziato ad imporsi comunque con forza, sembrerebbe, soprattutto a partire dall'inizio del 1500, cioè l’epoca in cui lo sloveno e il ladino oltreisontino scompaiono dalla Bisiacaria come lingua corrente. Il bisiàc, com’è stato detto, dimostra un tipico aspetto di veneto “coloniale”, anche se con aspetti piuttosto diversi rispetto a quello che si è imposto a Trieste e a Muggia, conservando al suo interno diversi termini di tipo più arcaico, legati all’area veneta e istro-veneta, come ancói, comódo, crïatura, spiandòr, gesia, cuntìnevo, i rari vóido, “vuoto”, e zerendìgul (da “cerendegolo”, una specie di fionda), spesso già citati dal Boerio come parole scomparse da tempo nel veneziano del Settecento e testimoniati soltanto nei documenti più antichi. Anche nelle interrogazioni il bisiàc (almeno quello parlato fino ancora ad una trentina d’anni fa) si distingue notevolmente dal triestino, per cui troviamo ad esempio, come anche nel tergestino, “onde vasto (vato)?”, “dove vai?” al posto di “’ndove te va?”, “asto (àto) catà?”, “hai trovato?”, al posto di “te ga trovado?”, “comódo èsto (èto) grando?”, “quanto sei alto?”, al posto di “quanto te son grando?” “parvìa de ché fali baldoria?” “perché stanno festeggiando?”, ecc.
Ovviamente sono di straordinario interesse anche tutti quei termini che troviamo documentati anche nel tergestino come nóu, tóu, ulìu, catìu, vìu, s’ciau, seu, trau, vec’, che evidentemente rimandano con forza ad un fino ad oggi importante e dimenticato sostrato, solo per citarne alcuni accanto ad altri derivanti dal dialetto sloveno antico come seima per indicare i fuochi epifanici. Queste scoperte sembrano dunque delineare un inedito quadro di antiche convivenze tra diversi linguaggi per cui come abbiamo sottolineato prima, quasi certamente, da Aquileia all’Istria, il confronto tra mondo ladino, veneto e slavo è stato molto più forte e forse precoce di quanto si sia finora immaginato. Probabilmente già in epoca medievale, da Muggia alla Bisiacarìa, il friulano ed il veneto si sono trovati così a convivere dando vita a linguaggi che oggi difficilmente si possono definire come appartenenti interamente all’uno o all’altro ambito linguistico; linguaggi come il muglisano ed il tergestino che sono parlate di tipo friulano fortemente ed anticamente influenzate dal veneto o come quello bisiaco dove, altrettanto forte nei secoli, accanto ad antiche espressioni venete, è stata la segreta, finora non riconosciuta influenza di una perduta parlata ladina.



















Poesie di Leonardo Brumati


Sonet

A Lùzia e Bepi Cosul
Sposi


Anca ti Lùzia te xe maridada,
felize mi te auguro la vita
finamente ti te à coronada
quela speranza che la era zita


cignuda ta ’l to cor e ben serada.
Dès bogna che te pense a far fioreti
parché la zoventù te à donada
a Bepi che al speta bei fioleti


par far faméa che la vaghe vanti drita
su quela strada segnada del Signor.
E ti Bepi corazo, ta la vita


xe anca spini e no solache fior.
Ma tut passa in sto mondo, passa via,
resta noma che al grando, vero amor.



Sonetto. Anche tu, Lucia, ti sei maritata, / felice io ti auguro la vita / finalmente hai coronata / quella speranza che silenziosa // tenevi nel cuore ben custodita./ Adesso bisogna che tu pensi a far fioretti / poiché la gioventù hai donato / a Giuseppe che aspetta bei figlioli // per metter su famiglia che vada avanti diritta / lungo quella strada segnata dal Signore. / E tu Giuseppe coraggio, nella vita // ci sono anche le spine e non soltanto fiori. / Ma tutto passa in questo mondo, passa via, / rimane soltanto il grande, vero amore.






Morosi


L’altro zorno al mus se ferma
e no zova la vis’ceta
mi desmonto e vardo a dreta
e de bot ò la conferma


drio la macia la cavala
de sior Pinperle passona
chieta chieta, bona bona,
e al me mus, lu no no fala,


al te zira svelt a dreta
ma sul oro li xe un fos
e rucando a più no pos
al rebalta la careta.


Quando che ghe ciapa i sete
i morosi i fa conpagno
no i te scolta gnanca al lagno
e i cunsilgi de mi prete.


Fidanzati. L'altro giorno l'asino si ferma / e a nulla serve il frustino / io scendo e, guardando alla mia destra, / capisco subito il perché: // oltre gli alberi la cavalla / del signor Pinperle bruca l'erba / quieta quieta, buona buona / e infallibile il mio asino // gira veloce a destra / ma, sul margine, lì c'è un fosso / e tirando a più non posso / rovescia il carretto. // Così quando sragionano / i fidanzati si comportano allo stesso modo: / non danno più ascolto né alle lagnanze / né ai consigli di me prete.




Mussa Vernacola


Un tenp un bon udor la bavisela
sufiava su de la marina cara
ma dès cu’i risi, questa la é bela,
vien su una spussa che l’é propio rara.


No i à vulù scoltarme co diseuo
de no piantar quei risi ta ’l paludo
e i siori quando che mi lazò andeuo
i me feva scanpar como un por gudo


par guantarme de bot in ta la nassa.
Ma mi cun arte desfauo la madassa
scrivendoghe a Gurizia le reson


che no le à valù, parché al paron
l’é senpre lu che al vinze e intant al por
al à magnà le vache e al so lavor.




Mussa vernacola. Un tempo un buon odore la brezza leggera / portava su dalla marina cara / ma ora con le risaie, questa è bella, / arriva una puzza davvero rara. // Non mi hanno voluto ascoltare quando ripetevo / di non coltivare il riso nella palude / e i ricchi, quando mi recavo laggiù, / mi facevano scappare come un povero pesce // per cercare di farmi poi finire nella rete. / Ma io con arte disfacevo la matassa / scrivendo a Gorizia le ragioni // che però non sono servite, perché il padrone / alla fine è sempre lui a vincere e intanto il povero / ha perduto le mucche ed il suo lavoro.