martedì 30 giugno 2009

Alberto Cappi, in memoria


Vogliamo ricordare Alberto Cappi. Nato a Revere (MN) nel 1940 si è spento, dopo una lunga malattia, domenica 28 giugno 2009.

Per la poesia: Passo Passo (Firenze, 1965); Alfabeto (Milano, 1973); 7 (Torino, 1976); Mapa (Mantova, 1980); Per Versioni (Milano, 1984); Casa delle Forme (Udine, 1992); Piccoli dei (Faenza, 1994); Il Sereno Untore (Latina, 1997).

Per la saggistica: Il Testo e il Viaggio (Mantova, 1977); Materiali per un frammento (Udine, 1989); Linguistica e semiologia (Torino, 1994); Materiali per una voce (Grottammare, 1995); In atto di poesia (Napoli, 1997); Materiali per un'arca (Bologna, 1998); Il luogo del verso (Yale, 1998); Il passo di Euridice (Milano, 1999).

Per la traduzione: Juan Liscano, Nella notte venne e baciò le mie labbra (Milano, 1981); Alain Jouffroy, Cerfs Volants (Mantova, 1993); Juan Liscano Fondazioni (Bologna, 1995); Florbela Espanca, Dodici Sonetti (Milano, 1997); Ernesto Cardenal, Quetzalcoatl (Faenza, 1999).

Ha curato le antologie Tutti li miei pensier parlan d'amore (Milano, 1988); L'acqua di Manto (Udine, 1989); And lovely is the rose (Milano, 1990); A las cinco de la tarde (Milano, 1993); Teoria e poesia (Pescara, 1993); Mamanto (Mantova, 1994); Parole nella leggenda (Mantova, 1997).

E' stato redattore delle riviste "Anterem", "Quaderno", "Steve", "Testuale", "Tracce" e collabora ad altre tra cui "Poesia", "Testo a fronte", "La Clessidra", "Il Verri", "Hebenon", le americane "Gradiva" e "Differentia", la venezuelana "Zona Franca" e la spagnola "Serta".

Ha curato alcune collane di poesia e dirige "L'Albero Cavo" in Pescara, "La città dei poeti" e "Poesia del '900" in Mantova, "Nightigale" in Faenza.






Quattro Canti



1996 - 1999







primo canto della neve





quando venne la neve

la neve portò bianchi glicini

e dolci tortore di farina

quando venne la brina

anima candida luce di luna

quando candì il giorno intorno

e l’oro si fece solo sole

quando la notte si annodò

e nodo e nido furono uno

quando il violino suonò le note

della terra bruna e del mare

quando ritmando e poetando

siamo tornati ad amare





secondo canto del vento





dove venne il vento

il vento seminò sibilanti serpi

sui sentieri del sonno e del sogno

dove venne l’uomo e disse

sia detta aurora la prima

ora del tempo

benedetto sia il mattino

dove bambino colsi

alle cose il senso







terzo canto della luce





perché venne la luce

la luce fuggì dal guscio

di attonita pietra dura

in zuccheri di filate stelle

e luce fu e venne

all’uscio della preghiera

al muschio delle lanterne

ferme

nella materna sera





quarto canto del gelo





come venne il gelo

il gelo cantò i suoi occhi

in acini di oscure uve

come venne il gelo

il gelo calò il suo dente

in cocci

piccole nature

sulla pura

cecità delle lucciole

in fedeltà al volo

ai morsi di paura

sabato 27 giugno 2009

Ivan Crico in "50 poesie per Biagio Marin"


Lunedì 29 giugno 2009 alle 18.00 nella Sala Consiliare del Comune di Grado verrà presentato il libro "50 poesie per Biagio Marin" di Anna De Simone, Quaderno n.2 del Centro Studi Biagio Marin. Il libro raccoglie poesie e testi di una cinquantina di poeti e studiosi che vanno da Pier Paolo Pasolini e Franco Loi e accoglie diverse poesie di autori contemporanei della nostra regione come, tra gli altri, Gian Mario Villlata, Pier Luigi Cappello, Giacomo Vit, Luigi Bressan ed Ivan Crico.

martedì 9 giugno 2009

Fra Collio e Grado alla ricerca di paesaggi e poeti


Messaggero Veneto — 01 giugno 2009
pagina 18 sezione: CULTURA - SPETTACOLO

di PAOLO MEDEOSSI


Il remo colpisce l’acqua con una carezza energica e il canotto scivola via sull’onda mentre un delfino solca frenetico il mare in lontananza, accompagnato da un gabbiano pigro. Immagini incollate nella memoria, ricordo di un ambiente puro, incontaminato. Fine anni Sessanta, prima delle grandi trasformazioni, prima del continuo peggioramento. Eppure questo paesaggio resiste in qualche modo e rimane ancora lì, sospeso fra sogno e realtà, in certi tramonti sotto le sferzate della bora, favorendo i viaggi nella fantasia e nella poesia, come accade ora ad Hans Kitzmüller che a questo mondo dedica un libro bellissimo, per fare il punto, per svelare personaggi e luoghi. E per rimettersi in cammino. I romanzi d’avventura intellettuale sono fatti per tale motivo: accendono il desiderio e scrollano di dosso ogni torpore. In questo caso non si tratta di andare sette anni in Tibet per ritrovare una dimensione più spirituale di se stessi, ma basta andare sette ore nel Goriziano, un territorio piccolo, raccolto, segnato dalle vicende di una frontiera difficile e anche tragica, sempre però affascinante nei suoi risvolti meno noti. Lo si attraversa in un baleno. In autostrada, da Palmanova al Lisert, è una corsa di pochi minuti. Ecco fatto, una volta arrivati al casello sotto il ponte ferroviario ad archi, l’Isontino è già alle spalle. Guardandolo dal mare, al largo di Duino, lo si abbraccia in un istante, dalle bocche del Timavo a Grado. Eppure in questi luoghi minuscoli, dove ogni lembo è ravvicinato e a portata di mano, è possibile vivere sensazioni e incontri sorprendenti, come quelli narrati da Kitzmüller in un libro che promette già bene dal titolo, il fascinoso E in lontananza Gorizia , perché fa capire come il discorso alla fine ruoti attorno alla città, che se ne sta lì appartata, silenziosa, quasi raggomitolata all’ombra del suo castello e della sua storia. Il volume (210 pagine, 20 euro) è uscito non a caso per una collana della Libreria editrice goriziana, che continua così nella intelligente opera di ricerca e perlustrazione, capace di fornire autentiche chicche con ristampe, che evocano il clima d’un certo passato, oppure con opere nuove di zecca, come questa che raccoglie impressioni risalenti fino allo scorso inverno visto che la descrizione di certi posti, sotto l’incalzare della modernità consumistica, è molto attuale e aggiornata. L’autore chiarisce che non ha voluto proporre una guida turistica per la promozione dei luoghi, ma un diario con le emozioni che i territori trasmettono attraversandoli velocemente oppure osservandoli da fermo. Non si tratta di sensazioni private, soggettive, narrate con lirico trasporto, bensì di intuizioni che tutti possono condividere e far proprie, nella consapevolezza che in definitiva l’ambiente siamo pur sempre noi, con i mutamenti che subiamo e il nostro modo di pensare e vedere. Il racconto di un paesaggio può diventare così una grande storia, la sua lettura e interpretazione trasformarsi nell’avventurosa esplorazione di una porzione di spazio in una frazione di tempo. In tutto questo, l’approccio letterario è essenziale, non per sfoggio di saccenza, quanto invece per un dato naturale, evidente a tutti. Davanti allo scenario di Grado, a esempio, saltano fuori limpidi e necessari i versi di Biaseto Marin che – dice Kitzmüller – «sono la formulazione più efficace dell’esperienza fisica della luce, del cielo, di vele gonfie e afflosciate, delle onde del mare e dello sciacquio della laguna lungo le rive delle barene». Il racconto parte dalla pineta dove approdò San Marco, a due passi di Aquileia, e si sofferma a lungo in questa porzione di Friuli in cui il punto di riferimento diventa il campanile della basilica, «una matita di sassi che scrive nuvole con la sua punta di coppi», come poeticamente spiega il professor Emilio Rigatti ai suoi allievi mentre attraversano questi posti avendo ben presente la lezione leopardiana, secondo la quale l’uomo sensibile e immaginoso è destinato a vedere il mondo e gli oggetti doppi perché solo così potrà percepire il bello e il piacevole delle cose. A due passi c’è l’Isonzo, uno dei più bei fiumi d’Europa e la sua presenza evoca i versi di Celso Macor, scritti in sonziaco , misterioso aggettivo che indica una varietà del friulano, caratterizzato da una predilezione per la vocale “a”. Il viaggio nell’Isontino è infatti anche un’escursione in un patrimonio linguistico originalissimo che però si sta semplificando visto che, se gli sloveni sono perfettamente bilingui, i friulani lo sono ormai solo parzialmente. E ancora ci sono il bisiaco e il gradese, diffusi nelle loro aree. Dunque la provincia di Gorizia può essere definita multilingue, ma solo in minima parte plurilingue mentre dallo scenario è sparito il tedesco che un secolo fa era invece alla base della cultura del territorio. Peculiarità che veniva esemplificata in modo emblematico dall’identità culturale degli studenti dell’istituto goriziano più prestigioso, lo Staatgymnasium , tra i quali c’erano Alojz Gradnik, Otto von Leitgeb, Ervino Pocar, Biagio Marin, Carlo Michelstaedter. Una ricchezza sparita dopo la prima guerra mondiale, che lascia tracce solo in libri da riscoprire o in biografie straordinarie, come quella dell’attrice Nora Gregor. Il viaggio nel paesaggio del Goriziano non dimentica le devastanti trasformazioni causate dal fiorire di capannoni e centri commerciali, come accade a Villesse. «Siamo – dice Kitzmüller – di fronte a una distruzione definitiva a favore dell’effimero, una scelta che determina un uso del territorio dalle conseguenze irreversibili, che si accompagna a uno spreco incredibile di risorse. L’eccesso del gigantismo della grande distribuzione cancella la misura del necessario». Meglio tornare allora ai maitàni , i segnali di mare di cui parla Ivan Crico, poeta raffinato e colto che nella Bisiacaria è andato a recuperare parole preziose e dimenticate, dando loro vita e arte. I maitàni erano i pali di legno alla cui sommità venivano legate stoffe colorate, che servivano ai pescatori per raggiungere il largo senza insabbiarsi. Segnali insomma come annunci di presenze, di qualcosa che non vediamo, ma avvertiamo. Segnali come quelli lanciati da questo libro da leggere cammin facendo, fra il Carso e il litorale, fra il Collio e Grado, dove qualche anno fa c’era il bar Mimi. Una mezza trattoria in riva Dandolo da dove si osservava l’uscita delle barche e si ripensava ai paesaggi perduti o ritrovati. Al suo posto c’è ora un condominio.


Foto di Hans Kitzmuller realizzata da DANILO DI MARCO

lunedì 8 giugno 2009

Con «De edentità e suvignìr (Di identità e memoria)" Ivan Crico vince l'edizione 2009 del "Premio Macor"


il Piccolo — 07 giugno 2009
pagina 10 sezione: GORIZIA

ROMANS.
Davanti a un folto pubblico sì è tenuta all'auditorium «Mons.Galupin» di Romans, la premiazione del "IV Premio Letterario Celso Macor", che stavolta aveva come tema: «Identità e memoria delle genti del Friuli Venezia Giulia». Questi i premiati. Per la sezione narrativa riservata alle scuole medie vicnitori sono risultati gli studenti della 2.a A della «G. F. del Torre» di Romans, che hanno presentato l'opera «Imagina un mont plen di scovacis: ce gust varessie la vite? (Immagina un mondo pieno di rifiuti; che gusto avrebbe la vità?). Con loro sul palco c'erano il preside Paolo Buzzulini e l'insegnante Gabriella Tamburini. Da segnalare che quest'anno il premio di poesia riservato alle scuole medie e alle superiori non sono stati assegnati. Passando alla sezione prosa premio assoluto, sono stati segnalati: per la lingua italiana «L'arrotino e il miracolo dei fagioli» di Giacomo Miniutti di San Quirino, «Non sono» di Rita Mazzone di Padova e «L'asfalt» di Simone Devidi di Romans; per la lingua friulana «Frussons di zoventut» di Ivaldi Calligaris di Romans e «A cjapà aiar sul tor» di Stefano Gasti di Remazacco; per la lingua slovena «Zaponke sens (I fermagli delle ombre) di Vilma Puric di Trieste, mentre il vincitore del premio assoluto di prosa è stato Mario Schiavato di Fiume con «I giorni delle processioni». Per la sezione poesia premio assoluto sono stati segnalatie le poesie in lingua italiana «L'aria del miracolo» di Pamela Bravo di Romans e «Akilis» di Silvano Zamaro di Joannis-Aiello del Friuli; in lingua friulana «Stazion» di Stefano Gasti di Remanzacco e «Inta l'ombrena da urtis» di Silvano Zamaro, mentre il vincitore del premio assoluto di poesia è stato Enrico Colussi di Monfalcone con «La corte di cristallo» e «Lo sguardo». Per la sezione dialetto bisiaco sono stati segnalati: per la poesia «Sotonote» di Mauro Casasola di Fiumicello; per la prosa «La me' storia xe tante storie» di Marilisa Trevisan di Staranzano, mentre il vincitore è stato Ivan Crico di Ta pogliano con «De edentità e suvignìr (Di identità e memoria). Ricordiamo che la serata, organizzata in collaborazione con la Libreria Editrice "Leonardo" di Pasian di Prato, è stata allietata dal duo David Gregoroni (sax) e Andrea Valent (fisarmonica), mentre il professor Leopoldo Pagnutti ha letto alcuni brani delle opere vincenti.

Edo Calligaris

domenica 7 giugno 2009

"In lontananza Gorizia": Kitzmuller, il goriziano e la Bisiacaria



Da Il Piccolo — 07 maggio 2009
pagina 12 sezione: GORIZIA

«Il paesaggio non è solo uno sfondo, una quinta decorativa ma è un testo che parla anche di noi; se vi ci si addentra senza pregiudizi diventa un’avventura, un viaggio di scoperta sul passato e sul nostro presente»: così ieri sera Hans Kitzmueller alla presentazione del suo nuovo libro «E in lontananza Gorizia» (Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2009, pagg. 208, 20 euro). Gremita la saletta della libreria, attenzione religiosa sia per l’autore («Originale e di assoluta levatura» lo definisce Adriano Ossola, l’editore) che per lo sponsor prestigioso, Sergio Tavano, storico dell’arte e della gorizianità. L’apertura è del giornalista Maurizio Bait: «Bisogna pensare a una regione, qualsiasi regione della terra, come a una biblioteca costituita soltanto da scaffali per testi primari». Hans Kitzmueller, germanista, traduttore, editore, come narratore ha sempre pubblicato romanzi di viaggio, quali «Viaggio alle Incoronate», 1999, «Arcipelago del vento», 2003, «Alle isole Marchesi», 2005, ma questo «E in lontananza Gorizia» presenta uno scarto rispetto al passato: non più l’esotismo delle isole oceaniche ma uno sguardo all’uscio di casa, sul modesto orizzonte del Goriziano, o meglio su quel che resta oggi del Goriziano storico, una porzione estremamente ridotta che pur restituisce, nella sua varietà, dal bosco in laguna allo splendore del Collio ed al solenne scorrer dei fiumi un patrimonio di rilievo assai poco valorizzato. Nei dodici capitoli del libro il paesaggio, l’ambiente in cui viviamo, diventa un testo da cui traspare la storia della città. I capitoli del libro scorrono fra passato e presente. Il paesaggio viene descritto così com’è oggi ma ci si prova anche a riflettere su com’era ieri. Ogni tappa viene raffrontata a suggestioni letterarie, di autori lontani e vicini, da von Mailly sino ad arrivare a Ivan Crico ed alle sue poesie in bisiaco ed alle escursioni ciclistiche, epperciò calme, meditate, di Emilio Rigatti. La foto o la pittura possono riprodurre solo dettagli ripresi in un momento determinato. Mentre il paesaggio è in continua trasformazione. «Le foglie crescono», dice Kitzmueller, che con il ricorso alle suggestioni letterarie si impegna a restituire il paesaggio alla sua complessità storica. «Io ne racconto l’attraversamento», dice. Anche superando le metamorfosi subite dal paesaggio, oggi che il mercato invade ogni spazio e che tutto viene utilizzato a fini di consumo: ne sono esempio i campi di Villesse invasi dall’Ikea. E ancora: «Bisogna confrontarsi con la nostra identità, soprattutto con quella perduta». E con la Gorizianità eliminata. Che non è solo quella rimasta al di là dei confini; c’è anche quella, Cervignano, Aquileia, parte del litorale, spartita fra le province vicine in nome dell’eliminazione delle radici austriache e delle potenzialità slovene. «Noi eravamo l’Europa», dice Sergio Tavano citando Stephan Zweig, «e nella Gorizia di un tempo c’era la consapevolezza di comporre un’identità europea». Con il vecchio vizio goriziano, aggiunge il professore, di «guardare alle cose non come sono ma come dovrebbero essere».

Sandro Scandolara

Nella foto Hans Kitzmuller ritratto da DANILO DE MARCO

Tutto cominciò con Tullio Crali


Da il Piccolo — 03 maggio 2009 pagina 05 sezione: GORIZIA

Ma chi sono i talenti goriziani dell’arte cui fa riferimento l’assessore Devetag? Gorizia e il territorio limitrofo hanno sempre avuto un particolare predisposizione per quanto concerne l’attività artistica. Alla fine della seconda guerra mondiale a Gorizia si manifestò una evidente volontà di dialogo e confronto nell’ambito culturale e artistico. Gli Amici dell’arte, sotto la spinta dinamica di Tullio Crali, rianimarono l’ambiente degli artisti e promossero un premio di pittura e poesia che ebbe risonanza in tutta la regione. Questo fu il primo passo verso una rinascita grazie anche la riapertura di Palazzo Attems che ospitò importanti rassegne artistiche. Tra le prime, nel 1948, una rassegna d’arte riservata ai giovani, a cura dell’Associazione giovanile italiana, che riunì artisti della regione e della Carinzia in una mostra di pittura e scultura. La partecipazione fu notevole, soprattutto di artisti isontini come Orlando Poian, Demetrio Cej, Mario Tudor, Sergio Altieri, Cesare Mocchiutti, Armando Depretis, Ignazio Doliach, Gianna Marini, Antonio Verone, Mario Bardusco, Lorenzo Boemo, Aristide Marcozzi, Marino Vecchi, Fulvio Monai, diversi ancora attivissimi. Da allora, e fino ai giorni nostri, numerosissime sono state le iniziative che si sono susseguite, a cominciare dalle importanti e antesignane Biennali Giovanili a cura del Centro Culturale Stella Mattutina che dal 1963 fino al 1981 scoprì le nuove leve dell’arte e mise in evidenza le espressioni delle nuove generazioni: Mauro Mauri, Luciano de Gironcoli, Giorgio Valvassori, Giovanni Anglicani, Mario Palli, Giovanni Pacor, Mario di Jorio, Claudio Palcic, Gianni Borta, Sergio Colussa, Giogo Cisco, Paolo Marani, Giuseppe Onesti, Stelio Kovic, Sergio Pausig, Marino Cassetti, Arrigo Buttazzoni, Roberto Kusterle. Da non dimenticare poi la galleria Il Torchio, punto di riferimento per molti artisti goriziani, Franco Dugo espose le sue prime opere proprio nel 1972, le iniziative della galleria Spazzapan, del Kulturni dom, del Bratuz, del Museo Civico del Territorio di Cormons, della Biblioteca Statale isontina, per arrivare alla galleria Comuna di Monfalcone, solo per citare i più importanti e ricorrenti tutt’ora. La scena artistica goriziana può contare ancora su un foltissimo numero di pittori, scultori, fotografi, che continuano a ben rappresentare il territorio, tra questi Roberto Faganel, Andrea Kosic, Massimiliano Busan, Alfred de Locatelli, Patrizia Devidè, Michele Drascek, Paolo Figar, Claudio Mrakic, Ernesto Paulin, Luca Suelzu, Alessandra Bernardis, Vittorio Balcone, Stefano Comelli, Giancarlo Doliach, Ignazio Romeo, Franco Milani, Paul David Redfern, Maurizio Frullani, Sergio Scabar, Franco Spanò, Raffaele Lecce, Stefano Ornella, Stefano Padovan, Enzo Valentinuz, Luisa Baccaglino, Marco Bernot, Andrea Colussi, Ivan Crico, Lia Del Buono, Paola Gasparotto, Maurizio Gerini, Laura Grusovin, Francesco Imbimbo, Gianpietro Carlesso, Silvia Klajnscek, Raffaele Lecce, Marco Faganel, Evaristo Cian, Marcello e Manuel Grosso, David Marinotto, gli scomparsi Nico Di Stasio e Roberto Nanut, solo per ricordarne alcuni. Accanto a questa nutrita lista di artisti, con alle spalle molti anni di lavoro, studio, esposizioni, ce n’è una ancora più lunga, impossibile da citare completamente, che raccoglie un numero impressionante di pittori, scultori, ceramisti, fotografi che si dedicano all’arte perché se ne sono appassionati magari dopo un corso o una mostra, o in seconda battuta, dopo una vita dedicata ad altro. Su questo fronte, punti di riferimento sono le associazioni come il Centro Culturale Crali, attivo ormai da diversi anni, che organizza numerose iniziative in cui promuovere i lavori artistici dei soci.

Cristina Feresin

lunedì 1 giugno 2009

Mario Benedetti. Il cielo per sempre


(Questo testo del '96, rimasto inedito, è stato pubblicato per la prima volta su "Mario Benedetti - official site")


Di sfuggita come tante altre volte - l’occhio a cercare freneticamente intorno un posto dove parcheggiare - tornai a intravedere la targa sulla casa di Michelstaedter mentre l’ombra della Chiesa di Sant’Ignazio, delle sue due verdi guglie laterali, si stendeva su Piazza Vittoria. Ero in ritardo. Sopra le case, in alto, il Castello di Gorizia avvolto nel crepuscolo afoso, torbido di luglio. Presso alcune mercerie ( negozi che qui, durante i giorni feriali, sono presi d’assalto da gruppi d’acquirenti frettolosi che arrivano d’oltre confine ) trovai un posteggio.
Poche decine di metri mi dividevano dalla libreria di Giovanni come ugualmente vicina, svoltato l’angolo, si trovava la casa dov’era nato e vissuto Graziadio Isaia Ascoli. Insigne studioso, in una città di frontiera dell’altro secolo in cui gran parte della popolazione parlava ancora il friulano, come il tedesco o lo sloveno, da questo estremo, silenzioso angolo del nostro paese riuscì a rivoluzionare gli studi di linguistica: nell’Italia, un’Italia appena unificata difatti, al Manzoni che vedeva nel fiorentino colto la lingua da seguire, L’Ascoli ribatteva che anche il fiorentino in fondo non era che un dialetto e che la sua considerazione avrebbe portato a non tener conto della storia linguistica italiana precedente. Contro l’astrazione di un italiano parlato da una cerchia ristretta di persone Ascoli difese, in questo modo, la realtà dialettale. E, attraverso questo, una visione estremamente moderna della lingua intesa come una realtà mobile, aperta, impura: ma che in questo aprirsi ad altre influenze denuncia la sua vitalità, la sua capacità di incarnare la varietà e le continue trasformazioni del reale.
Combattivo nel difendere le sue idee, studioso instancabile, fondatore dell’Archivio Glottologico Italiano e Senatore del regno, era inoltre, tra i moltissimi altri, in stretto contatto con poeti come il Carducci e Pascoli.
Non sembrava così strano, allora, ritrovarsi in quella piccola libreria, inconsapevolmente a novant’anni esatti dalla sua morte, a parlare della nuova poesia evocando le “Odi barbare”, molta dimenticata poesia di fine secolo, quasi per cercare, ripartendo da lontano, da una posizione eccentrica, strade poco battute per proiettarsi, con maggior forza, in avanti.
Incalzato da Gian Mario Villalta, Mario Benedetti, durante l’incontro, sembrava sottrarsi alle domande lanciando quasi casualmente, come fossero delle boutade, altri interrogativi, quasi che più della risposta importi quanto una domanda sia capace di creare nuove, ancora impensate domande. Aggiungere altri possibili punti di osservazione rispetto al problema.
Nel giorno già al termine fuori, uscendo nel buio, senza aver trovato una risposta ai propri interrogativi, ci si ritrovava in qualche modo cambiati; c’era stato come un balzo in avanti nel nostro pensiero, lungo il cammino si erano aggiunti nuovi sentieri, ponti per proseguire oltre. Gorizia, i suoi lunghi marciapiedi di pietra, lucidi sotto la luce dei lampioni, poche automobili, bar chiusi sempre troppo presto, si spalancava davanti, prolungata anch’essa, senza fine, nella notte.

I lineamenti fini, gli occhi di un celeste tenero. Mario Benedetti parla raramente. Sembra quasi, ad un primo incontro, poco interessato a ciò che gli sta succedendo intorno. Ma è soltanto un’impressione superficiale. In realtà, a volte dopo molto tempo, ci si accorge che i suoi silenzi sono il segno di un’attenzione profonda, di una curiosità che si esprime nell’ascolto, nello sguardo: particolari, anche minimi, frasi, nomi si imprimono nel suo ricordo con forza e, se capita di riparlarne assieme, di riferirsi a qualche occasione particolare, ci si accorge solo allora che fra tutti il più presente era sempre lui, il più apparentemente lontano.
Nato tra le colline di Nimis, in Friuli, Mario Benedetti vive da anni a Milano. Sul terrazzo di casa cerca un cielo scomparso. Un’aria irraggiungibile.
Torna spesso, appena può da queste parti, a trovare la sua famiglia. Con Donata, o da solo, approfitta di questi momenti per scoprire paesaggi sconosciuti. Paesi dimenticati tra le valli del Natisone, a cui si arriva per strade strette, accidentate. Le distese piatte della Bassa, con i pioppi nudi alla sera in un velo di nebbia. La gente, le tante genti diverse di qui. Con le parole ereditate, cariche di vita, che esplodono tra il fumo delle “private” come qui vengono chiamate le mescite stagionali di vino. Il profumo della landa carsica nel Terrano o del Traminer illimpidito dal gelo, come un discorso con questi luoghi mai interrotto, che si riapre.

Guardo vicino all’acqua l’acqua.
Quando dici erba piango,
quando nelle tue parole ci siamo noi e c’è tutto
l’avere incominciato da piccoli
qui in questa terra, dici, questa nostra terra...

Un rapporto profondo con la lingua, i luoghi, le persone su cui lo sguardo si è posato per la prima volta. Uno sguardo che, nel tempo, è andato spostandosi sempre più in là, lontano, intravvedendo e scontrandosi con problematiche profonde, sono la caratteristica più evidente - anche se non l’unica - del suo lavoro. Sono versi tratti dal suo primo libro di poesie e prose, “I secoli della primavera”, un libro il cui la parola, attraverso una dura e tesa scarnificazione del dettato lirico, tendeva ad avvicinarsi al manifestarsi della vita colta nel suo aspetto più nudo, anonimo, come a voler dar voce senza farle violenza a tutta quella infinita quantità di esistenze, di gesti e di paesaggi attraversati, destinata a non altro che a sparire, in silenzio: l’infanzia con i suoi tremori, la madre e il padre, le corse in bicicletta e il dischiudersi pieno di stupore nel vento, nei giorni, dei primi volti femminili amati.
Non si delineano risposte, rivelazioni in questi testi rapiti nel turbine dello sgomento di confrontarsi, senza nulla da opporre, al fluire degli anni che trascorrono cancellando, precipitando nella nebbia del ricordo ciò che fino ad un momento prima era tra noi, dentro di noi.
Eppure, lontana da ogni opaca immanenza, in queste parole che non parlano d’altro che di ciò che ci circonda, di una realtà umile, fatta di povere cose, si dilata fino a dissolverne i confini la percezione del mistero che le abita e in cui abitano. Le cose diventano allora il luogo in cui, da ogni direzione, il tempo precipita come sospendendole in un presente irreale, “un altro presente”:

E vedo - chissà dove - il bianco del soffitto, le porte che si aprono e si chiudono, soltanto più scure agli stipiti, dove tutto è presente: ciò che muore perché è ancora, perché rimane, perché continua ad essere...di nuovo all’angolo, dove le linee ripartono dal punto che conclude le pareti.

Il suo secondo lavoro invece, Una terra che non sembra vera, è un piccolo libro uscito nel 1996. Sono ventun poesie appena ma, già ad una prima rapida lettura, si ha da subito l’impressione di trovarsi di fronte a qualcosa di nuovo e di diverso rispetto al libro precedente e, insieme, a quanto offre in generale l’attuale produzione italiana.
Partendo ancora e sempre dalla vita quotidiana ad esempio - radicata profondamente nei drammi dell’oggi ma con vette d’intensità lirica inattese - senza nessuna retorica questa poesia sembra la sola tra le tante che sia riuscita a restituire fino in fondo, attraverso le parole, il dramma, lo sgomento della guerra oltre confine. Un dramma senza fine che, in Slovenja, Slovenja, emerge senza mai essere nominato ma solo alluso nei versi finali:

E’ venuto con i passi nell’erba,
è un vento che pensa e ha avuto un prato là
e scende, va così, e sale nella mummia del fieno il suo forcone.

Su, qui, Silvano Berra ricorda Franco che tagliava ieri i càrpini.
Io faccio fatica a dire chi sono perché non è più niente l’erba che capita.
Aspetto sul muro il muro per sedermi, di poter guardare qui davanti
il vento che è stato, i giorni che erano anche per me giornate di caldo.

La nonna malata, ma era sempre un po’ magra malata,
avvilita per le spese del funerale,
come fate, lo ripeteva alla mamma.
L’avevano portata con il carro all’ospedale e poi quando era venuta
tra quelle due finestre si era fermato.
Uno ubriaco l’aveva messa in spalla come un sacco, è morta così,
l’hanno messa in terra ma era morta.
Stava lì, nel suo vestito, con quello che si era visto sempre,
era buona, era una donna buona.

Piangi qua, borgo senza nessuno
carbone dei corpi e delle mucche
vestiti bruciati, visi neri
fumo delle carni e del fieno umido.

Un impressione di stupore e spaesamento insieme, accentuata anche dal fatto che la lingua di Benedetti non si discosta di molto da quella di ogni giorno: non troviamo, difatti, termini ricercati o preziosi, cari a tanti poeti; ed è quasi del tutto assente un uso sperimentale della parola teso, a scardinare il linguaggio proiettandosi - attraverso un ribaltamento dei significati convenzionali - in altre non ancora esplorate dimensioni del dire. O, meglio, il lavoro di Benedetti parte dall’interno della lingua e procede per vie nascoste, lievi ma decisivi interventi, “scarti minimi” (parafrasando il titolo della rivista fondata assieme a Stefano Dal Bianco), in modo tale che, almeno apparentemente, non vi sia una differenziazione così evidente rispetto alla poesia della tradizione novecentesca. Eppure pochi ad esempio, quasi nessuno forse, hanno saputo convogliare la lezione estremamente moderna di Celan - senza forzature - all’interno della poesia italiana come questo autore. Una poesia come “Marzo”, soltanto per fare un esempio, si presenta come una sintesi rara di questo lavoro sulla parola:

Un bianco dove non si mette niente,
di notte
si vede una pagina di Nerval,
il sangue di Esenin, una baita, la strada nuda di una frontiera,
un bungalow sulla costa.

Non è mai tornare se diventa che mi vedi leggero.
La mano attraverso le case è dirti guarda
e già ti sporgi sul mare.
E la primavera gira gli occhi nella primavera
se ti dico guarda quante eriche.

Difendimi, difendi questa notte bianca,
il giorno ripetuto nel pensiero.
Log, Ambleteuse,
colpi dei piedi sulla strada, facce piene di vento scuro,
i nostri visi nelle mani,
il vento negli occhi chiusi per pensarlo.

E un albero di fiori
sale sullo slargo con la marea
perché la mano è così, amore,
lei va alta tra i tuoi capelli.

Nella parola, maturata nelle lunghe veglie, trovano asìlo tutte le cose minacciate, la notte condivisa dagli uomini, di cui l’umano fa parte. Proteggere la notte, porla in salvo, è mantenere viva, alta nel vento scuro, la fiamma del mistero. Le molte vite scomparse, i molti volti senza nome di cui siamo la sola, quasi sempre inconsapevole, testimonianza. Attraverso la memoria con cui un presente proiettato solamente nel futuro, nell’affinamento sempre più disumanizzante della tecnica, tende a recidere ogni legame. Decretando, per i morti, abbandonati a se stessi, una morte ulteriore, definitiva se nulla, più, li congiunge a noi, alla nostra vita.
Il peso di un’enorme responsabilità, di cui l’uomo deve farsi carico, viene ricordato, esplicitamente o implicitamente, in tutti questi versi . Parimenti, in altre forme, un medesimo appello veniva lanciato nell’ultima, lacerata poesia in friulano di Pasolini “Saluto e augurio”:

Difìnt i palès di moràr o aunàr,
in nomp dai Dius, grecs o sinèis.
Mòur di amòur par li vignis.
E i fics tai ors. I socs, i stecs.

Il ciàf dai to cunpàins, tosàt.
Difìnt i ciàmps tra il paìs
e la campagna, cu li so panolis,
li vas’cis dal ledàn. Difìnt il prat

tra l’ultima ciasa dal paìs e la roja.
I ciasàj a somèja a Glìsiis:
giolt di chista idea, tènla tal còur.
La confidensa cu’l soreli e cu’la ploja,

ti lu sas, a è sapiensa santa. *

Nell’attimo in cui veramente capiamo come tutto ci sfugge, come noi sfuggiamo a noi stessi, cominciamo allora, per la prima volta, a comprendere quanto la sopravvivenza e la continuità delle cose può dipendere dal nostro volerle o non volerle custodire al nostro interno, garantendo loro - scomparse, sempre sul punto della cancellazione definitiva - uno spazio teso ancora ad accoglierle nel mondo. Dipende soltanto da noi - traghettandole con la nostra testimonianza verso il domani - se l’oblio assoluto avrà, o meno, il sopravvento.
Apparentemente - ma solo apparentemente appunto - rispetto ad altre ricerche più estreme questa poesia potrebbe allora forse apparire come un ritorno a forme e modi di esprimere più rassicuranti, come una sorta di riflusso, non riuscendo a trovare più alcun appiglio stabile, nell’alveo protettivo e materno di una realtà in cui questi riferimenti erano ancora intatti e vivi.
La frattura operata da Benedetti esiste invece; ma forse, per meglio dire, più che un distacco drammatico, un taglio netto, la sua è piuttosto da intendersi come una di quelle svolte decisive che accompagnano senza traumi, discretamente e senza il bisogno di doverlo manifestare, un passaggio naturale da un’età della vita ad un’altra, per cui non c’è più bisogno di dover attaccare il nostro passato per liberarsene e proseguire oltre. Questo passaggio è anche il risultato di una rara sapienza nel riuscire a costruire testi estremamente equilibrati, in sé conclusi, “classici” quasi, con una misura ed un senso del ritmo che nulla, però, ha a che vedere con la metrica tradizionale.
Versi in cui il tempo batte, silenzioso, in perfetta sincronia con quello attuale. Il che li rende quasi inavvertitamente familiari, vicini a noi, diversamente da ciò che accade con quanti credono (o sperano) di poter ristabilire un rapporto con il passato recuperando semplicemente forme già collaudate. Nate per altri, non più nostri, tempi.
La poesia di Benedetti - senza mai voler affermare nulla di definitivo, resa forte dalla sua a volte manifesta incapacità a dire - apre forse più di altre ricerche attuali un via, ancora percorribile e vera, verso il domani soltanto immaginabile della parola:


Mi sento nel giro che facevi a prendere la legna,
nel rumore del camion che va perché si possa entrare
in trattoria durante l’ora di pausa: nei pensieri
che accompagnano la terra da togliere nel cantiere.

Questo è lo sguardo che lo tiene, quando si va la sera,
e volendo ci si può chiedere com’è stata, che cosa, la giornata:
restare in una melodia o con un disegno più nervoso e impossibile.

Così mi penso nelle parole che risalgono il cortile,
dopo averti sentita nell’aria che ti affaticava: un po’ intorno
come una sera d’aria tra le pietre e sulla campagna.

Dove la neve è occuparsi di che cosa sono le erbe e i sassi,
rimanere sulle cose per un po’, nel bianco della neve:
con le piane che avevano il tuo sguardo grande,
tu che diventavi le giornate, lavoro e prati di un mondo.


Memorie e sguardi che si fondono nella luce smarrita di un unico, dilatato presente. Rivelazioni che sorgono ancora, anche dalle nuove poesie come questa, dall’ascolto di ciò che passa con noi, dentro di noi, e scompare, oltre una frontiera nascosta, inosservato. Intrattenibile. I muri strappati delle case che non ci sono, l’acqua sporca oltre le reti. I volti pieni di vento vivi fino a quando qualcuno continuerà, nel silenzio, ancora a pensarli.



Ivan Crico, 1996

* “Difendi i paletti di gelso, di ontano, / in nome degli dei, greci o cinesi. / Muori di amore per le vigne. / Per i fichi negli orti. I ceppi, gli stecchi. // Per il capo tosato dei tuoi compagni. Difendi i campi tra il paese / e la campagna, con le loro pannocchie / abbandonate. Difendi il prato // tra l’ultima casa del paese e la roggia. / I casali assomigliano a Chiese: / godi di questa idea, tienla nel cuore. / La confidenza con il sole e la pioggia, // tu lo sai, è sapienza santa”. Pier Paolo Pasolini, “Saluto e augurio”, p. 257.