martedì 7 ottobre 2008

Ligio Zanini e Bianca Dorato: incontri a Grado

INCONTRI A GRADO


I. La cenere è ancora calda


La notte si addensa attorno a me
selvaggio e gelido soffia il vento
ma una magia implacabile mi ha vinto
e non posso non posso fuggire...
Emily Bronte


Era un giorno immerso nel riverbero luminoso del mare tra le case, il verde chiaro, sbiancato dal sole delle foglie d’acacia. Giunsi a Grado dopo diversi passaggi, divisi da lunghe attese, in macchina. Non avevo ancora, in quel tempo, la patente. Respiravo come un’improvvisa liberazione quell’aria mattutina leggera, intrisa di sale, venuta a contrastare l’afa dei giorni precedenti. Camminando come sognato da quella luce calma. Nel tintinnìo delle corde sulle alberature si fondeva il brusìo indistinto dei turisti per le vie, nei negozi e nelle edicole, traboccanti fino quasi all’orlo della strada, avvolte in un pulviscolo patinato di volti sorridenti, corpi nudi, caratteri diversi, minuti, cubitali, dai colori accesi.
Sotto il porticato dell’Auditorium, nella penombra ventilata, trovai il poeta di Rovigno - un meraviglioso paese sul mare in Istria - Ligio Zanini. Parlava con l’amico Amedeo Giacomini che fumava, attento sempre e inquieto, una sigaretta dopo l’altra. Zanini era lì per ritirare un premio importante, il primo dedicato alla memoria di Biagio Marin. Non so se è la memoria a tradirmi - non lo rividi più dopo quell’occasione - ma mi apparve come un uomo imponente; forse sbaglio, o forse era la sua forza interiore, di uomo sopravvissuto a prove terribili, che rendeva la sua figura così presente. Dagli altri si distingueva, inoltre, per il suo abbigliamento disadorno, da pescatore qual’era, con dei pantaloni di vecchio taglio, la camicia a quadretti, il basco scuro. Teneva in mano alcune lettere che Marin gli aveva scritto. Disse che le aveva portate per metterle in salvo. Aveva paura di quello che sarebbe potuto succedere, da lì a poco, in Jugoslavia. E nei suoi occhi, nella voce di perseguitato si condensava, di colpo, come uno spavento indicibile che, lo si sentiva, lui aveva già vissuto altre, troppe volte.

A ma s’inpéira ’l pilvintréin, fradài,
nam’ al panser ca ma turno a granpà
i cani da pastur, quii del russo,
ch’i uò i denti stuorti, sensa pardon.

I son sta tri ani zuta quile bies-ce,
puoi par sempre tinbrà cume pegura nigara...


Mi si solleva il pelo d’oca, fratelli,
soltanto al pensiero che mi afferrino nuovamente,
i cani da pastore, quelli del rosso,
con i denti ricurvi, senza perdono.

Sono stato per tre anni sotto quelle bestie,
poi per sempre marchiato quale pecora nera...


La guerra non era ancora iniziata e molti di coloro che erano presenti (per poca conoscenza, per cecità o anche, non bisogna negarlo, per quel disinteresse colpevole che nasce dalla sazietà nei confronti dell’esterno) non avrebbero mai pensato che questo evento potesse svilupparsi, a pochi passi da noi, in quella che sembrava ormai destinata a far parte, pacificamente, dell’Europa moderna.
“L’Italia” d’altra parte, diceva già Noventa in occasione dell’esodo degli istriani, ora come allora troppo presa da se stessa, non ha occhi per vedere ciò che le succede intorno, “la xe tanto distrata”.
Conoscevo bene, come molti di coloro che abitano lungo questi confini, l’atmosfera di tensione quasi insostenibile che si respirava ogni qual volta si oltrepassava la frontiera. Dopo la morte di Tito, al di là di cambiamenti superficiali, più apparenti forse che reali, i conflitti interni non si erano esauriti. Anzi. Con la sua scomparsa, tutto ciò che era stato per tanto tempo soffocato, respinto nel fondo, ora lentamente ma inesorabilmente cercava di ritornare in superficie. Ma questa crosta indurita di cenere, con cui dal dopoguerra ad oggi si era tentato, anche con la più spietata repressione, di seppellire le conflittualità, non poteva - per troppa pressione interna - che esplodere da un momento all’altro con una violenza tremenda, imprevedibile. Ma soltanto adesso tutto appare chiaro nella sua tragica evidenza.
Allora, a un anno di distanza dall’inizio dalla guerra, i presentimenti di Zanini non furono, se non in parte, compresi. Sembrava, la sua, una previsione troppo catastrofica per sembrare realistica. Abituati alle nostre continue mediazioni, accomodamenti, si dimenticavano in questo modo due qualità - che possono anche trasformarsi in difetti terribili - dei popoli slavi: la memoria e la determinazione nel portare a termine, fino in fondo, i propri propositi. Due qualità che però, alimentate dall’odio che naturalmente si genera all’interno di un conflitto, possono sfociare in una inumana freddezza nello scovare, anche dal fondo del tempo, raggiungere e colpire chi non sta dalla propria parte. Come è accaduto e, al di là dell’indifferenza generale, può ancora e in parte ancora continua ad accadere anche se in forme più nascoste, meno luttuosamente spettacolari.
Zanini parlò, poi, di sé, di come Tito l’avesse mandato in uno dei Lager approntati per gli oppositori, quelli che venivano chiamati “campi di rieducazione ideologica”, dove i prigionieri erano costretti a dormire a terra sul fianco, perché non c’era posto, e, se uno si sentiva male e doveva girarsi, bisognava che cominciasse dal fondo, dal primo contro il muro, a voltarsi tutta la fila. Parlò di come sua moglie, a diciott’anni, fu costretta per mantenere la famiglia ad andare a raschiare, in porto, la ruggine dalle navi. Non c’era altro lavoro disponibile, allora, per la compagna di un dissidente.

Il mare e la città di Rovigno, la pesca, l’amicizia con il gabbiano Fileipo, continuamente cantati nella sua poesia, divennero in un certo senso i simboli salvifici capaci di guidarlo, dall’inferno della storia, la solitudine, verso la libertà fisica ed interiore.

A ma par,
ca cusséi pansando i nu son sul;
i siè da iessi cui tanti marinieri,
véia dai lòuridi ponti alti da cumando,
sul silistréin sensa cunféini
del mar quito e lanbàstro,
ula ognidòun el sa signasse,
cun cuntantissa, la pruopria ruota,
pel puorto d’òun véivi da omi.


Mi sembra,
così pensando, di non essere solo;
sono con i molti naviganti,
via dagli sporchi ponti alti di comando,
sul cilestrino senza confini
del mare calmo e trasprente,
dove ognuno sa tracciarsi
con gioia la propria rotta,
per il porto dell’umana convivenza.


In questi luoghi e tra queste presenze, segni della vita colta nel suo aspetto più essenziale, trovò un rifugio dalla ferocia del presente, uno spazio in cui ritirarsi/avventurarsi per reiniziare a ricomporre la frattura tra uomo e natura, oltre i drammi della storia, a partire da se stesso. Uomo combattivo, tormentato e brusco, talvolta, nei suoi attacchi ogni qualvolta sentiva minacciata la dignità umana, in questo passo sembrano affiorare ancora, svuotate da ogni retorica, le parole di Michelstaedter in una delle sue ultime poesie:

Perciò se freddo e ruvido io ti sembri,
ma tu lo sai: è per vieppiù andare,
è per nutrir più vivida la fiamma,
perché un giorno risplenda nella notte,
perché possiamo un giorno fiammeggiar
liberi e uniti al porto della pace.

La poesia di Zanini non poteva che ripartire da qui, opponendo ai deserti delle grandi ideologie (all’ordinamento della realtà secondo principi superiori che non contemplano le esigenze del singolo), attraverso l’affermazione della sua diversità, del suo voler resistere, con il proprio esempio, ribaendo la sua sempre rivendicata autonomia di giudizio, a questa cieca omologazione.
Di fronte alla generalizzazione imperante, Zanini rispose portando in primo piano, come oggetto della sua poesia più alta, realtà minuscole, nomi di persone e ambienti, utilizzando, per descrivere particolarissimi fenomeni del mondo marino, termini usati dai pescatori talmente radicati nella realtà del luogo da non aver nemmeno un corrispettivo italiano. Ambientalista anzi tempo, comprendeva che senza conoscere a fondo la realtà che ci circonda - portandoci al di fuori di noi stessi, dei nostri problemi per capirla, per diventare alberi, pesci, pietre, dialogare come Zanini faceva con il suo gabbiano - non potremo mai avere il vero senso del valore della vita intorno e dentro di noi, saremo sempre soggetti al rischio di distruggerla, sprecarla.
Sentiremo, solo allora, ogni offesa nei suoi confronti come se venisse inflitta a noi stessi. Rifacendosi ad una frase del grande scrittore inglese, nel suo libro di saggi,Il Tempo, grande scultore, Marguerite Yourcenar diceva:

Scrive Oscar Wilde che il peggior crimine è la mancanza di immaginazione: l’essere umano non prova compassione per i mali di cui non ha esperienza diretta o a cui non ha personalmente assisito.

La distanza dalla realtà, la riduzione della cosa a numero, merce, come i muri spessi che celano allo sguardo del consumatore ciò che avviene nei mattatoi, è il primo passo verso una visione disumanizzata: diventa più facile, se non si sa chi è, da dove viene, puntare il fucile contro un nemico; e difatti, nelle guerre, la prima cosa, la più urgente è quella di eliminare ogni vicinanza tra noi e gli altri. La poesia di Zanini brucia, invece, ogni residuo di divisione con la realtà. Il particolare, l’attenzione nei confronti del particolare diventa una chiave per accedere al tutto, per liberarsi, attraverso l’immedesimazione con ciò che ci attornia, da noi stessi, dalla cupidigia, da un’indifferenza complice che lascia libero il campo al dilatarsi senza fine dei massacri.

...parchi de Pasturi
a uò granpà la riguola,
pratandando da savì dòuto
e sòurme inbriaghe e rufiane
li ga bato ancura li man...

...poiché pastori
hanno impugnato la sbarra
pretendendo d’essere infallibili
e ciurme ubriache e ruffiane
ancora li applaudono

Quando trovai tra una catasta informe di volumi, nella soffitta di un mio amico, il suo primo libro Buleistro, mi colpì subito, senza conoscerne l’autore, questo sentimento della poesia come forma di resistenza, come un’argine che si leva di fronte all’onda corrosiva di un’ingordigia senza misura, in cui si perde ogni attenzione nei confronti dell’altro, che rischia di travolgere ogni realtà presente e passata. E’ una voce che immediatamente si distacca da gran parte della poesia in dialetto; una voce che non ha bisogno di riferirsi ad esempi letterari per invalidarsi come, del resto, di sfuggire nella facile nostalgia, statica, regressiva, tipica di tanta poesia vernacolare, nei confronti dei tempi passati. Tempi che, per Zanini, non sono perduti finché si continuerà a ripensarli, a coltivarne il ricordo.
“Buleistro” significa cenere calda: la cenere ancora calda sul focolare dei nostri avi, che unisce nel suo tepore non ancora spento il passato, attraverso le loro parole, il loro “favalà”, al presente.

La sienara xi ancura calda
sul grando fugulier
dela viecia casa in Uratuorio;
sienera ancura calda
par tanto fogo stissà
da ma nuona Fiamita;
fogo da sarmente, ramasse,
suchi da véide e da ulèii
strassinadi da Palù
sul bastéin del samarol;
fogo da bon udur,
ca ma uò fato nassi,
ca ma uò fato crissi,
da tanto tenpo dastoudà,
dastoudà
cun ma nuona Fiamita.
Gira rastade bronse e stéissi,
ma ogni giuorno da st’invierno
la canpana da Sant’Ufiemia,
cun l’umaréie da muorto,
cumpagna sensa gluorie
ogni bronsa ca sa dastòuda.
Duopo tanti buoti, uncui
el fugulier xi ancura caldo,
par un fià da buléistro
par pudì favalà ancura;
ancura, ultra l’ultimo buoto.



La cenere è ancora calda
sul grande focolare
della vecchia casa all’Oratorio,
cenere ancora calda
per tanto fuoco attizzato
da mia nonna Eufemia;
fuoco di sarmenti, sterpi,
ceppi di viti e di olivi
trascinati da Palù
sul basto del somarello;
fuoco di buon odore,
che mi ha fatto nascere,
che mi ha fatto crescere,
da tanto tempo spento;
spento con mia nonna Eufemia.
Erano rimaste braci e tizzoni,
ma ogni giorno di questo inverno
la campana di Sant’Eufemia,
con l’avemarie di morte,
accompagna senza “glorie”
ogni brace che si spegne.
Dopo tanti rintocchi, oggi
il focolare è ancora caldo,
per poca cinigia,
per poter favalà ancora;
ancora, oltre l’ultimo rintocco.


Custodire dentro di sé la memoria del passato è legarsi a tutte le vite che ci hanno preceduto, ai tanti volti che dal silenzio di generazioni finiscono per comporre il nostro, guado oscuro tra ciò che è stato e ciò che verrà. Significa garantire, se non la continuità della nostra vita, quello che anche ognuno di noi potrebbe richiedere, a chi lo seguirà, di rivificare: le nostre esperienze, quello che, vivendo, abbiamo capito e sopratutto quello che non siamo riusciti a comprendere, perché da quel punto dovrà ripartire l’interrogazione, la domanda. Il confronto con il mistero. Ma se questo legame si spezza si spezza, anche, la complessità, la varietà di sguardi che questa eredità ci offre; e la vita, impoverita, sarà di nuovo al punto di partenza, per ripartire da capo preda delle semplificazioni, dell’arroganza dei giudizi affrettati. L’arroganza e la barbarie, contro cui questo poeta lottava, di ogni pensiero che vorrebbe plasmare il mondo a sua immagine e somiglianza.
Al tempo stesso, nel tentativo di abbracciare questa complessità, il pensiero è destinato allo scacco, ovviamente, a riconoscere la sua limitatezza; a comprendere la sua impossibilità (ridimensionando l’immagine superiore che ha di sé rispetto alle altre creature) a costringere il reale nello spazio angusto del proprio giudizio.
Ma è proprio in questo momento, sembra dirci questa poesia, che l’uomo può recuperare il proprio rapporto con la vita nella posizione di colui che serve il mondo, non se ne serve, aiutandolo con la propria opera, cosciente dei suoi limiti, a sottrarsi “al fuoco, come dicono i sutra buddhisti, dell’ignoranza, al fuoco della cupidigia, al fuoco dell’aggressività” che lo divora da millenni.

Ultra ’l mul
uò butà
el garbéin
onde e pere,
spacando
séime, lansane,
e arméisi.

...


Ma duopo
tante scuribande,
sui nostri arméisi
xi ancura
viece batane ruvéignise.


Oltre il molo
il libeccio
ha scagliato
onde e pietre
spezzando
canapi
ed ormeggi.

(...)

Ma dopo
tante scorribande,
sui nostri ormeggi
sono ancora
vecchie battane rovignesi.




II. Altre più lontane dimore

Fu Edda Serra, più tardi, credo, a dirci che la cerimonia stava per iniziare. Entrammo. Non tutti; qualcuno - assieme ad Amedeo e Gigi Bressan, altro significativo poeta in dialetto pavano - rimase ancora per un momento a chiacchierare o a finire la sua sigaretta.
Nella grande sala affollata si potevano vedere riuniti, forse per la prima e unica volta, tra i maggiori nomi della poesia in dialetto e della critica, da Loi a Bertolani, da Brevini a Tesio. Ricordo tra gli altri, inoltre, un bellissimo, dotto intervento di Salvatore Nigro su Thomas Mann e le conchiglie, quelle conchiglie che Marin amava raccogliere sulla spiaggia e che poi conservava nel suo studio.
Tra le letture di tanti poeti giunti per l’occasione da tutt’Italia, rimasi colpito, fra tutti, da una poetessa di Torino che conoscevo poco, Bianca Dorato, dalla sua voce tremante e commossa nel descrivere i cammini delle femmine di camoscio su sentieri d’erba bruciata, le vette lontane e il vento, la luce tagliente sulle rocce.

El vent a passa sij malezzo d’or
poer ed lus a ven giù da le rame
lus am ven an sle giàute e ’n sij cavèj
am ven a j’euj antant ch’i von marcianda

E a j’é na vos che a ven d’amont, na vos
che vent e lus a san - miraco ’n gemmi
’d fumela spersa che a serca soa pas
e n’autra vos da rochere daleugne
tan dossa ’d susta ’n ciamanda a-j respond

O miraco, a l’é mach andrinta al cheur
che vent e lus a arson-o, e a lo fan grev
ed gòj e ’d lerme. A j’é già, là sel còl,
la fiòca neuva che a berlusa, e a ciama
d’àutre fiocade: e belessì ’nté i ston
l’or dij malezzo a cheurbe ’d lus la tèra
e ’s bram d’amor. E già l’invern a riva.


Il vento passa sui larici d’oro
pulviscolo di luce scende dalle fronde
luce mi viene sulle guance e sui capelli
mi viene agli occhi mentre vado camminando

E c’è una voce che viene dai luoghi alti, una voce
che vento e luce conoscono - un gemito, forse
di femmina bramosa che cerca la sua pace
ed un’altra voce da rupi lontane
così dolce di desiderio chiamando le risponde

O forse, è soltanto dentro il cuore
che vento e luce risuonano, e lo fanno greve
di gioia e di lacrime. C’è già, sul colle,
la prima neve che sfavilla, e chiama
altre nevicate: e qui dove io sto
l’oro dei larici a coprire di luce la terra
e questo grido d’amore. E già l’inverno arriva

Una voce, la sua, entro cui l’atmosfera marina, calda di quel giorno a Grado, pareva velarsi, come in un’irreale epifania, di un silenzio di neve. La sua opera, difatti, è tutta legata inscindibilmente alla montagna, all’ascesa verso le vette che diventano, in questo modo, simboli del percorso dell’anima verso la luce.
Più che alla tradizione occidentale però, all’infuori forse della poesia di Juan de la Cruz, le fonti ideali di questi versi - evocanti sempre il tormento interno che nasce dal desiderio ardente, quasi sensuale, e la separazione dall’Amato - sono da ricercare più nella grande tradizione sufi, quella di Rumi sopratutto, e anche, ma in misura minore, nel Corano. Ma questo percorso verso l’assoluto parte lungo sentieri e luoghi conosciuti, con un loro nome e una forma ben distinta, per cui in questo modo la ricerca della Dorato non cade mai nella pura astrazione ma lega, anzi, profondamente la ricerca spirituale alla vita concreta. La scelta del dialetto, in cui è stata nominata per la prima volta questa realtà, non poteva che essere conseguente, sentita come necessaria, studiata con attenzione, come qualche anno dopo mi scrisse in una sua lettera:

Io sono nata a Torino, e a Torino ho sempre vissuto; in casa ho sempre parlato torinese. Tuttavia la lingua delle mie poesie non è questa; o piuttosto,il torinese è l’albero sul quale si sono innestati modi di espressione non peculiari della mia città. Io amo molto andare in montagna: da tanti anni percorro, con amici o da sola, le vallate del Piemonte, e nelle mie tante camminate ho imparato a conoscere e ad amre quelli che sono diventati i “miei” luoghi - o meglio, io sono diventate “loro”.
Le vallate piemontesi sono - tutte, ma qualcuna in modo angosciante - povere, ed in molte parti spopolate: una politica dissennata ha sradicato la gente, facendo di tutto perché una cultura antichissima e preziosa andasse perduta. Qualcora ancora resiste. E tuttavia è tristissimo attraversare pascoli abbandonati e villaggi vuoti, dove i muri delle case si sgretolano anno dopo anno, e pensare che lì c’è stata vita, lotta, amori, gioie e dolori che più nessuno ricorda. Ed anche un linguaggio bellissimo ed antico: dai Pirenei alle Alpi si potrebbe andare parlando questa lingua, ed essendo compresi. Le vallate del Piemonte sud-occidentale sono tutte di parlata provenzale, che senza soluzione di continuità si lega ai linguaggi piemontesi della pianura, con sfumature diverse. Dalla Valle di Susa sino alla Valle d’Aosta la lingua è franco-provenzale, apparentata alle parlate savoiarde.
Ecco, questi sono i luoghi delle mie poesie, e da essi ho preso, involontariamente ( sono loro che hanno preso me, parole che mi aspettavano in case abbandonate e su sentieri desueti) molti modi di dire e molti vocaboli che a Torino sono a volte sconosciuti e a volte soltanto dimenticati.
Ciascuna delle mie poesie nasce dal ricordo di una camminata, di un incontro, in un luogo ed in un tempo precisi.

Sembrano appartenere difatti, le limpide, preziose composizioni in dialetto piemontese di questa poetessa, ad un tempo sospeso, a quel silenzio illune che divide un battito del cuore da quello seguente, annuncio indecifrabile di un inizio o di una fine.
Sono pause, forse, scavate nell’onda magmatica del divenire delle cose, paesaggi imbiancati o rasi dalla ferocia del sole, fiori e alberi colti nella prima luce, come congelati in un fermo-immagine che permetta di osservarli con una precisione altrimenti negata. Cose che, anche qui, una volta ancora si mutano in simboli vivi di un percorso interiore sofferto, segnato da un’ossessione implacata di luce:

E lus, mi i sai, tuta lus s’anvìa
fòrta che am pogna,
che sempe ’n spetanda ij serca,
becche solìe,
àute’d lus ant la tèra ancreusa.


E luce, io so, tutto luce questo desiderio
forte che mi punge
che sempre aspettando io le cerchi,
vette assolate,
alte di luce nella terra profonda

Ma forse, ed in questo le liriche dell’ultima fase si differenziano rispetto a quelle precedenti, lo sguardo che si volge intorno, verso il mondo che lo accerchia, sembra, se possibile, ancora più libero da legami esterni, richieste: uno sguardo che forse addirittura oltrepassa - non la rifiuta - la speranza.
Un’autonomia interiore che potrebbe rapportarsi a quella, secondo le parole di Cécile Bruyère, l’ultima mistica benedettina, che nasce dall’essere riusciti a dimostrare “a se stessi, fino all’evidenza, che c’è stata della durezza, dell’ingiustizia, dell’inquietudine...”.
Sradicati anche i desideri, le attese, la voce non invoca, non chiama più, ma chiamata attesta la sua pura presenza in un fitto intreccio immateriale di altre voci, altre presenze quasi fissate sul punto di diventare altro, aperte solamente ad accoglierla, la luce, a sfarsi in essa, senza nome, in un presente annullato.

An sla piarda d’otonn
tan ëstraca i bëstanto
an sla brova dël ri
la matin a l’é giassa

E spersa a l’anviron
il viso: a va mè bèich
da costera a coste a
drinta a montagne ’d lus

pere’d lus a traversa.
E la tèra ’nté i ston
ëd sò dreume am argala
ij sò segret i ’mprendo

Le becche sobiran-e
a son ëvnùe da mi
se ’nt ij brin cit ëd l’erba
i peuss trové mia gòj

se con chej i tramolo
ant s’ora pasià ’d lus -
l’ëstermà a ven d’amont
drinta al cheur as arvela.


Sul pianoro autunnale
così stanca io indugio
sulle sponde del ruscello
il mattino è ghiaccio

E bramosa all’intorno
io cerco: va il mio sguardo
da pendìo a pendìo
monti di luce penetra

pietre di luce trapassa.
E la terra dove io sto
mi delizia con il suo sonno
imparo i suoi segreti

Le vette sovrane
sono venute a me
se nei piccoli steli dell’erba
io posso trovare la mia gioia

se con essi io tremo
in quest’ora sazia di luce -
il nascosto viene dall’alto
dentro il cuore si svela

Luoghi e tempi dell’anima - e da questo in fondo si origina l’intensità di poesie tra le più alte della poesia in dialetto in Italia e non solo - che rimandano sempre, riprendendo le sue parole, a un luogo, a un tempo precisi. “E’ ovvio”, scrive la Dorato, “che, nel suo nascere, la poesia diventi “altro”: e tuttavia è in questi luoghi ed in questi momenti che la mia anima trova la sua vera dimora, o l’immagine di altre e più lontane dimore”.



Note.

Ligio Zanini, I ’è pagòura, òuna pagòura putana, in “Poesie inedite in dialetto rovignese”, “Diverse Lingue”, Udine, Campanotto editore, Anno III, n. 7/8 (Ho paura, una gran paura. Mi si solleva il pelo d’oca, fratelli, / soltanto al pensiero che mi afferrino nuovamente, / i cani da pastore, quelli del rosso, / con i denti ricurvi, senza perdono. // Sono stato per tre anni sotto quelle bestie, / poi per sempre marchiato quale pecora nera...).

Ligio Zanini, I son fuorsi sul?, in “Poesie inedite in dialetto rovignese”, “Diverse Lingue”, Udine, Campanotto editore, Anno III, n. 7/8 (Mi sembra, / così pensando, di non essere solo; / sono con i molti naviganti, / via dagli sporchi ponti alti di comando, / sul cilestrino senza confini / del mare calmo e trasprente, / dove ognuno sa tracciarsi / con gioia la propria rotta, / per il porto dell’umana convivenza).

Ligio Zanini, I ’son fuorsi sul?, in “Poesie inedite in dialetto rovignese”, “Diverse Lingue”, Udine, Campanotto editore, Anno III, n. 7/8 (...poiché pastori / hanno impugnato la sbarra / pretendendo d’essere infallibili / e ciurme ubriache e ruffiane / ancora li applaudono).

“Una civiltà a compartimenti stagni”, Marguerite Yourcenar, Il Tempo, grande scultore, Torino, Einaudi, 1994, p. 171.

Ligio Zanini, Buleistro, in “Buleistro”, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1966 (La cenere è ancora calda / sul grande focolare / della vecchia casa all’Oratorio, / cenere ancora calda / per tanto fuoco attizzato / da mia nonna Eufemia; / fuoco di sarmenti, sterpi, / ceppi di viti e di olivi / trascinati da Palù / sul basto del somarello; / fuoco di buon odore, / che mi ha fatto nascere, / che mi ha fatto crescere, / da tanto tempo spento; / spento / con mia nonna Eufemia. / Erano rimaste braci e tizzoni, / ma ogni giorno di questo inverno / la campana di Sant’Eufemia, / con l’avemarie di morte, / accompagna senza “glorie” / ogni brace che si spegne. / Dopo tanti rintocchi, oggi / il focolare è ancora caldo, / per poca cinigia, / per poter favalà ancora; / ancora, oltre l’ultimo rintocco).

Ligio Zanini, Marisada, in “Buleistro”, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1966 (Oltre il molo / il libeccio / ha scagliato / onde e pietre / spezzando / canapi / ed ormeggi. (...) Ma dopo / tante scorribande, / sui nostri ormeggi / sono ancora / vecchie battane rovignesi).

Cfr. sopratutto a proposito, Rumi, Poesie mistiche, a cura di Alessandro Bausani, Milano, Rizzoli, 1980.

Bianca Dorato, Vent e lus, poesia inedita (Il vento passa sui larici d’oro / pulviscolo di luce scende dalle fronde / luce mi viene sulle guance e sui capelli / mi viene agli occhi mentre vado camminando // E c’è una voce che viene dai luoghi alti, una voce / che vento e luce conoscono - un gemito, forse / di femmina bramosa che cerca la sua pace / ed un’altra voce da rupi lontane / così dolce di desiderio chiamando le risponde // O forse, è soltanto dentro il cuore / che vento e luce risuonano, e lo fanno greve / di gioia e di lacrime. C’è già, sul colle, / la prima neve che sfavilla, e chiama / altre nevicate: e qui dove io sto / l’oro dei larici a coprire di luce la terra / e questo grido d’amore. E già l’inverno arriva).

“E luce, io so, tutto luce questo desiderio / forte che mi punge / che sempre aspettando io le cerchi, / vette assolate, / alte di luce nella terra profonda”.
pg. 68.

Bianca Dorato, poesia inedita (Sul pianoro autunnale / così stanca io indugio / sulle sponde del ruscello / il mattino è ghiaccio // E bramosa all’intorno / io cerco: va il mio sguardo / da pendìo a pendìo / monti di luce penetra // pietre di luce trapassa. / E la terra dove io sto / mi delizia con il suo sonno / imparo i suoi segreti // Le vette sovrane / sono venute a me / se nei piccoli steli dell’erba / io posso trovare la mia gioia // se con essi io tremo / in quest’ora sazia di luce - / il nascosto viene dall’alto / dentro il cuore si svela).

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