domenica 22 novembre 2009

Presentazione del libro "Mani in Pasta" a Gorizia




I sogni, spesso, scompaiono con il risveglio. A volte invece trovano, nello spazio del risveglio interiore, nel lampo della visione, un terreno adatto a farli diventare fiori colorati ma dalla breve vita oppure alberi dai lunghi rami che si spingono dentro i cieli di anni, secoli, millenni. I sogni di Basaglia, come certe piante che crescono tra le fenditure della pietra di dirupi abissali, sono arrivati molti anni fa in una terra difficile, dal suolo indurito dal sangue di migliaia di giovani e dal gelo di confini irreali, com'è quella di Gorizia. E tenacemente, da allora, sferzati dalla pioggia e dai venti dei pregiudizi, dei luoghi comuni, hanno iniziato a crescere e fiorire. Alcuni di quei semi luminosi non sono riusciti ad attecchire. Altri, ancor oggi, producono - a distanza di quarant'anni e più - germogli meravigliosi, impensati. La scoperta di queste nuove, incantevoli realtà è nata per me durante una serie di incontri che si sono tenuti nel Parco Basaglia, intitolati, "Percorsi di-versi", organizzati dai gruppi AMA e dal Collettivo Linea di Sconfine con la collaborazione dei poeti Giovanni Fierro e Francesco Tomada. Una serie di incontri all'aperto, nel segno della leggerezza e della condivisione, tra i raggi di sole filtrati dagli alberi, dove alcuni tra i migliori poeti del Triveneto da due anni donano un po' del loro tempo e le gemme preziose dei loro testi ad un pubblico sempre attento, dove si mescolano senza distinzione cultori della poesia e persone con più o meno forti problemi di disagio, in quella sorta di allergia della realtà - spesso più che giustificata - che è il malessere psichico. Alla fine di ogni incontro, poi, ognuno può leggere se lo desidera i suoi testi: sfoghi, pensieri, versi perlopiù non nati per essere pubblicati quanto per dare un volto alle proprie ombre. Ma anche - come mi è capitato di udire con ammirato timore dalla voce tesissima, cupa di un giovane spettatore - lacerti di visioni degne di un William Blake.
Quest'anno, dopo la proiezione di un video di Carmelo Fasolo che raccontava la storia di questi incontri, sono stato invitato a rimanere per quello che, in teoria, doveva essere - temevo - il solito buffet fatto di tartine con maionese, salatini e bottiglie di plastica riempite di liquido giallastro che, del profumato agrume, non conservano, ormai, null'altro che il nome. Lo offriva un gruppo di donne chiamato "Mani in pasta". Mi resi subito conto di trovarmi proiettato in un'esperienza unica, invece, una gloriosa successione di profumi delicatissimi investì i presenti, sulla volta del palato aromi noti e sconosciuti, passando senza problemi dal dolce al salato, si fondevano assieme senza mai stridere. I volti, le vesti di quelle donne, la discrezione antica con cui portavano brocche d'acqua di rose, limonate alchemiche, parlavano del mondo, dei suoi tanti volti più o meno lontani. Mai uguali, uniti dalla diversità che accomuna ogni cosa. E dalla sacralità del cibo, attraverso cui di giorno in giorno abbiamo la possibilità di vivere, stando attenti a ciò che mangiamo, in comunione con il mondo. La psicologa Corinna Michelin del Centro di Salute Mentale Alto Isontino Integrato, ricorda che si tratta di "donne con percorsi di vita molto diversi tra loro, alcune contattate perché attualmente afferenti al Centro, altre perché familiari o parenti di persone in carico ed altre ancora perché amiche contagiate dall'entusiasmo di quelle che avevano iniziato a partecipare al progetto". Il dottor Franco Perrazza, direttore del Centro, difatti scrive difatti che non è importante offrire solo cure mediche, partendo dal desiderio di Basaglia di ridare dignità e valore di persona a chi sperimenta questa sofferenza, ma anche "opportunità, occasioni, possibilità, atmosfere, luoghi di scambio, spazi per esprimersi, per essere assieme agli altri, per diventare protagonisti del proprio percorso di cura anche attraverso la partecipazione ad attività sociali e culturali". Da questa esperienza straordinaria, che continua, è nato un libro bellissimo edito dalla "Libreria Editrice Goriziana" intitolato appunto "Mani in pasta" che verrà presentato a Gorizia, presso la sede della Fondazione Carigo lunedì 23 alle ore 17.00.
Un libro costellato di importanti ed estesi contributi, come quelli di Carlo Petrini, Presidente Internazionale di Slow Food, o Massimo Cirri, psicologo e noto conduttore del programma radiofonico su Rai 2 "Caterpillar". Un libro di ricette di donne che vivono a Gorizia e nei dintorni. Ma che arrivano dai paesi vicini come dalla Sicilia, dall'Istria, dalla Repubblica Dominicana, dalla Macedonia o dall'Algeria. Ma, ancor più delle ricette, delle foto dei loro sorrisi, delle loro mani intente a preparare con cura i piatti tipici dei loro paesi, colpiscono le loro storie. Che sono storie drammatiche a volte ma, tutte, meravigliose e vere nella loro semplicità e profondità. In cui è impossibile non riconoscere le storie di noi, popolo di emigranti. Scrive Petrini nell'introduzione: "In un mondo che tende all'omologazione, dove la diversità è vissuta come una cosa pericolosa o infruttuosa, è nostro compito ricordare a tutti che la diversità è invece la più grande forza creativa esistente, come la natura insegna grazie ai miracoli che fa in virtù della biodiversità delle specie e delle razze. È con la massima apertura che si realizzano grandi cose, che si costruisce realmente qualcosa di nuovo".
Kheira, algerina, vive in Italia con la sua famiglia da quasi vent'anni. Ricorda, da vera poetessa, che quando cucina si sente, ogni volta, nascere di nuovo. I suoi versi sono fatti d'acqua di fiori d'arancio, di mandorle e cannella. Ricorda com'è necessario dare importanza a tutto. Capire, a fondo, la realtà in cui ti trovi a vivere. Per questo ha voluto imparare, oltre all'italiano, anche il friulano, la lingua della suocera, del marito. "Bisogna voler imparare!", dice. Kheira, assieme a tutte le donne di questo progetto, ci ricorda che solo aprendosi all'altro possiamo superare le barriere, portare in alto lo sguardo per guardare oltre. Leggendo queste pagine, dopo un po', noi non leggiamo più le storie di donne straniere ma quelle delle nostre nonne, mamme, sorelle (ma anche padri!) che trasmettono nei cibi che cuociono tutte le loro speranze, le loro memorie. Impastate, da mani piene d'amore e attenzione, con la pasta dei sogni.

Ivan Crico

Da "I fiumi invisibili": versione in lingua logudorese di Marlene Carboni della poesia "Lisonz" di Ivan Crico


Sardegna


RIPAS (S’ ISONZU)

In ripas jaras de nudda oru- oru m’ avvìo,
lògos de isoladu isplendore, inùe dae
sempre si ràttat su petrarzu velàdu
de silenziu. S’ aèra affogazzàda s’indùlchidi
cun delicàdu alènu de fiòres ‘e sisìa; addàe
in fundu, cunsunta dàe sa lughe, zente
istrànza repòsada a sa mùda, chèna isettare.
S’ammentu mèu s’ischìdat dae su sonnu
s’isgiàrit cun sos lampos - chi annùnziana
in su chelu temporale - s’allùmant subra
puntas de àrvures, contra ojos de mare.


GRETI (ISONZO)

Lungo greti chiari di niente mi avvio, / luoghi dal deserto splendore, dove il ciottolo / si consuma da sempre / abbagliato di silenzi. L'aria / infuocata si addolcisce con l'odore sottile / dei fiori di topinambùr; là in fondo, erosa / dalla luce, gente sconosciuta riposa / in silenzio, senza aspettare. Dal dimenticarmi / il mio ricordo si rianima con i chiarori / che in alto - preannunciando il temporale - / si accendono sulle cime degli alberi, contro l'azzurro puro.


S’ ISONZU

In ripas jaras de nudda
oru-oru m’ avvìo
lògos de isoladu isplendore,
inùe, dae sempre
si ràttat su petrarzu
velàdu de silenziu. S’ aèra
affogazzàda
s’indùlchidi cun delicàdu alènu
de fiòres ‘e sisìa; addàe in fundu- cunsunta
dàe sa lughe - zente istrànza repòsada
a sa mùda, chèna isettare.
S’ammentu mèu s’ischìdat
dae su sonnu
s’isgiàrit cun sos lampos,
chi annùnziana in su chelu temporale
s’allùmant subra puntas de àrvures,
contra su chelu limpìu.



Nota:

Della poesia "Lisonz" si propongono qui due versioni. Una, più filologicamente aderente al testo originale, e l'altra liberamente reinventata in forma poetica. Da noi i fiori di topinambùr o girasoli del Canada, tuberi che si usano per condire il cibo, non esistono. I fiori selvatici più simili sono quelli di “sisìa”, dal forte afròre. In Sardegna per indicare il colore azzurro puro si usa dire "occhi di mare" ("ojos de mare", pronuncia *osgios * de mare).

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martedì 3 novembre 2009

Da "I fiumi invisibili": versione di Mario Di Stefano nella parlata romanesca della poesia "Lisonz" di Ivan Crico


ER FIUME ISONZO


Zur bbianco letto comme de carcia, ch'arilusce
de gnente der fiume sò ito, lochi de splennore
deselto, indove abbeterno er sasso s'arrota
cecàto de zilenzi. L'aria de foco s'addorcisce
co l'odore fine de fiori ggialli servatichi; in fonno
in fonno, squajata de la solina, ggente forastiera
s'arriposa in pasce, senz'aspettà. La momoria
mia dar dimenticamme se ripja co li brillori
che i 'narto - preannunceno er giorno der giudizzio -
s'accenneno sulle foje dell'arberi, contro l'azuro celo.

ISONZO

Lungo greti chiari di niente mi avvio, / luoghi dal deserto splendore, dove il ciottolo / si consuma da sempre / abbagliato di silenzi. L'aria / infuocata si addolcisce con l'odore sottile / dei fiori di topinambùr; là in fondo, erosa / dalla luce, gente sconosciuta riposa / in silenzio, senza aspettare. Dal dimenticarmi / il mio ricordo si rianima con i chiarori / che in alto - preannunciando il temporale - / si accendono sulle cime degli alberi, contro l'azzurro puro.

Nota:

La presente libera versione in romanesco recupera, al suo interno, diversi termini oggi ormai disusati ma che troviamo, ancora, nei versi di Gioacchino Belli. Con una piccola forzatura (concordata con l'autore), i "greti chiari" diventano allora un "letto bianco comme de carcia" "letto bianco come calce": materia di un bianco abbagliante, come abbaglianti sono, in questo caso, i greti sassosi dell'Isonzo d'estate. Un'immagine molto viva, intensa, che rinvia a certe allucinate descrizioni di paesaggi belliani. Ho trovato poi i termini antichi "arilusce" ed il bellissimo "deselto". "M'incammino" è stato sostituito con "sò ito" che, seppur spostando l'azione nel passato, può riferirsi, anche, ad un passato molto recente, di qualche ora, o minuto addirittura; ma ci permette, però, di inserire una forma tipica e antica, molto riconoscibile, del romanesco. Al posto di "sempre" ho trovato, derivata dal latino chiesastico, la forma "abbeterno", che rispecchia - tra l'altro - con maggior fedeltà il termine bisiaco "saldo", che non vuol dire semplicemente "sempre" ma indica qualcosa di ininterotto,che sembra non finire mai. "Consuma" è stato sostituito invece con "arrota" ("affila"): del resto i sassi prima di diventare sabbia diventano sempre più piatti, affilati come lame sottili di pietra.
Sempre in Belli ho trovato poi il vecchio termine "solina" che vuol dire "sole forte, da cui non c'è riparo": perfetto per la situazione descritta (così "erosa" vien qui sostituito, con ancor maggior pregnanza, da "squajata"). Ho trovato inoltre il termine "momoria" che suona più vetusto e suggestivo del semplice "ricordo". "Rianima" credo che in romanesco suoni meglio tradotto con "ripja", termine popolare, squillante, di fresca immediatezza. Mi sono anche imbattuto in un altro termine molto suggestivo, nel sonetto 47 intitolato "Campidoglio", che è assolutamente perfetto in questo contesto: in bisiàc, con "burlaz" s'intende quel tipo di temporale che arriva di colpo, non previsto, e "er giorno der giudizzio" vuol dire proprio "temporale improvviso". Bellissimo e quasi apocalittico. Testimone di una lingua popolare e alta al tempo stesso, dove sacro e profano, creando una straniata armonia, s'intersecano da sempre. MDS



LISONZ (di Ivan Crico)

Par giaroni ciari de gnente me 'nvïo,
loghi de lisért spiandor, onde che 'l còdul
al se frua saldo 'nzeà de ziti. Al vént
de boi se 'ndulzisse cu'l udor fiéul
dei pirantoni; là in cau, smagnada
del ciaro, zente foresta la polsa
zidìna, senza spetar. Del desmentegarme
al me recordo de nóu al se ànema
cui lusori che in alt - virtindo del burlaz -
i se 'npïa ta le ponte, contra al biau nét.

in bisiàc, antica parlata veneta del monfalconese)

Da "I fiumi invisibili": versione di Mario Di Stefano nella parlata romanesca della poesia "Lisonz" di Ivan Crico

ER FIUME ISONZO


Zur bbianco letto comme de carcia, ch'arilusce
de gnente der fiume sò ito, lochi de splennore
deselto, indove abbeterno er sasso s'arrota
cecàto de zilenzi. L'aria de foco s'addorcisce
co l'odore fine de fiori ggialli servatichi; in fonno
in fonno, squajata de la solina, ggente forastiera
s'arriposa in pasce, senz'aspettà. La momoria
mia dar dimenticamme se ripja co li brillori
che i 'narto - preannunceno er giorno der giudizzio -
s'accenneno sulle foje dell'arberi, contro l'azuro celo.

ISONZO

Lungo greti chiari di niente mi avvio, / luoghi dal deserto splendore, dove il ciottolo / si consuma da sempre / abbagliato di silenzi. L'aria / infuocata si addolcisce con l'odore sottile / dei fiori di topinambùr; là in fondo, erosa / dalla luce, gente sconosciuta riposa / in silenzio, senza aspettare. Dal dimenticarmi / il mio ricordo si rianima con i chiarori / che in alto - preannunciando il temporale - / si accendono sulle cime degli alberi, contro l'azzurro puro.

Nota:

La presente libera versione in romanesco recupera, al suo interno, diversi termini oggi ormai disusati ma che troviamo, ancora, nei versi di Gioacchino Belli. Con una piccola forzatura (concordata con l'autore), i "greti chiari" diventano allora un "letto bianco comme de carcia" "letto bianco come calce": materia di un bianco abbagliante, come abbaglianti sono, in questo caso, i greti sassosi dell'Isonzo d'estate. Un'immagine molto viva, intensa, che rinvia a certe allucinate descrizioni di paesaggi belliani. Ho trovato poi i termini antichi "arilusce" ed il bellissimo "deselto". "M'incammino" è stato sostituito con "sò ito" che, seppur spostando l'azione nel passato, può riferirsi, anche, ad un passato molto recente, di qualche ora, o minuto addirittura; ma ci permette, però, di inserire una forma tipica e antica, molto riconoscibile, del romanesco. Al posto di "sempre" ho trovato, derivata dal latino chiesastico, la forma "abbeterno", che rispecchia - tra l'altro - con maggior fedeltà il termine bisiaco "saldo", che non vuol dire semplicemente "sempre" ma indica qualcosa di ininterotto,che sembra non finire mai. "Consuma" è stato sostituito invece con "arrota" ("affila"): del resto i sassi prima di diventare sabbia diventano sempre più piatti, affilati come lame sottili di pietra.
Sempre in Belli ho trovato poi il vecchio termine "solina" che vuol dire "sole forte, da cui non c'è riparo": perfetto per la situazione descritta (così "erosa" vien qui sostituito, con ancor maggior pregnanza, da "squajata"). Ho trovato inoltre il termine "momoria" che suona più vetusto e suggestivo del semplice "ricordo". "Rianima" credo che in romanesco suoni meglio tradotto con "ripja", termine popolare, squillante, di fresca immediatezza. Mi sono anche imbattuto in un altro termine molto suggestivo, nel sonetto 47 intitolato "Campidoglio", che è assolutamente perfetto in questo contesto: in bisiàc, con "burlaz" s'intende quel tipo di temporale che arriva di colpo, non previsto, e "er giorno der giudizzio" vuol dire proprio "temporale improvviso". Bellissimo e quasi apocalittico. Testimone di una lingua popolare e alta al tempo stesso, dove sacro e profano, creando una straniata armonia, s'intersecano da sempre. MDS



LISONZ (di Ivan Crico)

Par giaroni ciari de gnente me 'nvïo,
loghi de lisért spiandor, onde che 'l còdul
al se frua saldo 'nzeà de ziti. Al vént
de boi se 'ndulzisse cu'l udor fiéul
dei pirantoni; là in cau, smagnada
del ciaro, zente foresta la polsa
zidìna, senza spetar. Del desmentegarme
al me recordo de nóu al se ànema
cui lusori che in alt - virtindo del burlaz -
i se 'npïa ta le ponte, contra al biau nét.

in bisiàc, antica parlata veneta del monfalconese)

lunedì 2 novembre 2009

Versione di Donato Muscillo della poesia "Lisonz" di Ivan Crico nella parlata lucana della zona appula




Lèmët d'aimarë

M'abbijë sóp a nu lèmët bianc d'aimarë
dë nint, luc dë lucë dësirt, addó la prét
së chënzum 'ncëcagliùt da sëlènzijë. L'arië
'mbucat s'assërèn chë l'addòr dë fiurë giallë
salvatëchë; dà abbascë, strótt da la lucë, cétt
crëstian scanësciut së rëpósën, sènz spëttà.
Scurdannëm s'avvëvëlèscë u' rëcurd dë lucë
ca 'ncil - arruann u' mal timpë - s'appëccën
sóp la cimë dë l'albër, 'mbaccë all'azzórr.


Per ulteriori informazioni:
http://it.wikipedia.org/wiki/Dialetti_lucani



LISONZ (di Ivan Crico)

Par giaroni ciari de gnente me 'nvïo,
loghi de disért spiandor, onde che 'l còdul
al se frua saldo 'nzeà de ziti. Al vént
de boi se 'ndulzisse cu'l udor fiéul
dei pirantoni; là in cau, smagnada
del ciaro, zente foresta la polsa
zidìna, senza spetar. Del desmentegarme
al me recordo de nóu al se ànema
cui lusori che in alt - virtindo del burlaz -
i se 'npïa ta le ponte, contra al biau nét.

ISONZO

Lungo greti chiari di niente mi avvio, / luoghi dal deserto splendore, dove il ciottolo / si consuma da sempre / abbagliato di silenzi. L'aria / infuocata si addolcisce con l'odore sottile / dei fiori di topinambùr; là in fondo, erosa / dalla luce, gente sconosciuta riposa / in silenzio, senza aspettare. Dal dimenticarmi / il mio ricordo si rianima con i chiarori / che in alto - preannunciando il temporale - / si accendono sulle cime degli alberi, contro l'azzurro puro.

Gianni Serena, versione nell'idioma barese-palesino della poesia "Lisonz" di Ivan Crico



ISONZE

Sóp’a ssècche de fiùme chiàre
de nudde m’abbièsceche, vanne addò
u nnudde resplènne, addò u rascìdde
se strusce da sèmbe accecàte
mménz’o ccitte. L’àrie appecciàte
ndelgèssce cu-addòre settìle de le fiùre
giàlle salvàtece; ddà mbònde, strutte
da la lusce, cresctiàne frastìire arrecheièscene
citte citte, sénz’aspettà. Da scherdàmme
u recuèrde abbevèssce che le lambe
ca ngìile – avvesànne u male
tìimbe – s’appìccene sop’a la cime
de l’àrue, mbàcce o u-azzurre stèrse.



Nota: Si tenga presente che nel dialetto barese tutte le vocali “e” non accentate (o toniche) non si pronunziano, soprattutto quelle finali. La vocale “e” si usa nella scrittura, per far “consuonare” appunto la consonante che la precede, altrimenti spesso ci troveremmo di fronte ad un rincorrersi di consonanti.
Palese-Macchie, di cui questa versione testimonia l'originale parlata, si trova ad una decina di chilometri a Nord-Ovest di Bari, sulla costa adriatica. Questa zona possiede un patrimonio storico-culturale, artistico e naturale espressione di un'antica vita - quella rurale - finora non sufficientemente valorizzata. Esso è stato anche oggetto di studio da parte di alcuni ricercatori, come Gianni Serena, risultando alquanto ricco e variegato: testimonianze di insediamenti preistorici (Neolitico, Età del Bronzo, Età del Ferro), edicole confinarie del Cinquecento, chiese rurali e rupestri, un'antica via dell'olio che costeggiava trappeti ipogei, torri secentesche, masserie e palmenti settecenteschi, paliare a forma di trullo; una chiesa del XIX secolo in stile neoclassico (purtroppo abbattuta), ville e palazzi ottocenteschi e novecenteschi. Un patrimonio purtroppo spesso abbandonato al degrado e all'incuria (come le tante masserie), oppure gravemente danneggiato dall'intervento dell'uomo (si pensi alla demolizione di Torre di Brencola, al crollo della chiesa rupestre di S. Angelo di Camerata causato da una vicina cava, agli insediamenti preclassici andati per sempre perduti). L'unica zona ancora conservatasi rimane quella della Lama Balice, recentemente trasformata in Parco regionale. Un territorio in ogni caso splendido, che merita di essere visitato e conosciuto.



LISONZ (di Ivan Crico)

Par giaroni ciari de gnente me 'nvïo,
loghi de disért spiandor, onde che 'l còdul
al se frua saldo 'nzeà de ziti. Al vént
de boi se 'ndulzisse cu'l udor fiéul
dei pirantoni; là in cau, smagnada
del ciaro, zente foresta la polsa
zidìna, senza spetar. Del desmentegarme
al me recordo de nóu al se ànema
cui lusori che in alt - virtindo del burlaz -
i se 'npïa ta le ponte, contra al biau nét.

ISONZO

Lungo greti chiari di niente mi avvio, / luoghi dal deserto splendore, dove il ciottolo / si consuma da sempre / abbagliato di silenzi. L'aria / infuocata si addolcisce con l'odore sottile / dei fiori di topinambùr; là in fondo, erosa / dalla luce, gente sconosciuta riposa / in silenzio, senza aspettare. Dal dimenticarmi / il mio ricordo si rianima con i chiarori / che in alto - preannunciando il temporale - / si accendono sulle cime degli alberi, contro l'azzurro puro.

Traduziòn in lingua milanesa della poesia "Lisonz" di Ivan Crico a cura di Elena Paredi



ISÒNZO (GERI)

Adree geri ciar de nagòtt, me sanii,
loeugh di desert splendor, in doe
ch’el rizzoeu de semper se destruga
scigaa di silenzi. Al vent foeugaa
s’indolzìss cont l’odor fin de fior
de piranton; de là a la fodrìna, smangiaa
de’ l’ ciar, gent forestera la requia
in silenzi, senza speccià. El mè regòrd
de’l desmentegamm se anema de noeuv
cont i lusiss che in alt – preavvisand
el temperi - se pizzen sora i s’cim
di erbol, contra el bloeu s’cett.


Nota di Elena Paredi:

Io scrivo in Meneghino che è diverso - per tanti aspetti e sfumature - da quello parlato in periferia e che, a volte, risulta un po' più "rustico" (rustegh).
Per quel che riguarda il termine "topinambùr" ( che, ai tempi delle mie nonne, si usava spessissimo in cucina, con la trippa e la faraona), un termine antico esiste: a Milano, difatti, lo chiamavano "piranton" (si pronuncia "pirantùn").
Per restare in tema di traduzioni in Milanese antico, di recente ho pubblicato un libro "Andeghee". Lo si trova sul sito http://www.unibook.com/it/nuovi-titoli è una raccolta di vocaboli del Milanese antico oggi in disuso o completamente dimenticati.

Ulteriori informazioni: http://it.wikipedia.org/wiki/Dialetto_milanese

LISONZ (di Ivan Crico)

Par giaroni ciari de gnente me 'nvïo,
loghi de lisért spiandor, onde che 'l còdul
al se frua saldo 'nzeà de ziti. Al vént
de boi se 'ndulzisse cu'l udor fiéul
dei pirantoni; là in cau, smagnada
del ciaro, zente foresta la polsa
zidìna, senza spetar. Del desmentegarme
al me recordo de nóu al se ànema
cui lusori che in alt - virtindo del burlaz -
i se 'npïa ta le ponte, contra al biau nét.

ISONZO

Lungo greti chiari di niente mi avvio, / luoghi dal deserto splendore, dove il ciottolo / si consuma da sempre / abbagliato di silenzi. L'aria / infuocata si addolcisce con l'odore sottile / dei fiori di topinambùr; là in fondo, erosa / dalla luce, gente sconosciuta riposa / in silenzio, senza aspettare. Dal dimenticarmi / il mio ricordo si rianima con i chiarori / che in alto - preannunciando il temporale - / si accendono sulle cime degli alberi, contro l'azzurro puro.

(poesia scritta in bisiàc, antica parlata veneta del monfalconese: http://it.wikipedia.org/wiki/Dialetto_bisiaco)