sabato 27 dicembre 2008

Leonardo da Vinci, vegetariano amico degli animali


Giorgio Vasari, nelle sue "Vite", racconta di come Leonardo "passando da i luoghi dove si vendevano uccelli, di sua mano cavandoli di gabbia e pagatogli a chi li vendeva il prezo che n'era chiesto, li lasciava in aria a volo, restituendoli la perduta libertà".
Liberando quegli uccelli appena comperati al mercato, Leonardo non si è concesso semplicemente il lusso di un gesto stravagante. Altre fonti rafforzano questa ipotesi. Lo stesso Leonardo, nei suoi Appunti, dichiara:
"Fin dalla giovinezza ho rinunciato all'uso della carne, e verrà un giorno in cui uomini come me considereranno l'omicidio di un animale alla stregua dell'omicidio di un essere umano".
Già dalle sue abitudini alimentari Leonardo si rivela un amante della natura, un uomo che ha fatto del rispetto del genere animale una regola di vita.
Ecco allora, qui di seguito, alcune interessanti riflessioni su questi temi.

L' IMPORTANZA DI DIVENTARE VEGETARIANI
Repubblica — 06 giugno 2008 pagina 39


Ciò che il vertice Fao "ha dimenticato" di discutere è il cuore del problema della fame nel mondo, che non è solo legato ai costi di produzione e distribuzione dei cibi, ma soprattutto alle abitudini alimentari della popolazione del pianeta. Occorre una rivoluzione nell' alimentazione dei Paesi ricchi per dare il via concretamente e subito ad una soluzione della tragedia dei Paesi poveri, dove si soffre la fame. Noi siamo alle prese con il problema opposto: aumenta l' obesità fra i nostri figli, le nostre adolescenti anoressiche usano il troppo cibo come ricatto e se ne privano fino a lasciarsi morire, la nostra dieta opulenta ci fa ammalare sempre di più. Proprio su questi temi si riuniranno a Venezia a settembre alcuni fra i maggiori esperti per la Quarta Conferenza Mondiale sul Futuro della Scienza: «Food and Water for Life». Io penso che l' ingiustizia alimentare sia una delle peggiori iniquità dei nostri tempi: una questione di civiltà e di cultura, che ci riguarda tutti da vicino. C' è un comportamento individuale responsabile, infatti, che può contribuire a riequilibrare questi due drammatici estremi ed è la riduzione del consumo di carne. Molti uomini di scienza e pensiero hanno creduto che la scelta vegetariana fosse quella giusta per l' armonia del pianeta. Dal genio rinascimentale di Leonardo da Vinci, che non poteva sopportare che i nostri corpi fossero le tombe degli animali, fino ad Albert Einstein, il più grande scienziato del ' 900, che presagiva che nulla darà la possibilità di sopravvivenza sulla Terra, quanto l' evoluzione verso una dieta vegetariana. Anch' io sono convinto che il vegetarianesimo sia inevitabile, per tre motivi. Il primo è di ordine ecologico/sociale. I prodotti agricoli a livello mondiale sarebbero in realtà sufficienti a sfamare i sei miliardi di abitanti, se venissero equamente divisi, e soprattutto se non fossero in gran parte utilizzati per alimentare i tre miliardi di animali da allevamento. Ogni anno 150 milioni di tonnellate di cereali sono destinate a bovini, polli e ovini, con una perdita di oltre l' 80% di potenzialità nutritiva; in pratica il 50% dei cereali e il 75% della soia raccolti nel mondo servono a nutrire gli animali d' allevamento. L' America meridionale, per fare posto agli allevamenti, distrugge ogni anno una parte della foresta amazzonica grande come l' Austria. Trentasei dei quaranta Paesi più poveri del mondo esportano cereali negli Stati Uniti, dove il 90% del prodotto importato è utilizzato per nutrire animali destinati al macello. Viviamo in un mondo dove un miliardo di persone non ha accesso all' acqua pulita e per produrre un chilo di carne di manzo occorrono più di trentamila litri di acqua. Già oggi non riusciamo neppure a contare quante malattie e quante morti potrebbe evitare un minor consumo di carne. Veniamo così indirettamente alla seconda motivazione del vegetarianesimo, che è la tutela della salute. Non ci sono dubbi che un' alimentazione povera di carne e ricca di vegetali sia più adatta a mantenerci in buona forma. Gli alimenti di origine vegetale hanno una funzione protettiva contro l' azione dei radicali liberi, cioè quelle molecole che possono alterare la struttura delle cellule e dei loro geni. Si può quindi pensare che chi segue un' alimentazione ricca di alimenti vegetali è meno a rischio di ammalarsi e possa vivere più a lungo. C' è poi un secondo fattore. Noi siamo circondati da sostanze inquinanti, che possono mettere a rischio la nostra vita. Sono sostanze nocive se le respiriamo, ma lo sono molto di più se le ingeriamo. Consumando carne, ci mettiamo proprio in questa situazione, perché dall' atmosfera queste sostanze ricadono sul terreno, e quindi sull' erba che, mangiata dal bestiame, (o attraverso i mangimi) introduce le sostanze nocive nei suoi depositi adiposi, e infine nel nostro piatto quando mangiamo la carne. L' accumulo di sostanze tossiche ci predispone a molte malattie cosiddette "del benessere" (diabete non insulino-dipendente, aterosclerosi, obesità). Anche il rischio oncologico è legato alla quantità di carne che consumiamo. Le sostanze tossiche si accumulano più facilmente nel tessuto adiposo, dove rimangono per molto tempo esponendoci più a lungo ai loro effetti tossici. Frutta e verdura sono alimenti poverissimi di grassi e ricchi di fibre: queste, agevolando il transito del cibo ingerito, riducono il tempo di contatto con la parete intestinale degli eventuali agenti cancerogeni presenti negli alimenti. I vegetali poi, oltre a contaminarci molto meno degli altri alimenti, sono scrigni di preziose sostanze come vitamine, antiossidanti e inibitori della cancerogenesi (come i flavonoidi e gli isoflavoni), che consentono di neutralizzare gli agenti cancerogeni, di "diluirne" la formazione e di ridurre la proliferazione delle cellule malate. La terza motivazione, ma non ultima, è di ordine etico-filosofico ed è quella che ha fatto di me un vegetariano convinto da sempre. Io ero un bambino di campagna, amico degli animali e oggi sono un uomo che ha il massimo rispetto per la vita in tutte le sue forme, specie quando questa non può far valere le proprie ragioni. Il cibo è per me una forma di celebrazione della vita, ma non mi piace celebrare la vita negando la vita stessa ad altri esseri.
- UMBERTO VERONESI





Leonardo da Vinci, genio animalista
Viaggio nell'alternativa vegetariana nella ricorrenza della morte del grande toscano

Carmen Somaschi, presidente dell'Avi: «Il 40 per cento del raccolto mondiale di cereali finisce negli allevamenti per produrre carne anzichè sfamare milioni di persone sottoalimentate. L'alimentazione vegetariana non è sacrificio, ma scelta etica e umanitaria»

6 maggio 2006 - Paolo Baldi
Fonte: Brescia oggi

Ha firmato capolavori ineguagliati dell'arte e preparato progetti eccezionali per l'epoca; ha realizzato studi anatomici di altissimo livello e lasciato scritti illuminanti; ha arricchito l'umanità per tutti i secoli e i millenni a venire e, 500 anni fa, aveva cercato persino di volare. E dall'alto della sua immensa statura intellettuale ha lasciato in eredità frasi come «Verrà il giorno in cui l'uccisione degli animali verrà considerata come quella degli esseri umani». Parliamo di Leonardo da Vinci, forse il più grande tra gli italiani di ogni epoca e celebre «avanguardia vegetariana». 
Pochi giorni fa, il 2 maggio, è caduto l'anniversario della sua morte, avvenuta ad Amboise, in Francia, nel 1519. E la ricorrenza ci ha offerto lo spunto per una riflessione su una delle innumerevoli peculiarità del genio toscano: la sua dieta «nonviolenta». 
Oggi la sua traccia viene seguita da milioni di persone anche in Italia. Ma la stragrande maggioranza dei consumatori ha altre abitudini, e neppure la recentissima ondata di timori legati all'aviaria sembra aver cambiato molto le cose. 
Eppure tantissime persone hanno visto le immagini crudissime diffuse dai network: sequenze che hanno immortalato galline, anatre o oche infette o a rischio cacciate in sacchi di plastica e poi sepolte vive, oppure bruciate (sempre vive). 
Ci sarà forse un effetto differito causato da quei video choc? Un augurio in tal senso arriva dall'Associazione vegetariana italiana (Avi), i cui vertici sono stati consultati da «Bresciaoggi» per capire cosa si può dire di diverso, di alternativo a fronte dell'allarme quasi planetario diffuso dall'influenza aviaria. 
E con la presidente del sodalizio, Carmen Somaschi, abbiamo affrontato il tema dell'alimentazione vegetariana da un punto di vista solo in parte animalista, parlando innanzitutto di chi mangia troppo (e «male» secondo chi ha deciso di abbandonare la carne) e di chi non mangia nulla. 
Forse, dicono all'Avi, il consumatore può riflettere di più se gli si ricorda che il 40 per cento del raccolto mondiale di cereali finisce negli allevamenti, per produrre carne anzichè sfamare direttamente centinaia di milioni di persone sottoalimentate, e tra queste un esercito sterminato di bambini, risolvendo davvero il problema della fame nel mondo. 
Forse può essere colpito dal fatto che la «produzione» di un chilo di carne di pollo richiede due chili di cereali, che diventano 7 per quella bovina. 
Forse può far pensare che se volessimo garantire a tutti gli abitanti della Terra la metà del consumo di carne medio dell'Europa, la produzione di cereali necessaria avrebbe bisogno di due pianeti come il nostro. Forse dovrebbe obbligare a pensare il fatto che con i due chili di cereali usati per ottenere una bistecca di due etti si potrebbero saziare per un giorno circa 8 bambini, e che ogni giorno decine di migliaia di bambini muoiono di fame. 
E non è finita. Sorvolando per il momento sul trattamento riservato agli animali da allevamento, bisogna ricordare che, tanto per fare un esempio, negli Stati Uniti l'inquinamento organico prodotto dalla zootecnia è 130 volte superiore a quello prodotto da 120 milioni di americani. Tutti i paesi industrializzati sono alle prese con quantitativi folli di liquami da smaltire su terreni che non possono più assorbirne, con polline da bruciare negli inceneritori, e persino con i «gas serra» prodotti dalle allevamenti: un sesto delle emissioni globali di metano deriva dai ruminanti destinati alla tavola. 
Insomma, dati alla mano, secondo l'Avi la zootecnia industriale è una gigantesca macchina che rende più affamati gli affamati, inquina in modo massiccio il pianeta e crea vere e proprie bombe biologiche, che nel caso degli indescrivibili allevamenti della Cina e del Sudest asiatico, riescono anche a generare virus «d'assalto» capaci di far tremare il pianeta. «Non basta per fare una riflessione sul nostro stile alimentare?», si chiede Carmen Somaschi. 
E se non basta, l'Avi ha pronti altri «promemoria» buoni per la coscienza di ognuno. Per esempio, ricorda che i famosi polli italiani allevati a terra (bastava guardare con attenzione i numerosi filmati passano in tv nelle settimane scorse per capirlo facilmente), restano sotto la luce 23 ore su 24 per continuare a mangiare, e raggiungono il peso «adatto» in 35 giorni di vita. Poi vengono uccisi. E non si può fare altrimenti, perchè si tratta di mostri della genetica, di ibridi realizzati a tavolino, e il peso enorme dei loro petti programmati in laboratorio finirebbe letteralmente per piegare e rompere le loro ossa e i loro tendini se potessero vivere ancora. Identico, ovviamente, il discorso relativo ai tacchini. 
Poi, parlando sempre del settore avicolo, c'è l'interessante capitolo del trasporto, con polli e tacchini letteralmente «sparati» da macchine ad aria compressa nelle gabbiette che si riaprono solo al macello. E se invece arriva l'aviaria, ecco riaprirsi il capitolo delle sepolture di massa di animali ancora vivi. 
All'Avi affermano che c'è una alternativa a tutto ciò, ed è l'alimentazione vegetariana; che non è un sacrificio ma una scelta etica, umanitaria e salutista. Per quest'ultima voce, volendo, si possono anche chiedere notizie all'oncologo di fama internazionale, non animalista ma vegetariano, Umberto Veronesi. 
«E' uno stile di vita che deve cambiare - commenta ancora Carmen Somaschi -: bisogna superare l'abitudine ad abbuffarsi di cibi sbagliati. Il consumo di carne crea solo una catena di stupidità senza fine: si massacrano milioni di animali per il consumo alimentare, e a intervalli periodici, proprio l'allevamento intensivo causa epidemie che portano ad altri massacri per l'eliminazione dei capi a rischio. Per stare nel mercato - aggiunge - gli allevatori fanno cose indegne, concentrando quantità enormi di capi. E alla fine, i carnivori pagano due volte: per acquistare la carne e per pagare, attraverso i contributi pubblici, la ripresa degli allevamenti azzerati dalle malattie». 
C'è bisogno di un salto culturale? «Indubbiamente. Gli animali sono considerati alla stregua di merce, non come esseri viventi capaci di sofferenza - risponde la Somaschi -. E anche i mass media hanno un ruolo determinante: hanno continuato e continuano a parlare del "povero allevatore che ha perso tutto", e non dei poveri polli trattati come sassi». 
Qualcosa sta cambiando? «Fortunatamente sì. Nel '96, quando esplose per la prima volta il caso "mucca pazza" i vegetariani italiani erano circa un milione e mezzo. Oggi le stime Eurispes parlano di circa sei milioni di persone». 
Un appello ai consumatori? «Li invito a essere più consapevoli - conclude la presidente Avi -, a riflettere su cosa hanno nel piatto. Perchè dal nostro consumo, dalle nostre scelte anche alimentari dipende il futuro nostro e di tutta l'umanità».

(Per ulteriori informazioni: Avi, tel. 02/ 45471720; sito internet www.vegetariani.it).

Antonella Anedda: un libro da non perdere


Libri da non perdere. Uno di questi testi è di certo, già quasi introvabile, "Cosa sono gli anni" di Antonella Anedda. Un “libro di gratitudini e rapine”, secondo le parole dell’autrice:

D’immense gratitudini e piccole rapine. Quando, a sedici anni, andavo a un appuntamento, studiavo. Come se quell’incontro, spesso senza seguito, spesso insignificante, fosse il preludio di un’alta conversazione, della più stellare delle unioni. E se c’era indifferenza quella derivava da ignoranza, semplicemente era luce che tardava. Studiando interrogavo me stessa e in quel dialogo silenzioso, nel mento sollevato verso qualcosa che era del mondo e non esattamente del mondo, trovavo la forza di andare nel mondo. Ho continuato a incontrare così la scrittura. Quando leggo mi metto alla prova, alzo il viso per capire cosa posso imparare. Ciò che è stato scritto può non solo non essere perduto, ma sfavillare in attesa di essere decifrato.

“Cosa sono gli anni” è un silenzioso, paziente intreccio di passioni e meditazioni nei confronti di tanti autori “imperdonabili” - come li avrebbe definiti Cristina Campo - accomunati dalla stimmate del bisogno inesausto, al di là del volere del mondo e anche di se stessi, di approdare sulle rive dell’essenza, bruciando attorno e dentro di sé, come in un fuoco febbrile e purificatore, ogni residuo di gratuità. Non sono saggi, nemmeno racconti, ma piuttosto il nudo riverbero di un pensiero, di un cuore interrogante, che s’inscrive sulla pagina chiara come una gèmmea condensazione di parole. Un libro, uno dei pochi, chiarificatore forse proprio perché nel fondo riparato sempre dal vento, raggelante, di una conclusione definitiva.

Ecco, qui di seguito, due pregevoli recensioni del libro.


Francesca Borrelli
Il lessico passionale della poesia


il manifesto, 02/05/1997

Che cosa sono per noi gli anni se non un precipitato di parole e di relative emozioni - sembra dirci Antonella Anedda dalle pagine del suo libro - e sebbene il suo sguardo incontri perlopiù gesti quotidiani di passanti per le sue stesse vie, non così si comporta il suo ascolto, che ha filtrato tra tutti il suono dei poeti più amati e ha accordato l’orecchio sul timbro dei loro versi: così é andata componendo “la raggiante corona delle frasi”, la timida sequenza di “rapine” delle altrui parole, e l’enorme gratitudine per chi le ha pronunciate e si ritrova a dialogare, in questo libro, sul filo di un comune sentire, indifferente allo scarto dei secoli, alle distanze che mai avrebbero permesso un incontro. Che cosa ci portano gli anni, avrebbe potuto dire Anedda, se non pieghe nella carne e fenditure nel cuore: ma lo lascia sussurrare alle figure del suo coro ideale, che hanno scelto di esporre le proprie cicatrici trasformandole in seni sulla pagina, e hanno misurato il respiro del verso sul fiato che avevano in gola, talvolta sincopando in poche sillabe tristi o felici esuberanze dell’animo, oppure scegliendo di affidarsi a distensione metriche più intonate alla pacatezza del momento. Delle parole altrui Antonella Anedda si é nutrita per scalare le vette più alte del suo sentire, se é vero - come dice - che prima di andare a un appuntamento leggeva frsi che le riempissero il cuore, forse per portarne il battito più contiguo alla mente, o per fortificarsi di fronte all’eventuale indifferenza e potersi dire che, semplicemente, “era luce che tardava”. Si é tentati di compiere, con le frasi di Anedda, la stessa operazione che lei ha osato con i suoi poeti, rubarle le parole perché talvolta é difficle resistere all’incanto dell’immagine che in esse si compone: più che prose le sue sono frammenti lirici, sospesi alla lievità di un sogno; e più che saggi questi scritti sono prove di saggezza come quelle che derivano da una consumata esperienza, oppure - come lei scrive - sondaggi sulla “terra del libro”, con la penna usata a mo’ di ramo per scoprire quant’é profondo lo strato che si offre e dov’é che oppone resistenza, quanto occorre scavare per trovare le fondamenta del senso, o l’origine di un significato riluttante a mostrarsi in superficie. “Occorrerebbe fermarsi sul ciglio di ogni verso” - scrive Anedda - esporsi fintanto che si arriva ad afferrare quel “tu” con il quale la poesia ti si rivolge, ti chiama a farne parte. E convoca sulle sue pagine parole e gesti tra lro lontani, ma tutt’altro che estranei: l’espressione della fatica che ci trascina nei “Beati” di Maria Zambrano, e la vernice che, come il tempo, trascolora dalla bambina alla madre alla vecchia nelle “Tre età” dipinte da Gustav Klimt; e ancora, “lacrime o sudore” di sfinimento sul viso di Marina Cvetaeva, tracce di una vita senza tregua, dell’eroico affaticamento da cui si origina e in cui matura l’intera sua opera. portano il segno di una stanchezza disumanante anche le parole di Simone Weil, operaia presso le Fonderie Bernard, quando scrive della sua dignità spezzata “sotto i colpi di una costrizione brutale e quotidiana”, e la santità della vecchia Pasenka descritta da Tolstoj in “Padre Sergio” é inscindibile dalla sua fatica; così come non resta che il segno della sottrazione e della perdita nella protagonista di “Mal vu, mal dit” di Beckett “trasmutata in pietra davanti alla notte”, e di scavo vivono anche le filiformi figure di Giacometti: tutte indistintamente figlie di una diversa, eppure accomunante, erosione del corpo e dell’anima in uno sfinimento senza possibile riscatto. C’é un comune lessico dell’abbandono nelle cui variazioni si ritrovano le parole del distacco, che in Amelia Rosselli descrivono “quasi una deportazione dell’anima”, e inseguono il “viaggio oltre la polvere” di Nelly Sachs, che insieme alle altre voci ebraiche di Getrud Kolmar, Etty Hillesum, Ottla Kafka costituiscono “l’onore del Novecento”, come scrive Anedda e “il prestigio del bene” come disse Simone Weil. La poesia non vive solo di atmosfere rarefatte e di materialità sublimate, ci sono versi che recano rumori e persino odori di cucine, di tepori domestici, di pentole in bollore: così é nei particolari messi a fuoco da Pasternak o dalla Achmatova, “fessure attraverso cui accogliere l’universale” - scrive Anedda; così é negli “Indizi terrestri” di Marina Cvetaeva, composti “non dopo, ma vicino al quotidiano”, sebbene la sua scrittura insegua “incandescenza di forma e pensiero”, un po’ come i colori che sfondano i confini della forma e si piegano alle correnti metropolitane, negli “Addii” di Umberto Boccioni. Ma, appunto, non di soli slanci procede il ritmo dei poeti: non quello di Wallace Stevens, sintonizzato sull’incedere incerto di un uomo già provato, i cui versi “coscientemente senili” sono scritti - dice Anedda - “dopo aver fissato bene la vanità”; né i versi di Celan che rinnegò le sue composizioni giovanili, né quelli di Kavafis nei quali risuona l’eco del suo “io non so sopportare”: versi consapevoli della loro irremediabile debolezza di fronte a un amore che si nega. Molte voci, troppe tra quelle convocate in questo libro, hanno scelto di tacere togliendosi la vita o lasciandosi morire: non ha senso azzardare una spiegazione, ma forse tra le pagine messe insieme da Anedda é legittimo cogliere un suggerimento: che esista un legame, talvolta troppo necessario, tra un corpo insidiato dalla morte e il linguaggio minacciato dal silenzio; come se la scelta di scrivere, essendo spesso prossima a un’ansia di totalità, rendesse meno tollerabile la percezione della propria finitudine.



Stefano Crespi
Immagini nella luce livida della solitudine


Il Sole-24 Ore, 06/08/1997

Per le meritvoli edizioni Fazi di Roma, esce un libro abbastanza insolito nelle categorie correnti: si tratta di prose, dal titolo “Cosa sono gli anni”, e più specificatamente di prose lungo la linea e quasi nell’assolutezza delle prose dei poeti. Un libri insolito e sempre più raro, al punto che l’editore ha aggiunto un sottotitolo più discorsivo di saggi e racconti. L’autrice, Antonella Anedda Angioy, vive a Roma, proviene da una famiglia dell’aristocrazia sarda; ha pubblicato nel 1992 il libro di poesie “Residenze invernali” (nelle edizioni Crocetti)._“Residenze invernali” e “Cosa sono gli anni” (con uno scatto di poetica) sono due titoli molto belli entro cui sembra definirsi, riconoscersi la presenza (la voce) di questa giovane figura. Sono titoli che entrano in una circolarità, in una reciproca relazione di poesia e prosa le quali diventano il segno e il sogno l’una dell’altra: il tempo e lo spazio, il presente e il passato, la bellezza e la vanità._Il punto originario della prosa, così come la intendiamo, nella sua imparagonabilità rispetto al racconto, al saggio, a un priori poetico, é l’assenza d’opera. La scrittura é possibile sullo sfondo di un’assenza di scrittura: fuori dalle categorie del linguaggio, non c’é che un mormorio ostinato che torna al silenzio di cui non si é mai linerato.Nella prosa introduttiva, “Senza recinti”, cade improvvisamente questo frammento: “Di ciò che ho letto e perfino tradotto non conservo quasi nulla. Come davanti all’amato, non é abbastanza o é troppo, come prima di un appuntamento, nello specchio non c’é che vuoto e un bagliore che é anche paura.” Scorriamo le pagine del libro avanti e indietro, lo annnotiamo di sottolineature, per ritornare sempre a questo punto, come alla cifra e all’originarietà di queste prose: la misura della scrittura e la dismisura della condizione irrapresentabile._Sono pagine, dice l’autrice, nate “nell’isola di un’isola”, scritte a memoria, con pochi libri, e ricontrollate poi a Roma nelle citazioni. Sono pagine dunque che si iscrivono in un tempo lungo, arcaico dove si adunano i segni, le tracce, le frasi più interiormente necessitate; dive ricorrono gli accenti essenziali, e forse ossessivi della parola._C’é un libro d’arte che ci attrae. E’ intitolato “Lettrici. Immagini della donna che legge nella pittura dell’Ottocento”. E’ una variante (la donna che legge) nella infinita raffigurazione femminile (la donna mentre si veste e si sveste, si lava e si specchia, sogna o dorme, mentre passeggia e conversa nei salotti, mentre lavora, mentre prega, mentre esibisce la sua bellezza o é ripiegata nell’affetto materno). Ma forse più affascinante é l’immagine della donna, senza libro, alla finestra: la nostalgia dell’assenza, di un’infelicità, l’interiorità di un tempo compatto, il luogo profondo dell’io, e quasi quella “luce rembrandtiana” di quotidiano mistero ( con un’espressione di Claudio Magris). Nell’immagine della donna senza libro, più che la storia di un linguaggio, amiamo l’archeologia di un silenzio. Le prose di questo libro dicono la vita, il senso unico e irripetibile di ogni volto, di ogni gesto, di ogni oggetto, di una pena senza nome, di una frase nella frase infinita; dicono la vita nella sua intensità che risplende dietro le parole, dietro le unità indefinite, dietro le formalizzazioni categoriali. E’ uno sguardo che, su una soglia oscillante, cerca la presenza sfuggente, tenta di ricondurla quale immagine: il tempo fitto e tramato dei libri passa attraverso le mute lettere di un alfabeto interiore. C’é l’epica degli scrittori russi, la voce della letteratura ebraica, l’orizzonte inesausto della letteratura femminile ( da Ingeborg Bachmann a Marianne Moore, da Hannah Arendt a Simone Weil, da Anna Achmatova a Marina Cvetaeva, da Amelia Rosselli a Cristina Campo, da Nelly Sachs a Gertrud Kolmar). Tutto é riportato a una cadenza di diario che non stringe l’atto della vita in una meditazione di racconto, o in un taglio critico; ma si congeda nello struggimento, nello sguardo di un incontro, nel “grigio spento” di un luogo, nella luce livida di una solitudine._Di questa scrittura primaria vorremmo sottolineare la connivenza con l’immagine. C’è nella scrittura il trascorrere dell’interiorità: l’immagine é quasi il tentativo di fissare l’atemporale, l’opacità che resiste. Il dire é portato a quella cifra di unità, dove la parola più che riassorbire il reale nel senso, riporta il senso nel respiro, nel “disegno della poesia” (Yves Bennefoy). Diventano così esemplarità di scrittura le “immagini” di Giotto, del Lotto, di Cézanne, di Klimt, di Albetro Giacometti; o il bellissimo racconto di Andrej Rubev: “Umili e regali, con le grandi ali colme di luce, i volti bruni leggermente inclinati, gli angeli della Trinità sostano alla mensa di Abramo nel sereno splendore di un miracolo domestico. Per dipingerli Rublev non dovrà che ricordare ciò che ha visto in quel giorno di pioggia: le tre creature stanche sedute a un tavolo sotto una tettoia, con i piedi incrociati e nudi, mentre in lontananza splendono i bagliori di una tempesta e lentamente cadono le prime gocce d’acqua”.


scheda tecnica:

autore Antonella Anedda

titolo Cosa sono gli anni

collana le terre

pagine 144

ISBN 88-8112-045-3

data di uscita 01/05/1997

numero collana 8

prezzo in libreria € 10,33

lunedì 22 dicembre 2008

IL PANE DI PADRE BIANCHI


Ascolto con attenzione ed intima partecipazione, da molti anni, le parole di Padre Bianchi a Radio Rai 3. Ho trovato su "La Repubblica" questo testo, che non è una semplice recensione né un pezzo d'occasione, di Piero Citati. Parole profonde, sentite, da leggere e condividere.


IL PANE DI PADRE BIANCHI
di Pietro Citati

da "La Repubblica", 20 dicembre 2008


Nell'alto Piemonte, tra Biella e Ivrea, sorge la comunità monastica di Bose. Siamo in collina: ci sono prati, fitti boschi; ma la vicinanza delle alte montagne - il Monte Rosa è prossimo - dà all'aria collinare quella freddezza, nitidezza e insieme quelle trasparenze e velature, che si avvertono nelle pitture lombarde di Bernardo Bellotto. Nella comunità, ci sono quattro sacerdoti. Tutti gli altri - cinquanta monaci e cinquanta monache - hanno conosciuto un lungo noviziato: otto anni di paziente attesa sulla soglia; ma non hanno preso gli ordini sacerdotali. Non dicono messa. Preferiscono restare «semplici cristiani», come sant´Antonio e san Francesco: in nulla, apparentemente, si distinguono dai laici che abitano le città e le campagne, salvo per l'obbedienza ai voti di vita comune e di celibato. Sono - quasi - come tutti gli altri: senza quella lieve, talora impercettibile parete che allontana il sacerdote dagli altri esseri umani. Della comunità fanno parte alcuni protestanti e due ortodossi: il patriarca di Costantinopoli è di casa; segno non di una impossibile fusione delle religioni, ma di quel fitto intreccio di esperienze religiose, che rende così confidenziale la nostra vita nel nuovo millennio.
Oggi il monastero fiorisce: ha case, chiese, refettori, sale per le conferenze, laboratori , fraternità , come un monastero del Medio Evo. Il monastero è nato a poco a poco, casa dopo casa, stanza dopo stanza, chiesa dopo chiesa. L'ha creato padre Enzo Bianchi, il priore, un uomo di sessantacinque anni, che giunge dal Monferrato: sembra uno di quei contadini che, nelle chiese romaniche, venivano scolpiti negli archi per illustrare le fatiche dei mesi invernali; piccolo, tozzo. con una folta barba medioevale, porta nelle membra il peso, la forza e l'energia della vecchia civiltà contadina. Sa fare di tutto. Cucina, prepara marmellate, mette le melanzane sott´olio, ascolta anime, cura corpi, predica, studia la Bibbia, scrive libri, prende aerei, sale sul Monte Athos; e prega nel silenzio della sua stanza appartata, come un monaco del dodicesimo secolo. Attorno a lui, tutti lavorano. Qualcuno coltiva i campi, educando primizie: qualcuno polisce ceramiche: qualcuno medica nella città vicina: o studia l'Antico e il Nuovo Testamento nella grande biblioteca: o prepara una bellissima collezione di Padri della Chiesa: o stampa i libri: o costruisce mobili; o edifica le nuove ali del monastero; o lavora in cucina. Come nella civiltà moderna, ciascuno ha il suo ruolo: l'attività è precisa, ordinata, scrupolosa; ma ad un tratto, con una completa inversione delle parti, chi studia il siriaco sbuccia patate in cucina, e il ceramista pulisce il pavimento del refettorio. I monaci di Bose sono cristiani e quindi non disprezzano e non tengono lontano il mondo, il regno dei corpi e la natura. Hanno copiato nei loro libri una frase di Paolo VI: «Anche se il mondo si sentisse estraneo al cristianesimo, la Chiesa non può sentirsi estranea al mondo, qualunque sia l´atteggiamento del mondo verso la Chiesa». E come potrebbero rifiutarlo, se al centro dei loro pensieri c'è, come dice un piccolo, bellissimo libro di Enzo Bianchi, il Mistero e scandalo dell’incarnazione Gesù si è umiliato e piegato: si è reso vile e abbietto: è disceso nel peccato, rinunciando al «tesoro geloso» della incontaminata vita divina, proprio per salvare ogni molecola, granello, briciola della realtà quotidiana. Così i monaci di Bose continuano quello che, per secoli, hanno fatto i conventi cristiani. Salvano la natura, e la trasformano in cibo. Cuociono le marmellate, conservano le melanzane sott'olio e i «ficuzzi», preparano i vini di queste vigne quasi montane, lasciano stillare le gocce del miele, come se lasciassero colare le gocce di un'essenza celestiale.
Se fossi capace, vorrei raccontare la vita di Enzo Bianchi, che considero il mio priore personale, e che ora pubblica presso Einaudi Il pane di ieri (pagg. 116, euro 16,50). Discendeva da una famiglia poverissima: aveva conosciuto quello che noi chiamiamo, senza renderci conto della parola, la miseria. Al tempo del Concilio Vaticano secondo, aveva circa ventiquattro anni; e insieme a due amici decise di rifondare il monachesimo - il glorioso monachesimo dei tempi cristiani, quello di sant'Antonio, san Benedetto, san Francesco -: impresa immensa. I tre partirono per Bose: dopo poco tempo, i due amici abbandonarono Enzo Bianchi; ridiventare monaci era troppo arduo e difficile. Egli rimase solo: non aveva un soldo: viveva nelle case dei contadini, quasi mendicando; e, nel tempo libero, che era moltissimo, restaurava una piccola chiesa romanica tra i prati, in fondo alla valle.
Enzo Bianchi attese: con l'immensa pazienza e testardaggine che soltanto uno del Monferrato può possedere; attese come attendono gli uomini di fede. E ora, dopo meno di cinquant´anni, ecco il Monastero di Bose: una realtà straordinaria, forse unica al mondo. Senza alzare la voce, esso intrattiene rapporti con il cristianesimo ortodosso russo e con quello greco, pubblicando convegni, di cui l´ultimo è appena uscito. Enzo Bianchi sa benissimo che, nella sostanza, nulla o quasi nulla divide il cattolicesimo di oggi dall'ortodossia greca e russa. Non c´è nessun bisogno di creare una specie di superreligione: ma il cattolico del 2008 pensa attorno al Cristo, a Maria e alla divinizzazione dell´uomo quasi quello che pensa un ortodosso greco e russo. Questo mi consola. Nel suo recente libro, che sta ottenendo un grande successo, Enzo Bianchi narra con perfetta verità cosa è stata la vita nelle campagne del Monferrato fino a cinquant´anni or sono. Racconta i rapporti tra Dio e il tempo atmosferico, quando Dio fermava la grandine: racconta le ore della giornata, ritmate dal canto del gallo e dal suono della campana: racconta come nelle case venissero invitate le lingere, ossia i mendicanti, che sedevano a tavola insieme ai padroni: racconta come il pane di ieri diventasse il pane dell´indomani; racconta le veglie nelle stalle e nel caldo della cucina, dove gli uomini giocavano a carte. Tutti vivevano molto soli. Non esisteva l´amicizia. Intorno, le vigne del Monferrato: le foglie gialle paglierino del moscato, quelle rosse paonazzo del brachetto, le foglie viola del dolcetto e quelle verde antico del barbera; e le piante odorose, il prezzemolo, l'erba cipollina, il timo, la maggiorana, il rosmarino, che padre Bianchi ha ripiantato nel suo orto di Bose, «insaporendo l´anima». Poi ci sono le ricette del cibo: quella meravigliosa del sugo della pasta; vorrei ricordarla per intero ai cuochi e alle cuoche di oggi. Era un cibo sacro, che apparteneva a un tempo ancora sacro.
Con discrezione, padre Enzo Bianchi tocca un punto gravissimo. La vita contadina di sessant´anni fa era gremita di simboli che venivano adattati all´esistenza cristiana: pensiamo al pane, al vino, agli uccelli, all´acqua, alla gramigna, al viandante e al pescatore nei Vangeli. Le parole di Gesù raccoglievano i nomi della vita agreste elevandoli a segni. Oggi, il nostro linguaggio non ha niente di sacro: né un computer, né un´automobile, né un frigorifero, né un telefonino né un aeroplano rivelano nemmeno un´ombra o un barlume di apparenza religiosa. Sono oggetti silenziosi, atoni, indifferenti, senza eco, che tengono lontana la parola. La foresta dei simboli è morta. Il linguaggio quotidiano respinge i Vangeli. Capisco come sia terribile il compito di padre Enzo Bianchi, e di tutti i monaci e gli uomini di chiesa che devono parlare agli uomini di oggi, senza più pane né vino, né gramigna né acqua né uccelli.

PIETRO CITATI

ENZO BIANCHI
Il pane di ieri
Einaudi 2008
pagg. 114 – Euro 16,50

lunedì 15 dicembre 2008

Nuova installazione di crico a Borgo Fornasir (UD) alla "Rassegna di Arte Contemporanea"

Da domenica 14 dicembre fino al 14 gennaio, nell'ambito della "Rassegna di Arte Contemporanea", presenterò una mia nuova opera scultorea, realizzata per l'occasione, nel giardino della Chiesetta di Borgo Fornasir a Cervignano del Friuli. Lo spazio è sempre aperto e illuminato anche nelle ore serali. L'opera, intitolata "Coordinate di una morte (La traccia luminosa della presenza)", è dedicata all'ingegner Fornasir, ideatore tra le altre cose, per conto dei fratelli Cosulich dei Cantieri Navali di Monfalcone, dello straordinario villaggio operaio di Panzano.
Borgo Fornasir, sorto dal nulla in una zona periferica e spopolata di Cervignano tra la prima e la seconda guerra mondiale, nacque dall'idea dell'ingegner Fornasir di creare a proprie spese una grande azienda agricola dove, chi vi lavorava, potesse usufruire anche di un alloggio per la famiglia, corrente elettrica ed acqua calda, spazi per lo svago: comodità del tutto sconosciute all'epoca alla maggioranza della popolazione. Fornasir era difatti, oltre che uno tra i più grandi ingegneri dell'epoca ed accorto imprenditore, persona di rara sensibilità, mossa per tutta la vita dal desiderio di migliorare le condizioni di vita delle classi più umili.
Sul pavimento della chiesetta del borgo sono ancora visibili quattro borchie che dovevano segnare, secondo la sua volontà, il perimetro della sua sepoltura. Non fu così, per diverse ragioni, e la sua tomba ora si trova altrove. Ma la traccia luminosa della sua presenza rimane nei molti segni lasciati in questo luogo, un luogo che ci mostra come sviluppo economico e attenzione per l'altro possono convivere in modo armonioso.
La terra, la pietra, nelle sepolture diventano schermo immobile e buio che qui, in quest'opera, svanisce per lasciare spazio al paesaggio in continua metamorfosi del cielo. Segno di una vita, nel profondo, mai uguale a se stessa. L'occhio di Fornasir non si fermava solo a ciò che vedeva. Ma si lasciava attrarre, anche, da ciò che non era ancora diventato visibile e a cui lui poi ha iniziato a dare una forma. La forma, nascente e desiderata, come avrebbe detto il mugnaio filosofo Menocchio, di "uno mondo nuovo".


Per ulteriori informazioni sugli altri eventi, che vi consiglio di visitare: www.artecorrente.it

giovedì 6 novembre 2008

Gianni D'Elia: verso Pordenone e il mondo


VERSO PORDENONE E IL MONDO



Tal sercli net da li pupilis
dai zovinùs in cieris lontanis
il sigu nòuf da li sisilis,
il veciu ciant da li ciampanis
a colin sensa scaturìju.

<>
e dis-ciapinela pal sulisu
a cor a vistisi par zì ju
in Glisia pai ciamps zà clars.

A torna ch’a son un puc pì clars.
A stissa il fòuc, a met a boj
il lat, a distira tai bars
li intimelis blancis, i ninsoj.
A svualin intor li òdulis.
I fis sot il biel suf biont,
a vuardin sensa pì jodilis:
a àn dismintiàt li so sfiòndis
zint ju viers Pordenon e il mont.

Pier Paolo Pasolini



Il treno ricomincia a rallentare. Poco a poco, emergendo dal caos informe in cui fino a un momento prima erano immersi, riemergono timidi, quasi indecisi i lineamenti della campagna friulana. La linea è quella che porta da Trieste, facendo scalo a Udine, a Venezia. Nel capoluogo friulano bisogna scendere per cambiare. Lungo i corridoi, in cerca del proprio binario, si incontrano tra studenti con cappellini, giubbotti tutti uguali e le immancabili Nike ai piedi, gli sguardi tristi dei soldati e le prime prostitute di colore che si dirigono, in vista della notte, verso Trieste o Pordenone. Assonnate, senza trucco, sono vestite con tute da ginnastica, magliette anonime su cui si adagiano, spesso, cupe cascate di treccine ornate di conchiglie. Molte di loro vengono dalla Nigeria o dalla Sierra Leone; alcune, le più allegre tra loro, probabimente da qualche zona del Sud America. Parlano in uno strano spagnolo, o forse portoghese, incupito dalla lontananza, dalle loro voci profonde, nasali. Si capisce, da subito, che quello che in questo momento si riflette nei loro occhi è un mondo freddo, destinato a rimanere, forse per sempre, estraneo.
Ci sono spazi, come questi, in cui ci si trova come cadendo nel vuoto. Niente a cui potersi aggrappare. In cui anche rimanere fermi ad aspettare non dipende mai da noi. Ma da orari prestabiliti o, spesso, dai sempre più numerosi ritardi. Allora, anche se il treno che arriva si sa, come accade con questo, che ripartirà solo fra mezz’ora, salire in fretta, quasi facendosi strada tra quelli che scendono, del tutto illogicamente, appare come una specie di liberazione. L’importante è passare in un altro luogo, un altro spazio. Trovare, sdraiandosi sui sedili, una collocazione. Un punto fisso da cui affacciarsi e tornare magari a fissare, con altri occhi, quello che fino a poco prima era assorbito senza scampo dal vuoto. Operai che agganciano le carrozze tatuate durante la notte con le bombolette spray; il venditore di panini, un colombo che scende in volo sul marciapiede di pietra chiara, lisciata da migliaia di passi.

Lentamente prima, poi sempre più veloce, il treno riparte. Poco fuori città, oltre i caseggiati della periferia, si tornano a rivedere i primi pioppeti, qualche gelso, le rogge che scandiscono ritmicamente le distese dei campi. Man mano che si va avanti ci si immerge in un’altra atmosfera, diversa da quella udinese, cittadina e borghese, anche se non più - come la descriveva Pasolini - appartenente ad un mondo contadino, arcaico, legato al succedersi ciclico delle stagioni. Rimangono ancora grandi, a volte immensi appezzamenti coltivati a mais, soia, filari interminabili di vigneti, ma i contadini sono rimasti in pochi. Poche decine di famiglie in cui da tempo, alle molte braccia, si sono sostituiti moderni macchinari. Ai lati delle strade le file di salici gialli, che venivano piantate per ricavarne i lacciuoli per legare le viti, sono state sostituite da insegne di faesite dipinta con slogan triti di banche o di grandi magazzini, sexi-shop, cantine sociali.
Certo, la memoria di ciò che era, quell’immagine di terra romanza fissata per sempre nei versi dei poeti dell’Academiuta, riesce ancora a sopravvivere e sovrapporsi, per un momento, a questi segni di morte che l’intaccano e nascondono, come i bozzoli bianchi, nuvolosi delle processionarie gli aghi verdi dei pini. Ma per quanto? Se nulla, forse, sopravvive all’erosione del tempo come la poesia, questo non basta a salvare, però, i luoghi cantati nei suoi versi. Anzi, forse tutto questo non fa che renderne in un certo senso, mantenendo vive davanti agli occhi queste lucenti immagini del perduto, più doloroso il ricordo. Anche se l’occhio capta ancora, e spesso, angoli sperduti di quiete, fitti boschetti di rovi e acacie, muri calcinati di casolari su cui al mattino, come su di una vela tesa, tra le onde terrose dei campi nudi si riflette la prima luce rosata.

* * *

A Casarsa della Delizia, dove Pasolini visse e scrisse i suoi versi friulani, c’è un’altra fermata. Da lì, poco più che adolescente, mi recavo a piedi verso Versuta, un piccolo borgo dove il poeta con sua madre visse durante la guerra. Ci andavo a piedi, forse l’unico vero modo per capire un paesaggio. Di assorbirne i colori, coglierne i profumi. In macchina, ovunque si vada, è da dietro un vetro, ad una velocità non nostra, che attraversiamo i luoghi. Li attraversiamo; ma questo non basta: l’importante è essere attraversati dai paesaggi che incontriamo. Bisogna respirarli, lasciare che penetrino dentro, in ogni fibra, attraverso i pori della nostra pelle.
Anche a Versuta le cose negli anni sono molto cambiate. Resta ancora però presso una casa colonica, segnalata da una targhetta, la fontana cantata nei famosi versi d’apertura delle “Poesie a Casarsa”:

ë ü ç ï ö ä© b ê û î ô â á ú í ó


Fontana di aga dal me paìs.

A no è aga pì fres’cia che tal me paìs.

Fontana di rustic amòur.


Fontana d’acqua del mio paese.

Non c’è acqua più fresca che nel mio paese.

Fontana di rustico amore.

Tra i campi lì vicino si trova anche, mezzo diroccato e senza più il tetto, il “Casél”, una piccolissima costruzione in muratura per tenere gli attrezzi dove, durante la guerra, Pasolini faceva da maestro ai bambini della zona. Rami di alberi entrano dalle finestre senza vetri in quel luogo in cui - esperienza quasi unica in Italia - venivano discussi versi di Penna e Machado, Caproni e Lorca. Nascevano qui, tra i campi, poesie nuove e traduzioni in friulano dallo spagnolo, dal catalano, dall’inglese, mentre si andavano formando alcune delle maggiori personalità della cultura friulana del nostro tempo. Una lezione, dopo quasi mezzo secolo, mai appresa, o solo in minima parte, dal nostro sistema scolastico. Destinata a consumarsi, probabilmente, tra quelle macerie. Macerie che però, riprendendo un pensiero di Wittgestein, diventeranno “ alla fine un mucchio di cenere, ma sulla cenere aleggeranno spiriti”.
A Versuta abita ancora Ernesta, una gentile contadina che aveva affittato una stanza a Pasolini e a sua madre quando Casarsa, per via dei bombardamenti, era diventata troppo pericolosa. Racconta di quando morì Guido, il fratello, nella strage di Pòrzus, e Susanna rimase per giorni abbracciata a Pier Paolo fissando, lontane, le cime azzurrine delle montagne.
Chiacchierando insieme, ogni tanto mi diceva in veneto: “Pasolini el iera un omo bon, bon”. Sempre gentile e disponibile, era molto amato dalla gente semplice di qui che ancora non si capacita delle modalità della sua morte.
Raccontò, prima di congedarsi, che un giorno gli chiese: “Dimmi, Pier Paolo, poiché io sono ignorante e non capisco queste cose, secondo te, che hai studiato, esiste Dio?”. Lui, dopo un attimo di silenzio, le rispose: ”Dio c’è”. E tornò a ripeterci questa sua risposta fissandoci con un’aria solenne, come a volerla sottolineare meglio, per tre volte di seguito.

Proseguendo ancora si arriva a Codroipo del Friuli, dove vive Amedeo Giacomini. Piccolo di statura, la barba bianca, il suo corpo come il suo sguardo tormentato trasmettono un’energia interna che i malanni fisici, le dure prove che ha dovuto attraversare, non sono riusciti a spegnere. I suoi lineamenti ricalcano la tempesta interiore in cui, fin da giovane, ha dovuto dibattersi. Spirito combattivo, polemico nel voler ristabilire ad ogni costo la verità dei fatti quando la vede minacciata. Parla nelle sue liriche di giorni immersi nel buio crogiolo della malinconia -Tal grin di Saturni, nel grembo di Saturno come dice una sua poesia - ma segnati nel fondo da una “barbara speranza” che lo porta, ugualmente, ogni giorno a tentare di ricominciare daccapo:

ë ü ç ï ö ä© b ê û î ô â á ú í ó


Jo, nassut di zenar,
fì de ploe e de nef,
tampieste tal cour di une mari
ch’a no mi voleve,
scampanotà di cjampanis
a saludà il miò no vole jessi tal mont...
’Ste’ barbare speranze
ch’a ti à fat vivi tal grin dal jessi,
grin di Saturni, ti puarte, madrac vert,
a sbrissa ta lis sfesis,
ombrene malade, gjat avostan...
Il fouc e la sinise, cjalde cjaresse
sul trima dai vues, ti sburtin
ogni di a sercja di scuminsa...


Sulle pareti, tra i molti quadri, pende un lavoro in pelle di Luciano Fabro, il grande artista concettuale, che è anche suo cognato. Ne possiede molti altri, forse anche più belli, ma, dice, non c’è spazio sufficiente. Dietro a lui, invece, si staglia una delle più belle incisioni di Zigaina regalatagli in occasione della pubblicazione del libro Mistieroi- Mistirus, con una prefazione di Padre David Maria Turoldo, in cui appare la sua traduzione in friulano del famoso poemetto di Zanzotto.
Amedeo fuma in continuazione. Spegne nel posacenere già colmo una sigaretta dopo l’altra, affondato nella poltrona del suo salotto, mentre il cane Mozart - il “salvato dalle acque”, l’ultimo di una cucciolata destinato a morire - gli si infila sotto le gambe, guarda incuriosito gli ospiti o si volta verso Sandra, la moglie di Amedeo, in cerca di una carezza. Mozart deriva il suo nome dalle sue insolite qualità canore: più che abbaiare sembra inseguire, con grazia, qualche confusa traccia melodica ascoltata in chissà quale altra vita.


Il cjanut ch’a’ ti sta intor,
botul dols e pelos di cjarina
quant che il cour, lat d’ aghe lamie,
al trime intal glas di une vite
ch’ ’a ti rive al sveati svintade,
chel bastart squasi ros che il segret
al cognos dal sta par sé sense dole-si
se il fret distac di cheatris
a’ lu insit sicu piere tal quadri,
al dà la misure, bajant,
dal tiò jessi siarade e lontane...
(...)

Il cagnolino che ti sta intorno,
botolo peloso e dolce da accarezzare
quando il cuore, lago d’acqua insipida,
trema nel ghiaccio di una vita
che ti giunge al risveglio portata dal vento,
quel bastardo quasi rosso che il segreto
conosce dello stare per sé senza dolersi,
se il freddo distacco dagli altri
lo incide come pietra nel quadro,
dà la misura, abbaiando,
del tuo essere chiusa e lontana...

Giacomini, come anche Ida Vallerugo, si è dedicato alla scrittura in friulano dopo aver iniziato come apprezzato narratore e poeta in italiano. E, anche in questo caso, l’occasione scatenante è stata il terremoto, come una sveglia che abbia bruscamente riportato alla realtà, alla propria prima esperienza della realtà, due tra i più raffinati sperimentatori in lingua della nostra regione. Come un conto in sospeso, dimenticato nel tempo, che chiedeva di essere saldato. Un appuntamento, di cui non si sapeva nulla, ma che ugualmente non si poteva più rimandare.
Oltre a Pasolini, oggi, è difficile trovare un altro autore in Friuli della statura di Giacomini: opera dopo opera, fino alle ultime, altissime prove, la sua produzione lirica si è imposta come una delle esperienze più importanti nella storia della letteratura italiana (anche se, a differenza degli altri grandi nomi della poesia in dialetto tutti editi da grande case editrici, i piccoli, molto raffinati editori con cui ha pubblicato, non sono mai riusciti a farlo conoscere bene al grande pubblico ). Filologo finissimo, traduttore dal francese, di testi provenzali e dell’Historia Longobardorum di Paolo Diacono, dirige tra l’altro la fondamentale rivista dedicata ai dialetti Diverse Lingue. E’, inoltre, un grande conoscitore degli uccelli e questa sua esperienza è confluita nei suoi due trattatelli intitolati L’arte dell’andar a uccelli con vischio e L’arte dell’andar a uccelli con reti.
Se la lingua di Pasolini è quella materna, elegiaca, in cui il confronto con la realtà si scioglie sempre in una visione lirica e trasognata, addentrata in una lontananza quasi mitica, il friulano addottato da Giacomini è quello duro, intercalato da imprecazioni violente, dei padri. Il confronto con l’esistenza, nella poesia di Giacomini, non è separato dal diaframma delle mediazioni. Come nella vita, la sua parola penetra direttamente nel cuore delle cose.

A’ si reste chi a regjistrâ events,
suts i vôj, doprant peràulis
ch’a no nus làssin scjamp,
vueits di sens e di spassi
intal reliquiari ch’al fo dai siumps.
E a’ no si vores ch’ ’a si jevassi buere
a tirâ- sú i ôrs dai dîs,
a mostrâju crots intune lûs di vêri.
Li piíssimis mòscjis a’ nus svuàlin intôr
insiliôsis ’romai pluj di vècjus sarpints.
’I lassin lâ la man sul ôr dal sfuej
fermant ancje i zesç.
Un orloj di lontan
al bat intal sanc òris di pene.

Un affondo doloroso, spietato a volte, ma naturalmente votato al canto, come se, nelle sue poesie, anche l’aspetto più brutale della vita non fosse destinato ad altro che a questo: a un canto ininterrotto che, come negli uccelli accecati da richiamo, si conclude solo con la morte. Un’estrema dissipazione di sé fino ad annullarsi, ma che resta il prezzo da pagare per dare una voce all’esistenza che arde dentro di noi.
Perché ciò che distingue subito l’opera di Giacomini, la rende diversa da quella di molti altri scrittori in lingua e in dialetto contemporanei, è proprio la profonda musicalità che permea tutti i suoi versi. E non si tratta, qui, soltanto di lirismo, ma di vera e propria musica, come se, a seconda delle stagioni della vita o degli stati d’animo, egli sia andato componendo di volta in volta un tango o un preludio orchestrale, una composizione corale o un lied, un canto d’amore.

Tu èris pai miei làvris
more madure di morâr.
’A ti rideve tai vôj ’ne dolse sede,
promesse a traimi-four
di là che il sorêli al ere une feride,
aghe clare, lusinte
pa la mê sêt di sbisse
sbrissade fra li’ sfésis dal estât.
O li fiéstis de viarte
su la cise dai rosârs!
Il tió cuarp di agane
al fermave la lûs
tanche sui pètuj li’ pèrlis de rosade.
Strénzilu, peâti
al fo jessi agnul
colât tal cour dal mont,
ta une tiare uarbe di pecjât.
Pò al vigní misdí; pò sere...
Vualive si speglave tai flancs
’ne strache pâs:
al suplît amôr
la glorie dai cuarps scunîts
’a no j bastave.
Ti ài piardude par pôre di no savê
peràulis a disi la fan di té rinade;
j’ ti ài piardude ch’ j’ eri cjoc
inmò di ben e di bieltât...
Amôr, se pùar ch’ al é il lengas de gionde!
Mitût di bande
j’ mi disfâs cumò in tardívis soledâts.

Sono i suoi ultimi lavori comunque, come questi, a rappresentare i vertici della sua produzione. Presumut Unviar e In agris rimis sono i libri della maturità, dell’avvicinarsi dell’ultima stagione della vita. Del farsi inverno, lasciate cadere le foglie come gli alberi, in un’estrema economia dei propri mezzi espressivi per fronteggiare l’attacco del nulla, del gelo. La parola si scarnifica, come restringendosi in un unico punto e rilasciando così, in seguito, la luce limpida nata da questa sempre più tesa concentrazione.


Al cale il soreli sul cil dal mont
turbul ’romai di siumps scuminsats.
Intor de’ cisis, grìviis d’ ombrene,
a’ svuàlin i gnòtui inmubinats.
Tra poc ’a muardarà la suite
i ors de gnot cu dinc dal siò strit
ch’ al plate ogni revoc maturìt.
’A é l’ore di piardi-si in sé
fats grancs di scusse dure
a strenzi il segret dal cour ch’al madure.

Non cambia il paesaggio descritto, ma la volontà di fuga presente nelle sue raccolte iniziali via via scompare per lasciar posto ad un incontro, sentito senza via di scampo, con il proprio destino.


(...) Bisugne impara a resisti.

No a la vìe. No a restâ,
a resisti,
ancje se di sigur
varin smenteanse ancjemò, dolur.

Le opposizioni brucianti, insanabili, che lo hanno tormentato per tutta la vita, tendono allora a dissolversi. Anche il dolore, così a lungo patito, pur senza estinguersi, anzi, sembra oltrepassato e si aprono allora, improvvisi, inattesi, squarci inattesi di liberazione:

In Friuli il rapporto tra musica e poesia, scaturito naturalmente dalla sonorità unica di questa lingua, ha origini antiche che si diramano fin nel presente. Una passione che contagiò anche Pasolini e che mantenne, poi, anche negli anni romani, partendo proprio dalla suggestione delle stupende villotte, le vilotis, caratterizzate come scriveva dalla

brevità metrica, che del resto si fa profonda nell’intimità dei contenuti, e vasta nella melodia: a esprimere come si canta uno spirito a volte ciecamente malinconico come possono esserlo certi sperduti dossi prealpini, di sera, d’inverno; e talvolta colmo invece di un’allegria accoratamente rozza, sgolata, di cui si empiono piazzette e orti nei vespri odorosi, nelle notti tiepide.

A Gradisca di Sedegliano, a pochi chilometri da Codroipo, abita anche il pianista Glauco Venier. Glauco è ancora giovane ma, dopo essersi diplomato in organo, ha intrapreso una carriera nell’ambito del Jazz costellata da numerosi riconoscimenti. Alto, dal fisico imponente, i capelli scuri incorniciano un volto che esprime la sua naturale apertura verso gli altri, verso ogni nuova esperienza creativa. Figura aliena alle mode e sfuggente ad ogni classificazione precostituita, sempre pronto ad affermare con forza il bisogno e il diritto di spaziare liberamente in più campi diversi senza per questo perdere la propria identità, Venier è considerato oggi come uno dei migliori pianisti europei viventi.
Come scriveva recentemente Carlo Boccadoro, in una sua recensione all’ultimo lavoro dell’autore friulano, “L’insiùm”, il pianismo di Venier è “memore dell’esperienza del Jarret di Belonging e My Song eppure perfettamente in grado di affrancarsi da quel modello per esprimere una personalità multiforme. Armato di un solido bagaglio tecnico che gli deriva da un passato di studi classici, Venier unisce l’assoluta bellezza del tocco a un uso molto controllato del virtuosismo, sempre incanalato verso il massimo dell’espressività di fraseggio. Anche le sue improvvisazioni si caratterizzano per un uso molto intelligente della costruzione, in cui ogni elemento è inserito in un nucleo compatto; nulla viene sprecato, tutto ha un senso, e spesso a Venier bastano poche note per creare una costellazione melodica piena di autentica poesia”.
“L’insiùm”, “Il sogno”, è un album di grande bellezza in cui Venier ha rielaborato brani popolari e poesie in friulano dal Cinquecento ai nostri giorni in chiave jazzistica: un atto d’amore nei confronti dei luoghi in cui è nato, al legame antico in questa terra tra musica e parola, con le migliaia di Villotte nella cui lingua preziosa, romanza, il profumo del lontano torna a spirare portato dal vento.

* * *

Pordenone, tra tutte, è forse la città che ha subito più trasformazioni fra quelle del Friuli. A partire proprio dall’uso del friulano che, qui, è stato sostituito da una parlata veneta importata dalla media borghesia quasi a segnare, una volta per tutte, il distacco dal mondo contadino. Da borgo rurale, difatti, nel giro di pochi decenni si è trasformata in uno dei centri industriali del Nord Est.
Le tracce del lavoro iniziato da Pasolini, però, non sono state cancellate. L’amore per la poesia sopravvive nell’opera di molti confluendo in importanti pubblicazioni a cura delle “Edizioni Biblioteca dell’Immagine” e, sopratutto, grazie a Gian Mario Villalta che qui ha portato in una serie di incontri i più importanti poeti italiani, da Fortini a Sanguineti, da Loi all’Anedda.
Alla fine del viaggio, di questo itinerario lungo le tracce di Pasolini e insieme della poesia in friulano, giunto a destinazione, nella torre antica di mattoni che hanno trasformato in una bella enoteca, tra il fumo e il tintinnìo dei bicchieri, guardo Gianni D’Elia mentre parla con la sua voce sottile. I capelli ondulati e fluenti, la barba, sulle guance, morbida e rada come quella di certi orientali, gli occhi vivi e attenti sotto le lenti cerchiate da una sottile montatura dorata. Le dita chiare ed eleganti. Aperto e disponibile, a tratti nella sua voce, tra i discorsi, s’insinua una nota dolorosa, come assorbito da qualche memoria triste che l’attraversa dal fondo del tempo.

...quanto più di me vivo privo,
non tardare nel nome dell’amore
a sentire levare lo sguardo del mattino
che passa in una solitudine perenne.

Con tanto silenzio la vera stagione,
anche se l’inverno è ovunque,
si alza altissimo nel cuore
dove udire e scorgere ogni volta.

Agli inizi d’autunno del’75 Katia Migliori, che stava allora allestendo l’indice ragionato della rivista Officina, telefonò a Pasolini per chiedergli un incontro. Il poeta le promise che finito il montaggio di Salò, a cui stava lavorando, l’avrebbe attesa a Casarsa, dove si sarebbe recato per qualche giorno a riposare. A quell’incontro doveva esserci anche Gianni D’Elia. La morte di Pasolini non rese mai possibile quell’incontro. La nostalgia per la scomparsa di un maestro come Pasolini veniva ad assommarsi così a quella, altrettanto bruciante, per un incontro che non è potuto accadere. Forse è stato anche questo avvenimento a far sì che nell’opera del poeta pesarese si ripresenti di continuo la figura di Pasolini, come se il lutto per quell’incontro così brutalmente sottratto dal proprio orizzonte, non potesse esaurirsi. Come se quel vuoto non si possa tentare di colmarlo che cercando, oltre la morte, un colloquio mai avvenuto.

Passato attraverso l’esperienza difficile, contrastata di Lotta continua, dopo aver vissuto fino in fondo la crisi delle ideologie, come egli stesso ricorda, “la poesia di Pasolini, la prosa e la letteratura critica di Officina, e in special modo le analisi storiche di Romanò, che legavano i testi e gli autori tra Ottocento e Novecento al contesto della società e della cultura italiane, mi sembravano di un efficacia incredibile. La crisi della politica ne veniva illuminata, in profondo, senza rifiuti formalistici, ma neppure senza indulgenze plenarie. C’era qualcosa che poteva capire la storia e interrogarla, oltre ogni idea di autonomia delle forme, a contatto con le idee del secolo, con le speranze e le disperazioni più vere di ogni vivo. Ed era la poesia, come forma di conoscenza, come indipendenza da ogni ideologia prescrittiva e di partito, come esercizio di un realismo critico e ideologico di pensiero, e proprio nel solco di una nuova conczione marxista ed eretica, come estrema risorsa anche morale dell’individuo anonimo,magari anche come scandalo della contraddizione e rifiuto delle logiche dominanti, politiche e culturali”.
Poi ci fu l’incontro fondamentale con Roversi, a cui seguì la pubblicazione del suo primo libro di poesie Non per chi va, e la necessità di attrezzarsi sempre più autonomamente, dando vita a una nuova rivista da farsi a Pesaro. Un’esperienza per molti versi unica nel panorama italiano, con quattordici numeri, usciti tra il febbraio 1982 e il novembre 1994. Innumerevoli interventi critici, interviste, racconti e sopratutto poesie di autori come Giudici, Luzi, Fortini, Pasolini, Roversi, Caproni, Bilenchi, Santi, Macchia, tra i tanti, tantissimi, che hanno collaborato e dato un volto - in forma più o meno diretta - a quella che rimane una delle più interessanti e importanti riviste di questi decenni: “Lengua”.

Nel corso di questi anni, per incontri o conferenze, Gianni D’Elia si è recato spesso in Svezia e, ultimamente, grazie alla sensibilità della casa editrice Artemisia, con sede a Helsinki, a cura di Elina Suolahti e Martii Berger, è uscito anche un elegante volume intitolato Voci di scrittori italiani, che raccoglie alcune fra le più note testimonianze pubblicate a partire dal primo fino all’ultimo numero uscito. Testimonianze di straordinario valore e densità ma, anche, di sorprendente godibilità, accomunate da uno stile limpido, da un cristallino nitore che permea anche i ragionamenti più complessi. Si apre così, già ad una prima lettura, un mondo attraversato da una mai sepolta passione per la scrittura, il ragionamento, ostile ad ogni improvvisazione gratuita, che prende rilkianamente le parti, sempre, del “difficile”. Esemplare, in questo senso, l’intervista a Fortini a cura di Attilio Lolini in cui - tra le altre - molto intense e significative appaiono le risposte riguardanti il suo modo di comporre:

Essere sottoposto all’occasionalità della lirica è cosa che ho sempre considerato come propria di una fase storica della poesia che rifiuto con tutte le mie forze e che mi pare legata, oggi, ad una tteggiamento errato e perfino puerile. Di qui l’ambizione, sempre regolarmente fallita, di altro: cioé di un discorso lungo. Quando oggi qualche voce critica (ad esempio Berrdinelli) mette in evidenza la relativa brevità della durata interna alle mie composizioni dice qualcosa di vero: ma erra solo se parla di epigramma. Ci sono, naturalmente, mie scritture che hanno e vogliono avere carattere di epigramma; ma è un’altra faccenda. La poesia non si misura con il doppio decimetro, e tuttavia quella critica ha ragione se vuol dire che nelle mie poesie c’è una forte tendenza centripeta. Ogni composizione si presenta come un nucleo, più o meno irradiante; di qui la difficoltà della sequenza e l’eccezionalità di composizioni come La poesia delle rose o Il nido che a me paiono a distanza e a memoria, incredibilmente lunghe mentre non lo sono affatto.
La composizione, quel che supera cioè il momento dell’immediatezza lirica è opera di architettura. Ho dovuto lottare tutta la vita perché la critica capisse - e finalmente c’é arrivata - che il rifiuto di pntare sulla “parola” era a favore della sintassi e della metrica e che quindi, nato e cresciuto in una poesia che aveva il culto della parola, accettavo una dimensione apprentemente prosastica puntando tutto sugli strumenti metrici e sintattici; sul periodo, cioè, sulle cadenze, sulle tensioni. Dietro la loro apparente disgregazione, nei libri da me pubblicati, si disponevano sequenze, blocchi, movimenti interni. La prosasticità gessosa con la quale ho per tanto tempo civettato può riscattarsi soltanto con una persino prepotente importanza conferita alle cadenze, alle cesure, ai ritmi.

Non meno interessanti e ricche di fertili suggestioni le due interviste a Mario Luzi, in cui ogni risposta, segnata da una grazia severa e penetrante, potrebbe dare l’avvio a una serie senza fine d’interrogazioni sul fare poesia oggi:

Ecco, la riconquista della naturalezza. E’ un pensiero, questo della naturalezza, su cui posso fare centro, un motivo caro da tempo, che mi preme. La naturalezza io la devo riconquistare continuamente, perché tutto va contro di essa: la convenzione, l’artificio, il patteggiamento conscio, inconscio, l’istituzione; tutto va contro, l’innaturale si ricostruisce di continuo ed io devo continuamente demolirlo, di libro in libro. Devo riconquistare la naturalezza. Se no va all’aria tutto. Quando ricomincio un libro - almeno fino ad ora così è successo - riorganizzo tutto daccapo, non c’è nulla del libro precedente che mi può servire, perché servirsene appunto, sarebbe già una perdita della naturalezza. E questo vale anche per la lingua di un’opera, sia in senso personale che generazionale. Ogni volta va riconquistato lo spirito contro la lettera, ogni volta va liberato lo spirito vivente del parlato, dell’esserci della parola, per potersi mettere in ascolto e poter accedere anch all’ascolto degli altri. Questo è il momento fondamentale, ed è soltanto a questo patto che l’operazione è linguistica nel senso totale, proprio del verbo. Non è più della tecnica espressiva che si tratta.

Uno spazio importante, in questo volume, è dato alla memoria: memoria, custodita e coltivata, di esperienze fondanti come quella di “Officina” a cui questa rivista, fin dagli esordi, ha sempre fatto riferimento; e memoria, infine, di autori che ripercorrono le tappe del loro percorso esistenziale, tratteggiando vive descrizioni di luoghi scomparsi, di poeti e narratori incontrati, impietosamente descrivendone, a volte, le debolezze, lucidamente ponendo in risalto la loro grandezza non sempre compresa.
Ricchissima e stimolante, in questo senso, la lunga “Conversazione in atto” di Gianni D’Elia con Roberto Roversi o quella con Piero Santi. Non bisogna tralasciare, tra le altre cose, il ricorrente interrogarsi sulla nuova poesia in dialetto, un punto di onore di questa rivista, che ritorna nelle risposte - diversissime ma tutte ugualmente illuminanti - sempre di Roversi, di Fortini, Luzi. Del resto, come scrive D’Elia:

Nel solco di un realismo critico e problematico, la rivista intende rileggere l’eredità del Novecento poetico, annettendovi la grande stagione della poesia in dialetto, con un atteggiamento paritario e inclusivo, non sostitutivo, della contemporanea rigogliosa stagione in lingua, in suggestione dantesca e materna.
Si devono al sottoscritto (...) le definizioni di “interdialettalità della lingua e letterarietà dei dialetti”, oltre al nuovo conio di “neovolgare”, per approssimazione alla nuova istanza creativa dei poeti neodialettali (Franco Loi, Raffello Baldini, Franco Scataglini, Amedeo Giacomini, Tolmino Baldassarri, fino ai giovani Giovanni Nadiani, Nevio Spadonie Nino De Vita, tutti ospitati con testi e studiati, insieme ad altri, sulla rivista.

Ma non bisogna dimenticare, poi, le lettere di Saba in risposta all’allora esordiente Sandro Penna o quelle, in cui in altra forma torna a configurarsi il rapporto tra “maestro e allievo”, se così si può ancora intendere un umanissimo confronto tra diversi saperi, che Pasolini scriveva, tra il ’56 e il ’57, al giovane Ferretti. E con Pasolini, con un ricordo che di Pasolini ci ha lasciato Elsa de’ Giorgi, si chiude, idealmente, questo volume. Un volume che, oltre agli autori citati, contiene altre, non meno alte testimonianze: segni lucenti di quella poetica della “compresenza” - lingua/dialetto, vita/opera, etica/estetica - che rimane uno dei più significativi contributi che questa rivista ha donato (arricchendolo di voci diverse e tematiche nuove) al panorama dell’attuale poesia italiana. Aggredendo, come alludeva una volta ancora Pasolini, e come ricorda Gianni D’Elia nella sua introduzione , “la nuova lingua...che dobbiamo tentare”.

Mentre ci alziamo per uscire il locale comincia ad affollarsi e, nel rumore che aumenta, si fondono confusi i saluti. L’aria di marzo già buia, fredda si dischiude oltre la porta. Gianni, accompagnato da amici, se ne va in direzione dell’albergo. La piazza di Pordenone per un momento, come in un sogno, resta irrealmente vuota, senza macchine, passanti.
Guardo gli alberi, tornando a piedi verso la stazione. Pensando a come bisognerebbe ripartire da qui, imparare dal silenzio di quella forza nascosta che costringe queste piante a mille contorsioni pur di sciogliersi dall’ombra in cui sono state piantate, quel bisogno di luce gridato da ogni ramo, ogni stelo tra i muri alti, i mattoni anneriti, scabri delle case.


Ivan Crico, 1996

Gianni D’Elia vive a Pesaro, dov’è nato nel 1953. Ha pubblicato le raccolte di poesia Non per chi va (Savelli, 1980), Febbraio ( Il lavoro editoriale, 1985), Segreta (Einaudi, 1989), Notte privata (Einaudi, 1993), Congedo dalla vecchia Olivetti (Einaudi, 1996). Ha fondato la rivista “Lengua”. Gli anni giovani (Transeuropa, 1995) riunisce una sua trilogia narrativa.



Note

Wittegestein, Pensieri diversi, Milano, Adelphi Edizioni, 1980, p. 20.

Pier Paolo Pasolini, Noterella sulla poesia friulana, in “Un paese di temporali e di primule”, a cura di Nico Naldini, Parma, Ugo Guanda Editore, 1993, p. 245.

La nuova poesia slovena



Nella foto: 1989, Ivan Crico e Ales Steger nella Chiesa di Santa maria in Monte a Fogliano (GO)

PIGNA, TROTTOLA...DADI...SPECCHIO
Un viaggio attorno alla nuova poesia slovena
di Ivan Crico


Perché il canto, emerso dal suo luogo natale, dopo il compimento, l’errare,
sia che di esso importi o no, debitamente ritorna...

Walt Whitman


Le case sono poche, lungo la strada; molte le facciate nude, quasi mai intonacate. I pagliai sui prati verdi, che risalgono i pendii fino a lambire i boschi, qualche mucca libera al pascolo. Entrando in Slovenia si entra, ancora, in un mondo che ripropone, come riesumati dal fondo dell’infanzia, i paesaggi dei nostri primi anni, quando campi immensi, canali, vigneti, isolavano i paesi nel silenzio della luce. Pause di lontananze in cui addentrarsi liberandosi via via in un mondo non più umano, ma fatto di germogli teneri che rigavano la terra umida, di odori d’uva sui tralci ormai matura, di un volo di tortore dal collare sopra ingrigite distese di stoppie allagate. Camminare o andare in bicicletta lungo le strade semideserte voleva dire, innanzitutto, lasciare che quel grumo irrisolto d’illusioni in cui crediamo di riconoscere il nostro io, si disgreghi sfaldato dal fitto andirivieni di luci sulle rogge, richiami di cince, sussurri di porcospini tra l’erba, riflessi aranciati sulle nuvole che ci sovrastano. Così, mentre quello che pensiamo di essere si scioglie come neve al sole, in quell’essere ogni cosa senza sapere mai esattamente cosa, riscopriamo la nostra più vera dimenticata immagine. Al di là ciò che, in noi, ci oscurava. “Cercare è trovare una strada affinché lo splendore possa fuoriuscire dal di dentro”, dice una poesia cinese.
Per questo, per entrare in questi luoghi, in questo mondo a lungo interdetto, sembra quasi necessario - più che altrove - lasciarsi alle spalle ogni nostra idea preformata: non sarebbe nient’altro che un impedimento, un velo attraverso cui guardare, riflesse, le ombre di quel mondo nuovo che si sta disegnando dall’altra parte.

In fondo, tra le montagne, Lubiana si dilata sulla pianura.
Nel cuore di questa bellissima città le cui facciate recano ancora i segni della passata dominazione austroungarica, oggi un ruolo molto attivo e stimolante è ricoperto dalla SOU, l’organizzazione degli studenti universitari, che da qualche anno, sostenuta anche economicamente dai Ministeri per la cultura e l’istruzione, pubblica i testi poetici di alcuni fra i migliori giovani poeti sloveni, come Taja Kramberger, Matjaz Pikalo, Ales Steger e Uros Zupan.
Poeti, come anche Ales Debeljak, Alois Ihan e Peter Semolic, accomunati da una medesima preoccupazione nei confronti dello stile e per un approccio originale - sconosciuto alla passata poesia di questo paese - ad un sorta di pseudoreligione vicina (come ricorda Michele Obit, poeta che per primo li ha fatti conoscere in Italia) ad una sorta di mistica medioevale.
Confini, fisici ed ideologici, vanno difatti dissolvendosi, e l’ago sensibile della poesia non poteva non registrare questi cambiamenti. E, se anche in molti luoghi si tenta ancora di erigere nuove barriere, divisioni, ogni tentativo, in questo senso, sembra inesorabilmente nel tempo, se non subito nel nostro tempo, destinato a fallire. Ogni cosa, cancellata la protezione rassicurante di uno spazio intimo, si ritrova esposta, raggiungibile ovunque - e non c’è riparo possibile. Possibilità di difesa. Tutto scorre attraverso tutto ed è in questa condizione di estrema incapacità a definirsi, mantenere un’identità precisa, in questa costante corrosione dei confini tra interno ed esterno, che l’individuo deve muovere i propri passi 1).
Eppure, anche se attorno tutto sembra muoversi - vista da fuori - la cultura del nostro paese appare ancora per molti versi ancora immobilmente chiusa in sé stessa, autoreferenziale. Una sorta di isola inaccessibile, difesa da argini invisibili ma, in larga parte, ancora invalicabili. E questo, oltre a limitare la libera circolazione di nuove idee provenienti dall’esterno ( la cultura di interi paesi è spesso da noi del tutto sconosciuta), rende poco comprensibili i nostri autori all’estero e quindi, di conseguenza, difficilmente traducibili.
Uscire da questa lunga impasse, da questa chiusura limitante, sembra la cosa più urgente per la nostra cultura e, insieme, per il nostro paese. La conoscenza di quanto accade vicino a noi, per cominciare, può essere determinante per studiare diversi approcci alle problematiche moderne, diversi modi di percepire l’esistente.

Prima di altri paesi l’Italia, attraverso il Friuli Venezia-Giulia, ha avuto per molto tempo, non sfruttandola appieno, la possibilità di accedere ad un mondo ignoto come quello dei paesi slavi; diventare, anche attraverso la conoscenza di queste culture, una porta verso l’Est, il mondo.
Dopo anni difficili ad esempio, in cui la libertà d’espressione veniva pagata a caro prezzo, la Slovenia dal ’91 ad oggi, dopo l’indipendenza, ha potuto assistere ad una stupefacente, rigogliosa fioritura di manifestazioni culturali, pubblicazioni, mostre, concerti che hanno, nella città di Lubiana, la loro chiara e fervida capitale. Introvabili, comunque, e inesorabilmente datate le quattro antologie di poeti sloveni contemporanei, a parte qualche sporadica traduzione di nuovi autori come Salamun su “Nuovi argomenti” e “Testo a fronte”, rispettivamente a cura di Edoardo Albinati e Giuliano Donati, le prefazioni e gli accenti critici di Arnaldo Bressan, Livio Guagnini, Jolka Milic, Giacomo Scotti, Giacinto Spagnoletti alle opere di Kravos, Pangerc, Zlobec e pochi altri ancora, si può dire che la Slovenia rimane ancora per noi, in larghissima parte, un continente tanto vicino quanto sconosciuto 2).
Ora finalmente, sempre a cura e con traduzioni di Obit presso l’editore ZTT EST di Trieste nel corso del 1998 è uscita una preziosa antologia, intitolata “Nuova poesia slovena”, che colma una grave lacuna nella comprensione di questo fenomeno di certo fra i più vitali ed interessanti nel panorama del mondo poetico contemporaneo. Un’antologia ricca di numerosi testi tradotti per la prima volta in italiano, ma in parte già noti da tempo all’estero, ed arricchita da una splendida e assolutamente indispensabile postfazione di Miran Kosuta in cui, con la solita profondità, questo studioso analizza le vicissitudini della moderna poesia slovena, dal dopoguerra ad oggi, e presenta l’opera di questi giovani autori (tutti nati dopo il 1960) perlopiù sconosciuti nel nostro paese.
Difatti, a parte il volume di Ales Debeljak Momenti d’angoscia (Napoli, Flavio Pagano editore, 1992), la prima organica presentazione di questi nuovi poeti in Italia risale appena al 1997, con un gruppo di testi inediti apparsi sulla rivista “CorRispondenze” a cura di Michele Obit 4). Altri testi sono stati pubblicati rispettivamente nei preziosi libriVoci dalla sala d’aspetto 5) nati a margine delle letture poetiche nell’incontro internazionale di poesia, musica, arte, danza a Topolò, sulle montagne al confine della Slovenia presso Cividale, e nel volume Di Fiamma e Ombra 6) che raccoglie i testi dei partecipanti ad una rassegna di musica e poesia che si tiene annualmente in un’antica chiesa rinascimentale a Fogliano, nei pressi di Gorizia. Piccole ma attentissime rassegne queste, come anche quella tenutasi a “Zona Centro” a Udine, che hanno avuto il merito di far conoscere per prime di persona, al pubblico italiano, questi autori.

Ma che cosa, già ad un primo ascolto, distingue la voce di questi autori dai tanti, anche grandi, giovani poeti europei contemporanei? Certamente ciò che più colpisce, in questi testi, è la naturalezza - a noi quasi ignota ormai - con cui questi autori si confrontano con i temi più ardui (e a volte abusati) della tradizione riuscendo, quasi miracolosamente, a creare testi poetici affatto banali. È come se, uscendo dal buio continuo di un lungo inverno, fosse concesso a questi autori di riappropriarsi, per un momento, di una giovinezza negata. E da qui, forse, la mancanza d'ogni timore nell’attingere a piene mani, armonizzandoli nell’onda di un comprensibile entusiasmo, echi simbolisti e beat generation, la tradizione ermetica e Pavese; da qui lo spirare, in ogni verso, di una ventata d’aria nuova che, pur non cancellando le ferite profonde del passato, sembra volgersi con fiducia - fiducia nella potenza trasformatrice della poesia - verso il domani.
Tutto questo, a differenza della generazione passata, sembra in qualche modo favorito dal continuo sfaldarsi d'ogni residua componente ideologica, per cui questi poeti risultano, rispetto ai loro predecessori, forse ancora più “moderni” (anche nella loro maggiore vulnerabilità) perché in fondo più aperti e privi di preclusioni di fronte ad ogni sollecitazione esterna. Molte esperienze del passato, forse troppo sbrigativamente messe da parte, da Stefane George al Surrealismo, rivelano così, rielaborate in questi nuovi testi, un’attualità insospettabile e potenzialità ancora tutte da scoprire.
Davanti dunque, all’improvviso, quello che si dischiude è uno spazio vuoto, sfrondato dalle ideologie del passato, nel quale il poeta deve, orficamente, “rinominare il mondo” e riscoprire - come è ricordato nella postfazione - con Schiller la “Lied” dormiente in ogni cosa.
Difficile indovinare, spenti i naturali e giustificati entusiasmi per una ritrovata libertà d’espressione, quali saranno gli sviluppi di questa poesia. Una naturale vocazione a confrontarsi con l’esterno, a intrecciare continui contatti (favoriti anche dalla approfondita conoscenza delle lingue straniere di tutti questi poeti) con molti autori di tutto il mondo, sembrano comunque sicure garanzie del mantenimento, nel tempo, di una produzione poetica qualitativamente elevata. Si vedrà, se sarà dato vedere.

* * *

Il primo degli autori antologizzati, Ales Debeljak, il più noto e affermato anche a livello internazionale tra gli autori della sua generazione, è nato nel 1961 a Lubiana. Poeta saggista e traduttore, laureatosi in letteratura comparata e filosofia a Lubiana, ha ottenuto il dottorato in sociologia della cultura alla Syracuse University di New York. Attualmente insegna sociologia della cultura e della religione alla facoltà di Scienze sociali a Lubiana. Scrive liriche e saggi attinenti alla letteratura, alla filosofia e alla sociologia. Fino ad oggi ha pubblicato le raccolte poetiche Imena smrti (1985), Slovar tisine (1987), Minute strahu (1990), Mesto in otrok (1997), oltre a sei saggi. E’ stato redattore dell’antologia Ameriska metafikcija (1998) e dell’antologia contemporanea in lingua inglese Prisoners of Freedom (1994).
Personalità multiforme e complessa, supportata da un vasto e approfondito lavoro in campo teorico, Ales Debeljak è un poeta nei cui versi si incrociano e fondono i più diversi, e alti, percorsi del pensiero contemporaneo. E’ un’atmosfera di perpetua sospensione, difatti, quella che si crea in questi poemi, in cui la parola non diviene più portatrice di un senso, di un messaggio da offrire al lettore, ma vaga inquietamente tra gli oggetti, i volti e i paesaggi che nomina lambendoli ma senza sperare di infrangere, con questo, il velo del loro mistero. La loro essenza rimane sempre al di là della nostra comprensione: nominarla vorrebbe dire allora, innanzitutto, svilirla, semplificarla costringendola entro la nostra capacità di definirla.

Nulla è raggiungibile. Nessuna voce si duplica.
Come se non fosse mai accaduto. Le cose perdurano, tranquillamente.
E al mattino tornerà a farsi giorno. Nelle vene scorre il sangue.
Tu sei niente. Per tutti gli altri, tranne che per una donna, sei

l’oscurità profonda in fondo al fiume. Un sasso sconsolatamente liscio
con un soffio d’azzurro. L’incavo sul pozzo. L’inizio
di nessuno, che nessuno riconosce. Come il diario di Scott
perduto nel turbine polare. Tu sei niente. Potresti essere la mia

tristezza, ampia come il cielo. Ed il pieno e il vuoto del film
avvolto per sempre nella bobina. La città ora non è davvero meno
vulnerabile di quanto fosse prima. Io solo, questo posso aggiungere, risuonerò
sulla frequenza del tuo silenzio e aspetterò una tua risposta.

Le cose rimangono, alla fine, come se fossero vuote. Un nulla inafferrabile. Una negazione perenne - dentro il continuo rinnovarsi e riaffermarsi della presenza - di cui la lingua poetica si fa tramite, racconto, con la sua capacità di “illudere, incantare, stregare” velando il vuoto e illuminandolo attraverso reminiscenze letterarie, ponendosi in colloquio con tutto quanto è stato già detto e scritto. Ritraducendolo, in altre forme, in una infinita circolarità di discorso. La parola del poeta non può, forse, far altro che cantare, come ancora ripete Debeljak, i mutamenti e le trasformazioni in cui il soggetto lirico è immerso, continuando a confrontarsi - al di là dell’orrore di fronte al vuoto che lo circonda - con i grandi eterni temi della poesia, della morte, della malinconia, del ricordo, del silenzio, della solitudine e seppur meno spesso- com’è ricordato nella postfazione di Kosuta- dell’amore e dell’amicizia.
“L’argento, la vulnerabilità, il lungo viaggio” oltre di noi.

Alojz Ihan, invece, è nato nel 1961. Laureato alla Facoltà di medicina di Lubiana, dove si è specializzato in immunologia, lavora come docente di microbiologia e immunologia. E’ stato redattore capo della rivista Aleph mentre attualmente è direttore responsabile della rivista Sodbonost. Ha pubblicato le raccolte in versi Srebrnik (1986), Igralci pokra (1989), Pesmi (1990), Ritem (1993), Juzno dekle (1995) e il romanzo Hisa.
Tra i nuovi autori sloveni l’opera di Ihan appare come la meno interessata ai labirinti e alle straniate tessiture verbali della poesia contemporanea, recuperando, invece, una forte componente narrativa, una limpidezza di dettato tutta tesa a chiarire le tesi di volta in volta esposte da questo poeta nella forma, oggi quasi dimenticata, della parabola. Ihan, difatti, affronta i temi della vita moderna direttamente, sezionandoli con la lama tagliente di uno spirito aperto e sempre sottilmente ironico, sviluppando senza trascurare alcun particolare importante il suo discorso per rovesciarlo completamente, di solito, con l’introduzione di un verso finale teso a sconvolgere la situazione. Un colpo di scena, abilmente preparato, che introduce nel testo la possibilità inattesa di altre letture, altri modi di guardare il reale, proiettando così ciò che sembrava appartenere soltanto alla più concreta quotidianità nei territori del mito, dell’allegoria fantastica.
Evitando le secche della sperimentazione linguistica, oltre i problemi di stile, questo poeta si distacca dalle generazioni precedenti ponendo nuovamente il problema della necessità di una poesia capace di raggiungere il lettore attraverso la forza dell’idea, dell’intuizione, di un moderno e per nulla semplicistico uso della parabola. Una poesia alla portata di tutti ma, non per questo, popolare; una poesia capace, invece, di non rinchiudersi in un universo autoreferenziale, per soli adepti, ma rimanere uno spazio aperto al discorso, luogo dell’umano in cui ognuno possa ancora dibattere e confrontarsi.
Alludendo così ad una poesia di Salamun, non è dunque senza una vena sottile di polemica che Ihan, impiegando in una sua poesia l’immagine dei giocatori di poker, si rivolge ai modernisti (prima abili e brillanti e poi in seguito, con il passare del tempo, sempre più goffi, deboli, piccoli):

Li riconosci facilmente, questi grandi giocatori
di poker, sopratutto quelli, i migliori, che senza posa
vincono d’assi e di re, e se per puro caso hanno
in mano solo carte senza valore, lo si viene a sapere
alla fine, quando con fare indifferente, quasi fosse il più
naturale dei passatempi, si prendono tutta la posta in palio;
la cosa più strana, però, è che non utilizzano alcuna
analisi e strategia, e con passione infantile
credono nel favore della sorte, finché...
...finché un bel giorno, giocando, non si colgono loro stessi
di sorpresa a ripartire le carte con affinata
attenzione, e quando poi diventano
più attenti, fanno i conti con la propria inconscia
scaltrezza, e poco dopo ne scoprono una seconda, una terza,
una quarta; li entusiasma la loro efficace semplicità,
però è strano perché poi iniziano poco a poco a perdere,
prima solo una partita o due, poi sempre più;
non riescono ad attuare nessuna delle astuzie scoperte
né ripetere alcun trucco, e dopo un po’ li trovi
che stanno appoggiati tra i bicchieri vuoti, con gli occhi
persi cercano qualche spiegazione, bestemmiano, accusano,
in ogni caso nessuno capisce ciò che vogliono dire,
a nessuno nemmeno importa di quei goffi, deboli,
piccoli giocatori di poker.

Nata a Lubiana nel 1970, dove vive, Taja Kramberger ha studiato storia e archeologia presso la Filozofska fakulteta lubianese. Dopo la laurea ha continuato gli studi di antropologia presso la facoltà degli studi umanistici. Suoi versi sono comparsi finora sulle riviste Dialogi, Literatura e Nova revija. Nel 1997 ha pubblicato il suo primo libro di poesie intitolato Marcipan.
Le lunghe poesie della Kramberger si sdipanano in prevalenza lungo i sentieri dell’infanzia, l’infanzia dell’autrice a Salara, “sul natio litorale bilingue”, in ambienti domestici e paesaggi descritti con la minuzia fantastica e quasi miniaturistica di certe illustrazioni favolistiche ma - ed in questo sta la novità dell’autrice - con insieme un’estrema modernità nell’impiego della lingua. Una lingua, a cui si mescolano frasi intere in italiano, capace di essere realistica ed evocativa, fantastica, al tempo stesso; una lingua in cui, come in alcuni mirabili cartoni animati disneyani degli inizi, gli oggetti assumono all’improvviso una vita propria, dialogano fra loro, rendendo in questo modo significativo, pieno di potere magico anche ciò che, ad occhi adulti, può sembrare assolutamente insignificante: il quaderno con le piccole api o l’orsacchiotto in cantina, negli occhi un luccichìo diverso.

...Nessuno fa caso alle limpide e delicate posizioni
della Terra. Solo le figurine degli animali coperti
di blu scuro, odoranti di cioccolata, parlano di sé.
Si girano di schiena col palmo della mano e si perdono
in tasche altrui. Via serpenti, andatevene dalle vigne,
mi facciano questo piacere, per favore,
perché ho paura di voi e poi perdo la chiave
e con papà devo strisciare in casa attraverso la finestra della via Vanganel 57 d.
Se incontri la serpe devi essere gentile,
non provocare, solo stare immobile come una foresta pietrificata
per non scatenare ciò che non puoi dominare.
Si può irrigidire l’infanzia, se non fai attenzione,
o addirittura estinguersi per punizione, se non
sei gentile con lei.

Il tentativo di assumere un punto di vista anteriore ai condizionamenti che segnano, in ogni individuo, la fine dell’infanzia - di dare voce a quel mondo il cui nome deriva proprio dal non possederla ancora, la parola - si traduce dunque in questi estesi, ricchissimi componimenti in cui ritorna l’ansia di uno sguardo diverso, vergine sul mondo. Un’ansia di purezza originaria, di libertà in fondo, che ha attraversato tutta l’arte contemporanea, per riappropriarsi di quello sguardo iniziale, proprio dei bambini, in cui lo stupore prevale ancora sulle gabbie delle classificazioni, delle interpretazioni, quando ciò che ci sta dinnanzi può essere ogni cosa, senza un nome o un ruolo preciso, parte viva di un gioco creativo in cui ogni mossa, anche la più impensata, rimane possibile.
Proteggere questi ampi e delicati spazi di movimento, di pensiero diventa uno degli obbiettivi principali di questa poesia, sottrendo alle devastazioni da parte del mondo esterno, il mondo dei grandi, il proprio, ancora intatto mondo interiore se, come ripete l’autrice, ciò che

senza successo per tanti anni hanno voluto
estirpare in me è all’improvviso diventato il massimo
di quanto possa dare.

Matjaz Pikalo, nato nel 1963 in Carinzia, oggi vive a Lubiana. Poeta e vagabondo, come ama definirsi, a trecento anni dalla nascita di Voltaire ha fondato il gruppo musicale e teatrale Autodafé. Ha pubblicato V avtobusu (1990), Dobre vode (1991), Pes in plesalka (1994) e Bile (1997).
Scrive Miran Kosuta: “C’era una volta un’antica parola slovena: igrc. Significa pressapoco istrione, cantastorie, trovatore, giocoliere del verso. Matjaz Pikalo è questo. Un igrc. Un giocoliere del verso. E’ quasi impossibile gustare appieno la sua poesia senza vederla cantata, raccontata, interpretata da questo autore-attore”. Interprete tagliente di una realtà in continuo rivolgimento, in cui la normale successione temporale degli eventi sembra definitivamente perduta, la poesia di Pikalo deflagra - apparentemente caotica e spezzata - nello spazio insonne di un presente unico, totale, in cui i sogni e le lacerazioni del passato, come i presentimenti riguardanti il futuro, si confondono in un canto straniato, di periferie di grandi città abbandonate nella notte, di destini che si intrecciano senza riconoscersi, come ne “La raccolta”, nei silenzi di solitudini inscalfibili:

Mi sono perso nel mondo, nella notte, ho acquistato
ancora tre, quattro suoi libri, anche s e ne ho già
alcuni, ma dovete sapere, ne ha scritti

molti. Ora davvero faccio quello che
una volta, nell’esercito, mi faceva sorridere sprezzante,
il mio mestiere. Ho il mio cantuccio e il telefono. Il vicino

rumoreggia. A volte telefono, leggo e bevo
allo stesso tempo. Con i compagni di ginnasio non ci troviamo
ogni anno. Da tempo con più ostinazione

raccoglievo mirtilli e per primo mi vestivo. le coppie
sulla via mi guardano strano, quando parlo
da solo. Sto preparando una raccolta. Dopo, gli dei
potranno riposarsi del tutto.

Sono parole nate, prima che per essere lette, per venir recitate, cantate come si diceva, unite più che da un senso logico dal ritmo interno, musicale, che le domina. Il ritmo della vita che s’insinua ovunque, per Pikalo, “grandiosa e positiva”, come un’onda di gesti quotidiani, tracce oscure sulla sabbia, precipitati di frasi in lingue diverse. Situazioni diversissime, opposte a volte, che devono convivere nello spazio breve di un verso come devono convivere, del resto, all’interno di ogni vita esposta, ora e sempre, ad un flusso infermabile di accadimenti troppo numerosi e veloci per poterli analizzare e classificare con ordine, perchè chi

può verificare tutte le lentiggini sul suo
viso, chi può sapere i nomi di tutte
le erbe e chi gli ha preparato le camicette,
quando tacciono i grilli e dove dimorano

gli uccelli?...

Peter Semolic, invece, è nato a Lubiana, dove risiede, nel 1967. Ha pubblicato finora tre raccolte di poesie: Tamar.isa (1991), Bizantinske roze (1994) e Hisa iz besed nel 1996.
Traduttore e critico, nella sua poesia apparentemente immediata e semplice si possono scorgere invece, ad una lettura più attenta, “infinite allusioni, complicità, reminiscenze” - come ricorda Kosuta - “a partire da Yeats a Mandelstam, da Salamun alla filosofia zen”. “La musicalità, il pudore, la forza delle sue immagini” di cui ha recentemente parlato Franco Loi 7), contraddistinguono l’opera di Semolic:

Come posso cantarti,
cervo che sei guizzato
nella sera d’inverno accanto
al mio volto, lasciando
dietro la traccia rossa
della tua passione che scorre?
Come posso cantarti al di là del tuo nome?
Al di là della mia sofferenza
come posso cantare la tua,
cervo? Nei miei pensieri
ti mescoli con l’immagine
che mi ero fatto
di te. Nei miei pensieri
ti mescoli con tutte le poesie
che ho letto sui cervi,
con le xilografie dell’Altai
ed i bassorilievi degli Indiani
Maya. Attraverso i versi
tento di toccarti
mentre giaci nella pace di un cespuglio
brullo e ti perdi
nel crepuscolo della sera
e nel delirio che precede la morte.
E comunque: sei proprio tu
quello ferito una sera d’inverno
dalla pallottola di un cacciatore
prepotente, o è solo il ricordo
di un’immagine già dimenticata
che è riemerso all’improvviso
dall’infanzia?
Cervo, la mia poesia ti lascia
al confine estremo della sera,
al confine estremo della vita,
quando l’ultimo respiro
è già iniziato, ma non avrà
mai fine. Cervo, in questa poesia
non si farà mai notte.

La purezza del dettato è, quindi, il risultato di una lunga decantazione, di un assiduo lavoro alla ricerca di una “parola magica”, capace di oltrepassare il senso quotidiano e approdare, così, all’essenza stessa delle cose. Per far questo Semolic non esita ad inventarla, questa parola, come nel caso della poesia “Flounder”, in cui questo termine di fantasia, dal suono suadente e misterioso, diventa “ il rifugio per tutto ciò che è umano”, il luogo in cui il respiro dell’essere infinitamente, in mille diverse forme, si riversa. Si potrebbe, allora, affiancare alle liriche di Semolic quanto affermava Mircea Eliade, il grande studioso rumeno, ricordando che “la poesia è uno sforzo per ricreare il linguaggio, in altri termini per abolire il linguaggio corrente, di tutti i giorni, per inventare un nuovo linguaggio, personale e privato, in ultima analisi segreto” 8).
La lirica di Semolic diventa dunque un “distillato d’anima”, in cui la ricerca della Parola fra moltitudini informi di parole ha bisogno di continue metafore per definirsi, metafore che si dilatano fino ad occupare l’intero spazio di una poesia, in un’implacata ossessione di luce, d’essenza.

Nato a Ptuj nel 1973, Ales Steger è studente di letteratura comparata e lingua tedesca presso l’Università di Lubiana. Fa parte della redazione della collana studentesca Beletrina. Ha pubblicato finora due raccolte poetiche Sahovnice ur (1995) e Kasmir (1997). E’, inoltre, organizzatore dell’incontro annulae tra giovani poeti di tutta Europa Dnevi pozije in vina (Le giornate della poesia e del vino) che si tiene a Medana.
La poesia di Steger scava lo spazio bianco del foglio con l’incisività e la lucentezza di parole che sono assolutamente sue ma che non nascondono, e non vogliono nascondere, le loro più diverse provenienze. Parole che ci restituiscono la sospesa stupefazione dei componimenti di autori come Wallace Stevens o Auden; il magico, surreale nitore di Paz; le ardue meditazioni metafisiche di Milosz; come, a volte, la lacerata dolente atmosfera delle poesie amorose di Celan. Ne risulta quindi una poesia colta, evocativa; una poesia estremamente contemporanea, senza per questo uscire dai metri classici, capace d’insinuarsi dentro di noi continuando a lungo a scavare, invisibilmente, i suoi rarefatti tracciati.
Nel solco della miglior tradizione poetica contemporanea anglo-americana di questo secolo (con Stevens, già citato, fra i suoi autori prediletti troviamo Ted Hughes e Les Murray), Steger riesce a partire, allora, da dati minimi, oggetti immersi in una luce mentale ma sempre venata da una forte carica sensuale, un erotismo intriso di sacralità, per approdare ad una parola che svelle in linea anche con la poesia surrealista, dall’interno come in “Estate”, ogni codificazione concettuale.

La roccia rovente, che spezza l’acqua, il cielo
Che lascia cadere da sé uccelli di carta, affinché svaniscano
Nel tuo corpo: il corpo del tempo e dello spazio. Il corpo
Con il viso da bambino, che nel sonno conta il mare.

Il corpo con gli occhi di nero carbone, che guardano fissi
Dalla brace. Il corpo con tracce di preghiera. Con i seni,
I sacrifici al domani. Con la mano che sul palmo
Brucia il mio palmo. Quante parole pronunciate.

Che non capisci, perché non puoi capirle.
Quante parole con cui puoi solo fare l’amore
Sul letto del silenzio; sulla lingua dell’angelo; sulla punta
Della spada del sole. Guarda: la luce all’istante ci taglierà

La pelle tesa, per unire i nostri corpi in un foglio
Bianco sul quale porrà con il sangue il suo nome d’autunno.

Attraverso un ricercato, cosciente e consapevole abbandono del proprio io (in favore di un “altro io in lui, quello creativo e ispirato”, come ricorda Kosuta), la parola dell’autore insegue dunque la lingua lontana, impenetrabile delle cose - filtrata dal silenzio dello sguardo - attraverso uno straniato processo descrittivo che la conduce a sprofondare di continuo in una dimensione altra, sacralizzata senza, per questo, mai oltrepassare la realtà. Il mistero senza fondo, intatto e inscalfibile che si trova dentro e non dietro, o al di fuori, dei confini delle cose, nel “corpo del tempo e dello spazio”.

Uros Zupan, nato nel 1963 a Trbovlje, si è laureato in letteratura comparata all’Università di Lubiana. Scrive liriche e saggi letterari; è traduttore, inoltre, dall’inglese e dal serbocroato. Le sue raccolte poetiche sono Sutre (1991), Reka (Fiume, 1993) e Odpiranje delte (L’apertura del delta, 1995). Di prossima pubblicazione la raccolta Nasledstvo (La successione). Una raccolta di sue poesie è stata tradotta in lingua inglese.
Figura a suo modo distante dalle altre voci slovene (come ha recentemente ricordato Michele Obit, nel primo numero della rivista Koan, presentando alcuni suoi bellissimi testi inediti 9), Zupan, anche se continua a dichiarare di “non appartenere a nessuna generazione” e a definirsi “un outsider”, non si può negare che “ne sia in qualche modo il punto di riferimento” e “una delle voci più ascoltate e seguite degli ultimi decenni”.
Attualmente vive a Lubiana, dov’è attivo all’interno della collana studentesca di libri “Beletrina”. Zupan, dalle prime raccolte ancora fortemente influenzate dall’attuale poesia americana è giunto, con i suoi ultimi lavori, ad una poesia in cui il quotidiano, le cose della vita di ogni giorno si trasformano in simboli di una ricerca sempre più venata dai segni, segni d’acqua e luce, di un approccio tutto personale, come in “Preghiera”, al mondo metafisico.


Nella cavità, nella cavità i muri
sono umidi di fiato.
Ma non era il tuo,
non hai respirato,
il cielo lo ha fatto per te
ed i fiumi il mare e le stelle
lo hanno fatto per te.

Fuori, dai rami crescevano fiori,
il vento calmava il mare sotto
il cielo di Palestina
e il nostro sospetto si è
propagato come i fiori,
il nostro desiderio di toccare la ferita
con gli occhi asciutti
si è propagato come i fiori.

L’acqua scorreva nel sogno.
Nell’acqua eri immerso
quando per la seconda volta hai avuto nome.
Sognavi, sapevi
di sognare?
Nell’aria ti immergerai
quando per la terzaa volta avrai nome.

Il Padre ha liberato le nuvole.
Ha riempito le ore
con l’attesa.
Tutti l’aspettavamo. Anche tu.
Tutti, fatti con la Parola,
aspettavamo.

L’acqua ti ha escluso.
L’acqua come l’aria.
Di una bianca nuvola ti sei vestito.
La gente ha creduto in questo mattino,
ha creduto
quando l’agnello ti ha dormito nel cuore.

Te ne sei andato. Noi siamo rimasti.
Nel cielo e nell’abisso osserviamo
come la traccia del tuo sacrificio scompare,
il cielo e l’abisso di nascosto ascoltiamo,
dove con uno scoppio fragoroso
si rifrange la luce.

Un approccio che non ricerca soccorso, che rimane sempre attesa, e non ancora raggiungimento, della perfezione. Le immagini sono a volte quelle allora, alte e immaginifiche, della Bibbia, dei testi cabalistici, ma riempite soltanto, secondo le stesse parole dell’autore, con la propria personalità, senza rimandare ad altro, se al poeta è consentito ( come dice in una sua poesia) di “camminare senza nozionismi né maestri lungo i sentieri, varcando le cadenze delle preghiere, immergendosi nel centro dei misteri”.
Per questo forse, alla fine, i suoi testi si presentano come una continua oscillazione tra due mondi, quello della visione e quello della veglia quotidiana, permettendogli, nel contempo, di vivificare con la luce del simbolo ciò che è anonimo, scontato, e dare corpo e verità al volo - altrimenti senza peso - della mente che questi simboli decifra.

* * *

Pigna, trottola, dadi...specchio.
Nella vita tormentata di questi paesi sembra di rivivere antichi drammi, incisi sulle auree lamette orfiche, narranti la lotta, nella natura umana, tra l’elemento violento, distruttivo, titanico, e la vitalità inafferrabile, sempre rinascente di quello dionisiaco.
Con giochi da fanciullo Dioniso difatti venne ingannato e, successivamente, straziato dai Titani. Grazie a Rea, che ne ricompose le membra, il Dio conobbe la sua terza nascita, dopo la prima dalla madre e, la seconda, da una coscia. L’iniziazione passa attraverso lo smembramento di sé ma, anche, dalle seduzioni con cui la vita ci svia. Le promesse, le voci che ci attraggono (mostrandosi inizialmente benevole come si sono mostrati, ai popoli, i vari regimi totalitari di questo secolo) per condurci in seguito in un cerchio cupo, infernale. Il corpo smembrato, una volta ricomposto, mantiene la memoria di ciò che era ma, ormai definitivamente diverso, guarda alle cose da un altro versante, quello di chi ha tradotto il mistero della sua vita con le parole della morte.
Nel mondo quello che si specchia è, da quest’istante, lo sguardo di un altro.


Note

1) Per evitare i rischi di un’eccessiva generalizzazione di questi temi, senza dimenticare le difficoltà e le ancora drammatiche attuali divisioni, vedi l’intervista illuminante di Danilo de Marco a Predag Matvejevic Tra asilo ed esilio, Circolo culturale Menocchio, Montereale Valcellina (PN) , 1997, p. 40.

2) La mancanza di una nuova antologia in italiano che raccolga l’opera dei poeti del dopoguerra - da Salamun a Janus, da Kravos a Grafenauer e tanti altri - rappresenta un grave ostacolo alla comprensione dell’interessantissima poesia slovena e dei suoi attuali sviluppi; sarebbe auspicabile, in questo senso, che questo vuoto potesse essere colmato al più presto.

3) “La nuova poesia slovena”, a cura di Michele Obit, in “CorRispondenze”

4) Questa, come tutte le seguenti citazioni nel testo di Kosuta, sono tratte dal saggio “L’eterna ricerca del Santo Graal nella nuova poesia slovena” in Nuova poesia slovena, a cura di Michele Obit, ZTT EST editore, Trieste, 1998, pp.170-191.

5) “Voci dalla sala d’aspetto”, a cura di Michele Obit, edito a cura della “Associazione Artisti della Benecia, Cormons, 1996, p. . e “Voci dalla sala d’aspetto”, a cura di Michele Obit, edito a cura della “Associazione Artisti della Benecia, Cormons, 1997, p. 31.

6) Di fiamma e ombra, numero monografico di CorRispondenze n. 8, a cura di Ivan Crico con la collaborazione di Charls Ward, settembre-ottobre 1997, edizioni Kappa vu, Udine, p. 52.

7) F. Loi, “Ma a Topolò c’è tutta un’altra aria”, in “Il Sole-24 Ore”, 27-9-1998.

8) Mircea Eliade, Miti,, sogni e misteri, Milano, Rusconi, 1986.

9) “L’alchimia tra solitudine e amore”, poesie inedite di Uros Zupan a cura di Michele Obit in “Koan”, n. 0, anno I, settembre 1998, Vittorio Editore, Udine, pp. 30-40.