martedì 7 ottobre 2008

"Spostando leggermente i pesi", un libro di racconti di Pierluigi Piccoli

“Spostando leggermente i pesi”

É tempo che il sasso si adatti a fiorire,
che per l'inquietudine batta un cuore.
É tempo che sia tempo.

É tempo.

Paul Celan




Chi conosce Pierluigi sa che si tratta di una persona diretta, come dirette, senza concessioni all’inessenziale, sono le sue parole. Parole che, finora, non erano mai, o quasi mai, approdate sul foglio. Che non si erano mai fatte scrittura ma, come suoni in cui si racchiudono emozioni, rabbie e tenerezze, l’ansia di riscatto, la volontà di emergere o scomparire a se stessi nell’ascolto degli altri, del mondo, trovavano una voce attraverso i tasti - bianchi e neri come un sì o un no - del pianoforte. Ora ciò che rimaneva pura musica, un racconto aperto a mille diverse interpretazioni come ogni musica, si è fatto strada in lui ricercando le parole di ogni giorno. Quelle più semplici e dirette appunto. Che non si fermano, però, al lato più ovvio e scontato del quotidiano, non ne calcificano lo splendore nascosto con generalizzazioni che riducono la sua complessità alla nostra incapacità, o impossibilità, di decifrarlo. Molte di queste storie partono da storie di vita normalissime (in apparenza) per mostrare che spesso, quella che ci appare come realtà, non è altro che un passaggio, la prima tappa verso il lato miracoloso dell’esistenza. Emblematica, a riguardo, la storia in cui le uscite misteriose di uno dei personaggi di questo libro creano nella mente della madre mille supposizioni. Tutte così ovvie da sembrarci, da subito, troppo scontate per essere vere. Certamente ci dev’essere sotto qualcosa d’altro, ci diciamo. Eppure un po’ tutti noi, di fronte a quanto ci accade nella vita, assomigliamo a quella madre ansiosa. Soprattutto poco fiduciosa. Il finale, nella sua semplicità, è sorprendente e ci lascia stupiti, con la cronaca breve, perché non ha bisogno di troppe parole per essere espresso, di un pudore fatto di gesti a cui non siamo più abituati. Noi ci aspettavamo chissà cosa ed, invece, ci troviamo di fronte a qualcosa di così altrettanto ovvio delle inquiete supposizioni della madre. Ma qui sta la bellezza, spesso disarmante, di queste pagine. Pagine in cui incontriamo le storie, più o meno deragliate, più o meno intrise di tic ed ossessioni, di persone che cercano, ognuna a suo modo, di riuscire ad arginare il caos da cui si sentono minacciate ricreando proprie leggi, immergendosi in dimensioni che sono quelle del sogno, della visione profetica e, anche, dell’allucinazione. Piccoli universi all’interno di un universo infinitamente grande che poi, regolarmente, reimporrà le proprie leggi, facendoli ripiombare in un momento nella realtà. Mi sembra molto bello, a questo proposito, anche il finale della storia intitolata oggetti, dove un’ossessione, quella di nascondere ovunque degli oggetti, finisce per condurre una normalissima persona (in apparenza) in Commissariato. La moglie, confusa, scopre anche qui di aver avuto accanto per anni qualcuno che non conosceva, convivendo con un’immagine che anch’essa nascondeva la parte più segreta del marito assieme a tutti quegli oggetti. Ma come si giustifica Carlo (questo il suo nome), come giustifica qualcosa che lo oltrepassa, che lo domina costringendolo ad azioni disperate? Anche qui Pierluigi sa trovare, mi sembra, le parole più delicate e semplici, quelle capaci di riscattare un’intera vita: “Ti amo ancora tanto”. Quell’ “ancora” sembra testimoniare di un’amore che, anche in fondo alla follia, all’ottenebramento, rimane come la fiamma di un lumino portata attraverso un tunnel in cui si incanala un nero vento di paure. Quella fiamma è rimasta, per miracolo, ancora accesa. Illumina con la sua umanità, la sua semplicità, queste pagine in cui si susseguono storie diverse nate anch’esse, spostando di volta in volta “leggermente i pesi”, dal tentativo di immaginare “cose nuove da poter vivere”. Cose nuove che ci spingono, con l’immediatezza enigmatica di un detto zen, “verso una possibile guarigione da una cosa da cui non si guarisce”.


Ivan Crico, Pieris 23 gennaio 2005

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