martedì 7 ottobre 2008

Sulla nostra scoperta di un inedito di Biagio Marin

IL GIARDINO DI MARIN




Ogni rosa intrisa di interno profumo,
narra, quella rosa i segreti del Tutto...

Gialal ad-Din Rumi


Sulla facciata giallina, sbiadita di una vecchia casa di via D’Annunzio si può ancora scoprire, sul marmo di una lapide per gran parte dell’anno ignorata, che tra quelle mura, diretto a Fiume, riposò una notte il Vate.
Giunto la sera dell’11 settembre 1919 a Ronchi dei Legionari, proveniente da Venezia con la sua automobile scoperta, fece bussare alla porta della canonica chiedendo, febbricitante, una camera per riposare qualche ora. Il parroco Bandeu, viste le divise militari, lo congedò bruscamente dicendogli di rivolgersi altrove. L’auto, dopo un po’, giunse fino alla casa dei Colautti che gli offrirono ospitalità. La moglie di Giovanni, Virginia, in un primo momento lo scambiò per il Re: “Piciulàt al iera e pien de nastri e de madàie, e po noi tornadi de Vagna chi veva mai sintù parlar de D’anunzio”. Gli portò del té e, qualcun altro, un grappolo d’uva da cui il poeta trasse ispirazione per una sua poesia.
Una delle poche volte, l’unica forse, in cui può capitare d’imbattersi camminando in questo dimenticato frammento di storia è in occasione di quella che era, e in parte resta, una delle feste più belle che si tengono in questa zona. Dall’altro lato della strada, a poche decine di metri, su di una vasta area sorgono le vecchie scuole, grandi edifici ora non più in uso. Qui, ogni anno da molti decenni ormai, si svolge “L’Agosto ronchese”, una delle più note manifestazioni della Bisiacarìa e cioè di quel “breve triangolo tra L’Isonzo e il Timavo, con il vertice di Sagrado” - come diceva Marin” - la cui popolazione non é “friulana, non triestina, non semplicemente veneta, ma di una personalità storica difficile a definire”.
Per molti di noi “L’agosto ronchese” - anche se della festa paesana aveva tutti gli aspetti - non si esauriva in una semplice occasione di svago. Ci si andava di sera, quando la morsa dell’arsura andava attenuandosi e in alto, nel suo cupo splendore, sulla volta del cielo il nero delle notti estive si dilatava profondo, senza fine. Il fresco, spirato di volta in volta dalle alture carsiche o dal mare, i canti e le luci, le bancherelle di dolciumi e le griglie che spandevano tutt’attorno odori invitanti, tutto contribuiva ad attrarre, dai paesi vicini, centinaia di famiglie. E questo accadeva, puntualmente, per molte sere nel mese di agosto. Quello che distingueva però questa festa dalle altre che si tenevano un po’ ovunque in giro durante l’estate è che oltre al cibo, ai divertimenti, qui si potevano anche ammirare in apposite sale mostre di quadri, libri nuovi e usati, esposizioni di prodotti di ogni tipo, artigiani all’opera, stand allestiti da associazioni locali.
Per le nostre genti, in gran parte operai del Cantiere navale di Monfalcone o di origine contadina, tutto questo era sentito fortemente anche se spesso in modo quasi inconscio come un momento di emancipazione culturale, di riscatto, come un primo passo - oltre il benessere economico faticosamente raggiunto - per acquistare una sconosciuta dignità sociale. A differenza di Trieste o Gorizia difatti, dove esisteva una numerosa borghesia rappresentata da commercianti e statali, la nostra zona fin quasi ai giorni odierni rimase divisa tra pochi, ricchissimi possidenti da un lato e, dall’altro, la grande massa di lavoranti privi, o quasi, di ricchezze come d’istruzione.
Si percepiva quindi, nel desiderio di fare queste cose, uno spirito che poi in seguito non ho più avvertito. Certo, rispetto alle fiere attuali, efficienti, con stand raffinati, illuminati da lampade alogene, queste erano ben povere cose, ma l’interesse sincero che provocavano nei visitatori non è nemmeno paragonabile, mi sembra, con quello odierno.
Sono, il nostro e quello di allora, due mondi ormai distanti. Lo stupore, il senso del magico si sono esauriti, assieme alla povertà, da molto tempo. Ogni anno di più. Anche lo spirito di partecipazione alla festa, di conseguenza, è andato via via perdendosi e sarebbe necessario chiedersi, come si chiedeva Tonino Guerra in una sua intervista, “come mai sia la povertà a donarci poesia, mentre il denaro finisca per soffocarla”. Non ci si pensa mai abbastanza.

Erano, allora, i primi anni settanta. Un bambinetto, un garzonét ancora, chiuso ma curioso, aspettavo con ansia le novità che avrei trovato l’anno successivo. Ricordo, delle mie prime visite, sopratutto i tanti trofei appesi sui muri con le teste imbalsamate delle trote, alcune enormi, che si pescavano nell’Isonzo. Tornavo a sentire senza stancarmi mai la storia di quel luccio enorme - quasi diventato leggenda, una feroce creatura mitica - che i pescatori si affaticarono per anni a catturare, riuscendo sempre a sfuggire, e che qualcuno giurava di aver visto tirare sott’acqua, per sbranarlo, un germano reale, un mazurìn come lo chiamiamo noi nel nostro dialetto bisiàc.
In quelle sale, più grande, ebbi l’occasione di vedere i quadri dei migliori pittori della nostra zona, da Poian a Depetris, conoscere giovani artisti come Puddu e Franco Milani, che proponeva le sue installazioni - cose allora del tutto nuove per queste zone - facendo interagire i volti, i corpi dipinti nei suoi quadri con quelli proiettati dalle diapositive sui muri bianchi, i veli tesi tra i manichini.
Qui, inoltre, mi colpirono molto anche delle mostre molto particolari: di quadri o, forse, fotografie? Non riuscivo mai a capire bene cosa fossero. Mi scervellavo, ogni volta, senza raggiungere una soluzione. C’erano delle immagini sfumate, molto morbide su tela, dai toni caldi, incorniciate come se fossero dei dipinti. Ma sembravano troppo perfette per essere fatte a mano. Rappresentavano la natura delle nostre zone, gli incendi rossi sul Carso delle foglie di sommacco, i papaveri nei campi di grano, la laguna, l’Isonzo, e qualche personaggio famoso, anche se l’unica che riuscivo a riconoscere, in quel tempo, era l’attrice Ave Ninchi.
La grande umanità di questo autore si rispecchiava in tutte le cose che raffigurava per cui, anche quello che in un altro sarebbe risultato come oleografico, sentimentale, sotto le sue mani si trasformava in autentica poesia, riflesso di uno sguardo pieno di compassione per tutte le creature e per la bellezza che lo circondava. Una bellezza che egli sentiva di dover cantare, celebrare in tutte le sue forme, senza posa né distinzione, dalle più umili a quelle più grandi.
Soltanto qualche anno dopo compresi che quelle erano, come le chiamava l’autore, delle “fotopitture” e cioè delle fotografie impresse su tela grazie ad un’emulsione che poi, con grande perizia, venivano ritoccate, raschiate, ritrattate fino a dar loro la morbidezza di un’immagine dipinta. L’autore era Benito Libassi, nato a Noceto, in provincia di Parma nel1934, e scomparso nel 1984 a Ronchi dei Legionari dove si era trasferito (dopo aver trascorso la giovinezza in Eritrea ad Asmara) svolgendo professionalmente l’attività di fotografo.
Instancabile sperimentatore, si era appropriato di questa tecnica nuova che gli permise di fissare su tela con sempre maggior esattezza i toni e le atmosfere di una visione del mondo poetica, calda e partecipe, mai puramente descrittiva. Da quel momento, oltre a scattare ed elaborare migliaia d’immagini che sono un vero e proprio archivio (ancora in gran parte inedito) della memoria storica e paesaggistica di queste zone, ritrasse anche molti importanti personaggi della cultura, dello sport, dello spettacolo.
Libassi morì ancora giovane, quando stava iniziando a raccogliere i primi meritati frutti di un lavoro a lungo incompreso. Come un moderno alchimista trascorreva un’infinità di ore nel suo studio, immerso tra i vapori di acidi, sviluppi e solventi, a provare e riprovare, quasi ossessivamente, sempre nuove tecniche. Quelle esalazioni venefiche furono probabilmente anche la causa, oltre di alcuni effetti prodigiosi, rimasti inimitati, della sua fine precoce.

Dopo la sua scomparsa si tennero, nel tempo, alcune mostre in sua memoria. Mostre occasionali, senza un vero catalogo o uno studio critico, e che dunque non servirono a sottrarre il lavoro di questo appassionato fotografo alla caduta verticale in un rapido, quasi definitivo oblìo.
In queste occasioni inoltre, purtroppo, alcuni suoi lavori sparirono. Da allora gran parte della sua opera è custodita gelosamente dalla moglie, una persona gentile e disponibile, ma che rimase molto dispiaciuta per quanto era accaduto, lei che per tanti anni aveva aiutato il marito nel negozio che con tanti sacrifici avevano aperto insieme. In un lindo appartamento di Ronchi, sulle pareti, un po’ ovunque, sono appesi scorci di paesaggi, fiori, animali e, sopratutto, alcuni bellissimi ritratti tra cui, di rara intensità, uno della figlia Anna. Di questa ragazza, che era stata sua compagna di classe, mi aveva parlato Erica, che ricordava di aver visto anche un suo ritratto da piccola assieme a Biagio Marin.
Libassi, come ci raccontava la moglie, negli ultimi giorni di luglio del 1977 si era recato assieme al poeta Silvio Domini a Grado, per ritrarre l’allora ottantaseienne autore dei “Fiuri de tapo” e di tante altre memorabili raccolte e, in quell’occasione, gli aveva fatto molte fotografie. Disse che sarebbe andata subito a prenderle. Non sapevamo, ancora, che la loro visione sarebbe coincisa con due fortunose scoperte. Scese in cantina e, un po’ trafelata per aver salito in fretta le scale ansiosa di mostrarcela, entrò in soggiorno con una grande foto che ritrae il poeta seduto nel suo giardino e tiene, sulle ginocchia, la piccola Anna.
Due vite così lontane abbracciate insieme, tra i verdi cupi delle foglie, da una luce calma. Un’esistenza che appena cominciava ad affacciarsi sul mondo, piena soltanto dello stupore sognante dell’infanzia, ed un’altra avviata verso la fine, inverosimilmente ricca di esperienze umane e culturali.
Nato difatti il 29 giugno 1891 nell’isola di Grado, dove anche si è spento la vigilia del Natale1985, Biagio Marin (dapprima come cittadino dell’Impero asburgico) aveva frequentato le scuole a Gorizia e a Pisino, in Istria, dove aveva avuto modo anche di avvicinarsi alla cultura tedesca e, sopratutto, alla grande poesia di quel paese. Assieme agli altri giuliani Stuparich, Michelstaedter e al poeta in dialetto triestino Giotti, tutti legati alla “Voce”, nel 1911 venne a trovarsi a Firenze, trasferendosi di seguito l’anno successivo a Vienna per frequentare la facoltà di filosofia e iniziando a sviluppare, nel contempo, una più profonda coscienza politica che lo porterà ad avvicinarsi a posizioni irridentistiche. A Vienna non riuscì a laurearsi ( lo farà soltanto nel dopoguerra, a Roma, con Gentile ); qui, comunque, ebbe modo d’incontrare e rapportarsi con alcuni fra i più illuminati spiriti del suo tempo, rimanendo profondamente colpito sopratutto dalle teorie del pedagogista F. W. Foster.
Il risultato principale di questa visione allargata, piuttosto insolita per un intellettuale italiano di quei tempi, si esplicò in una continua ed insopprimibile tensione - mantenuta per tutta la vita - ad appropriarsi di sempre nuovi e diversi modi d’intendere il rapporto tra l’uomo e Dio, Natura e Storia, partendo da Eckart a Lao Tse. In questo senso, in anticipo su molti suoi contemporanei e pur impiegando nei suoi versi un linguaggio compreso da pochissimi, il dialetto gradese, si può ben dire che Marin, da subito, fu un intellettuale di respiro europeo e non soltanto europeo, svincolato dai problemi, spesso sterili ed autoreferenziali, di un panorama culturale sempre piuttosto chiuso verso l’esterno com’é stato, spesso se non sempre, quello del nostro paese. Marin in questo modo raccolse nei suoi versi i segni, sempre filtrati dalla sua forte personalità e quindi non sempre facilmente riconoscibili, di suggestioni e incontri a volte lontanissimi; segni che la vastità e l’apparente ripetitività della sua opera nasconde ma di cui, in realtà, determinano la lenta, quasi impercepibile evoluzione verso un dettato sempre più nudo, musicale, verso lo spazio vuoto e saturo insieme di una dimensione ridotta alla pura essenza. La monotonia e l’immobilità che sembra caratterizzare a prima vista l’opera mariniana cede, ad un’analisi più approfondita, allo stupore di fronte ad un accanito e lunghissimo lavoro che procede, michelangiolescamente, per “via di levare”, in cui l’elemento fisico pur apparendo si rivela, alla fine, svuotato da ogni residuo di descrittivismo.
La religiosità di Marin sfugge così ad ogni tipo di classificazione convenzionale, intessendo un dialogo fitto tra realtà fisica e sensuale e il mistero da cui questa realtà è dominata, sospesa tra rinascita e sparizione, confini di luce e ombra tra cui il poeta, attraverso un costante annullamento di sé, si fa puro tramite, restituendo alle cose un volto oltre la morte, la durata eterna, nitida di una voce fissata per sempre sulla pagina.

L’immagine che li ritrae insieme è di grande serenità, anche se la bambina ha uno sguardo tra l’assorto e l’imbronciato, forse intimidita dalla situazione, mentre Marin appare stranamente di buon umore. Non amava molto essere fotografato ma, nell’armeggiare affannoso di fari, treppiedi, ombrelloni argentati, nel suo entusiasmo privo di secondi fini, se non quello di cogliere l’anima del soggetto che aveva di fronte, il poeta riconobbe subito in Libassi una personalità non comune, diversa, che glielo rese fraterno.
Con loro quel giorno, come ricordava Silvio Domini in un ricordo di Libassi, c’era anche Edda Serra, che per tanti anni visse accanto a Marin curandone le raccolte in cui si cercava di diffondere, almeno in minima parte, le migliaia di poesie che egli andava componendo giorno e notte come rapito, fino all’ultimo, da una sacra frenesia che lo costringeva a diventare interprete di un canto senza fine.
Quella sera stessa, nel suo studio, colpito da quanto aveva vissuto durante la giornata, Marin sentì il bisogno di scrivere una poesia, dedicata “Alla piccola Anna Libassi”, che è stata riportata solo parzialmente nell’articolo di Domini e mai pubblicata fino ad ora in volume:

L’ultimo sol zà fora de stagion
sul poeta inveciào,
e quelo novo, l’ha indorao
el viso d’Ana, calmo, in vagasion.

Dolse tignila in colo
morbida, el vardo perso in lontania
col sol in compagnia
e, in sielo, in alto, el rie d’un nuolo.

Per la creatura me no vevo viso,
e non un nome e non età,
anche se feva in giro istà
e sul zardìn caleva el paradiso.

Forsi quel sol da i grandi pini,
dal melogran sfiurìo
el baseva comosso i so dentini,
basi el puseva sul so cuor sburìo.


26.VII.1977, Grado.


L’ultimo sole già fuori stagione
sul poeta invecchiato,
e quello nuovo, ha indorato
il viso d’Anna, calmo, trasognato.

Dolce tenerla in braccio
morbida, in lontananza
col sole in compagnia
e, in cielo, in alto, il ridere di una nuvola.

Per la creatura io non avevo viso
e non un nome e non età
anche se c’era estate in giro
e sul giardino calava il paradiso.

Forse quel sole dai grandi pini
dal melograno sfiorito
baciava commosso i suoi dentini,
baci appoggiava sul suo cuore mosso.

La poesia, scritta a mano con una grafìa un po’ tremante (Marin negli ultimi anni era diventato quasi cieco), si trova ancora sotto vetro, sull’angolo destro della fotografia. Su un altro foglio, ribattuta a macchina, il poeta aveva aggiunto anche una traduzione letterale.
Dopo un po’ la signora Libassi ridiscese in cantina. Rientrò soridendo in soggiorno con un altro grande e bel ritratto di Marin, questa volta fotografato in studio, vestito elegantemente su sfondo scuro. Anche qui, in basso, ma questa volta incorporata nella fotografia, un’altra lirica di suo pugno che, ricorda la moglie, il poeta volle dedicare a Libassi. Si tratta di un altro inedito, lo scoprii più tardi, quando durante una conferenza di Edda Serra allestimmo una piccola mostra dedicata al rapporto tra questi due artisti. Rispetto a quella precedente (per quanto molto bella non più di una poesia d’occasione, seppure di un grande autore) questi versi invece vanno ascritti alla fase più alta e pura, indefinibile della sua poesia.

Le note biave vive
del tremolâ de tante stele;
amaro sal e dolse mièle
cundisse l’ultimo gno vîve.

Grado, 29. VII. ’77

Versi, questi ultimi, puri e leggeri come memorie del vento, dell’innafferrabilità - continuamente riaffermata ad ogni nuovo istante - a cui diamo volto. Memorie che si dissolvono, svaporate come respiri sui vetri, veli di silenziosa trasparenza a dividere dalla vita lontana dei paesaggi, l’argento del mare tra i dossi; di volti perduti come acque che si inabissano, per riemergere inattese, dopo una lunga corsa attraverso la notte della pietra, le fenditure oscure del tempo.
Da un luogo nella luce d’acqua del Mediterraneo e insieme in quella, dorata e lontana, del mondo orientale. Sfiorato dai venti che portano, dal nord, parole e pensieri cresciuti come fiori tra le nevi, l’inverno.
Un luogo che si fa spazio aperto, attraverso questa poesia, la progressiva spogliazione di sé da ogni legame, all’accoglienza: accoglienza e attesa, come il nudo biancore del foglio, le righe ancora vuote della partitura, di segni che sono guadi, attraverso il silenzio, per le voci del mondo.



Note.

L’episodio è tratto da “La campanella di San Polo e la Marcia dannunziana di Ronchi” di Silvio Domini, in “Lisonz”, Monfalcone, Anno 3°, n. 3, 1989, p. 5 (“Piccoletto era e pieno di decorazioni e medaglie, e del resto noi appena ritornati da Wagna - il campo di concentramento in Austria in cui furono deportati molti bisiachi - non avevamo mai sentito parlare di D’Annunzio).

Biagio Marin, prefazione a ’Na veta curta, di Silvio Domini, Monfalcone, Circolo “Il Punto”, 1974, p. 5.

Silvio Domini, “Il giorno in cui la foto di Libassi si sposò con la poesia di Biaseto”, in “Il Piccolo”, Domenica 18 agosto 1985 )

Biagio Marin, “Alla piccola Anna Libassi”, poesia inedita (L’ultimo sole già fuori stagione / sul poeta invecchiato, / e quello nuovo, ha indorato / il viso d’Anna, calmo, trasognato. // Dolce tenerla in braccio / morbida, in lontananza / col sole in compagnia / e, in cielo, in alto, il ridere di una nuvola. Per la creatura io non avevo viso / e non un nome e non età / anche se c’era estate in giro / e sul giardino calava il paradiso. // Forse quel sole dai grandi pini / dal melograno sfiorito / baciava commosso i suoi dentini, / baci appoggiava sul suo cuore mosso).

Biagio Marin, poesia inedita scritta per Benito Libassi (Le notti azzurre vive / del tremolìo di tante stelle; / amaro sole e dolce miele / condiscono l’ultimo mio vivere).

Nessun commento: