domenica 5 ottobre 2008

Di guesto martirio fulminante. Testimonianze di bisiachi sulla Prima Guerra Mondiale

Di guesto martirio fulminante

Oh terra. Oh! trombe
guando suonerette la nostra
santa liberazione per tutti
noi fugiaschi.

Tita Adan


In una recensione al volume curato da Andrea Cortellessa per Mondadori, Le notti chiare erano tutte un’alba, volume che raccoglie testi di poeti che hanno partecipato alla Prima Guerra Mondiale, il poeta Roberto Roversi si chiedeva come mai, ancora, si continui sempre a ripresentare questo terribile avvenimento filtrato attraverso le testimonianze di intellettuali famosi, o comunque di studenti, ufficiali, escludendo la massa interrata di testimonianze straziate, commoventi, di quei soldati semianalfabeti che venivano scaraventati nel gorgo della guerra, delle carneficine, assistendo alla scomparsa dei loro compagni e spesso, in se stessi, degli ultimi residui di speranza di ritornare a casa sani e salvi.
Eppure, di fronte anche all’altissima poesia balenata tra le pause dei combattimenti (basti pensare ad Ungaretti), la verità che si sprigiona dalle lettere sgrammaticate ai parenti e amici, dalle poesie e dalle canzoni dei soldati semplici, scavalca in un’istante, fulminea e lancinante, ogni estetismo o possibile retorica. L’individuo, in questi testi, si ritrova da solo, travolto senza scampo dall’assurdo e dall’orrore, in uno spazio di silenzio ultimo, combaciante con la morte, in cui l’unico sostegno - bruciato ogni ideale - rimane il pensiero dei propri cari a casa, la vita semplice, immemoriale di ogni giorno. Ed è forse in queste testimonianze, paradossalmente più che nei testi dei letterati che si trovavano a vivere quel momento, che si tramanda inconsapevolmente il messaggio del Leopardi nella Ginestra: Di fronte all’orrore “della secreta notte” che arriva nessuna “superba fola” può reggere; non rimane, allora, che la comune, nuda condivisione di questo “solido nulla” in cui siamo immersi. “La vita” scriveva uno di questi soldati “ va di un momento all’altro come essere nelle agonie”. Ma è da qui, dal fango e dal gelo delle trincee, accettando la propria umanità continuamente minacciata, in continua trasformazione, afferrabile, squarciato il velo delle illusioni dalla terribilità degli eventi, che la voce torna a ripresentarsi più che altrove con il suo carico, insostenibilmente doloroso e vero, di poesia. Una poesia inscritta nel corpo ferito dell’esistenza che si incarna in questi individui gravati dal silenzio, millenario, delle generazioni anonime che li hanno preceduti. Un silenzio che si insinua ostacolando anche, nei loro testi, l’emersione stessa delle parole, balbettate più che scritte, come in un addio alla vita in cui, chi le pronuncia, è già assorbito oltre se stesso; che ne intride le sonorità aspre, dirette; ma, al tempo stesso, conferisce loro un’autenticità ignota, spesso, a chi la vita crede di poterla già dominare, incanalarne il caos nella forma definitiva della scrittura.
A questo versante nascosto della nostra storia, da sempre quasi del tutto ignorato anche perché in fondo scandaloso, scomodo nel suo disvelamento dell’inconsistenza e della cecità di ogni atteggiamento celebrativo nei confronti della guerra, appartiene anche una serie di canzoni, poesie, lettere e diari di soldati o anche semplici contadini bisiachi del monfalconese, molti dei quali dovettero combattere nei reggimenti austriaci o che, come Giovanni Rusig, soprannominato Tita Adan, trascorsero una lunga e terribile prigionia tra i fuggiaschi nel campo di Wagna, in Austria. Il suo diario, ritrovato per caso alcuni anni fa, è forse uno dei testi più toccanti e veri in cui mi sia mai imbattuto. Adan rievoca con commozione il suo amato paese di Begliano, comparando la vita trascorsa nei campi con quella presente, che egli chiama con una forza visionaria jacoponiana “guesto martirio fulminante”. La fame, la paura, la descrizione di un’esistenza vissuta ai limiti estremi delle possibilità umane, sono raccontate con un realismo impressionante. Al tempo stesso, però, da queste pagine affiora anche una percezione arcaica di una natura sentita come una presenza rassicurante, regolata da ritmi ordinati, nel cui respiro trovare riparo dai disastri e dalla follia della storia. Un senso sacrale della realtà di tipo ancora animistico, scomparso con i vecchi contadini, che nulla a che spartire con il nostro modo di sentire - venato di spesso superficiale ecologismo - le cose che ci circondano. Così, mentre si profondeva in un saluto alla terra che risorgeva, poche righe più in basso, verso le ultime pagine, quando la condanna della guerra diventa definitiva, annotava:

(...) Chissa
in guesto ano guanti patimenti che
dovrò patire? Chissà se vivrò
fina il termine dell’anno?
Si spetta sempre na fine e non
si vede mai. Ah! Stati cosa pensate
dei vostri popoli tutti straziati
nel dolore e nei tormenti
Pensate anche voi altri di por fine
a questo flagello chel momento
se gia passato per tutti e pazienza
non è più. Quaranta lunghi mesi
di guerra saria ora
di terminarla. Aspettiamo
tutti dall’intimo del cuore. Salve
Werndorf li 3 otobre 1917 Giovanni Rusig

In una vecchia casa di Pieris invece abitano ancora, da sole, le due anziane figlie di Antonio Colobig, detto “Pacifico”. Avevano un panificio, un tempo, e le stanze della casa, come per un abitudine mai smessa, profumano verso l’ora di pranzo sempre di pane, un pane come rararamente ne ho assagiati. Alla timidezza dell’una fa da contrasto la vivacità e l’irruenza dell’altra, divisa tra il discorso e i “cossa pianzeto!”, “cosa ti lamenti!”, rivolti in antico bisiàc al loro agitatissimo cane. Conservano, di loro padre, un quaderno manoscritto che raccoglie anche alcune canzoni in italiano, del 1904. La bella calligrafia, in lapis, è a tratti scomparsa, la carta, come la casa, ha l’odore di un tempo rimasto fermo ai margini della storia. Tra le altre cose meno importanti, trovo una specie di sgangherata poesia intitolata “La vita militar”. Racconta, in forma burlesca anche se molto sincera e rivelatrice, del durissimo servizio di leva militare sotto L’Impero Austrungarico, che per la marina durava quattro anni. Si tratta un documento per molti versi importante perché, al di là del pur limitato valore letterario della composizione, ci presenta la vita militare vista dalla parte degli umili, di chi, in fondo, questa vita la subiva come una sorta di punizione incomprensibile che strappava l’individuo dalla vita di ogni giorno, dagli affetti, dal proprio lavoro. Non c’è, quindi, alcuna esaltazione della guerra o ombra di retorica: ma, piuttosto, la contrapposizione fra un’umanità semplice, viva e reale, ed un mondo rigido, assurdo e implacabile, che parla una lingua lontana e straniera. E dunque, nascosto dietro un velo di apparente buonumore - attraverso cui chi è vittima, e vittima è destinato a rimanere, dimostra nella sua aderenza al vero la propria superiorità - una denuncia implacabile.
All’interno della poesia - un miscuglio tra bisiàc e un italiano incerto - sono inserite alcune parole e versi in austriaco, che rimandano ad ordini impartiti o a gradi della gerarchia militare. Verso la fine del testo viene nominato il “Mark Hotel”, che si riferisce alla prigione militare del luogo, a cui erano destinati i militari non ligi ai comandi, che venivano perciò chiamati “marchetti”.

Maledetta sia la sveglia
sia la sveglia del mattino
si riposa un pochettino
per marciare un poc più ben.
Se qualchidun no marciaria
o marciassi malamente
ghe diremo al sior tenente
che rapporto’l ghe farà.

Qua se magna, qua se beve
qua se lava la gaméla,
Zigaremo <>
fin che l’ultimo sarà.
Se no basta demoghèla
zigaremo ghe la demo
zigaremo ghe la demo
fin che l’ultimo sarà!


Alla poesia fa seguito una lettera, illeggibile in qualche punto, sempre di Antonio Colobig, che ci introduce nel clima tragico della Prima Guerra Mondiale. L’autore, di stanza da più di tre anni a Pola, scrive all’amico Ginetti Bean, anch’egli militare ed abitante a San Canzian d’Isonzo ( o meglio, come ricorda in chiusura, a Stodéns). La lettera fu scritta subito dopo la disfatta delle truppe italiane a Caporetto (avvenuta il 24 ottobre). Vi traspare perciò, la speranza che la guerra finisca presto con la ritirata degli italiani ( soprannominati “pigne” perché portavano la frangia sulla fronte), e di poter così tornare presto a casa. In chiave ironica ma anche preoccupata, per scaramanzia, è presente il timore delle conseguenze indirette dell’occupazione italiana nei paesi abbandonati dagli uomini: il tradimento delle mogli, la nascita di figli illegittimi, il disfacimento della famiglia. Subito dopo, però, ritorna il tono più sereno di chi si sente già a casa, a godersi i buoni piatti locali e la tranquillità della vita paesana. Si tratta di una lettera anche questa particolarmente significativa, perché documenta perfettamente il clima del tempo come era vissuto dall’autore e, di riflesso, come lo vivevano le nostre genti calate in questi avvenimenti, e anche perché nel testo compaiono - molto più ancora che nella poesia - molti termini e antichi modi di dire schiettamente bisiachi.



La vita militar

Un giorno che era festa
E non sapendo cossa far
Mi venne nella testa
Di scrivere la vita militar

Son molti versi in rima
Ma ho scielto i più belli
Che per dirvela in orecchie
Cosa è la marina

Co semo in caserma
Femo come l’infanteria
Manovra scola e scherma
Guardia e pulizia

Appena spunta il giorno
Con un tiro di cannone
E con un segnal di corno
I ne sveglia del paione

Nemmeno ben vestiti
I chiama per caffé
E se presto no se corri
I rispondi più no xe

El caffé xe ecelente
A quel’óra xe un bonbón
Ma più giorni no ’l val gnente
Nanche un patacón

E dopo un poco i ciama
“Andret mit ghevchr”
Ancora mezzi indormenzadi
Far tutto questo xe dovér

Se va abbasso là in piazzal
Un per de orette a manovrar
E poi se va in caserma
Per i fucili ben nettar

Neanche ben nettai
per la guardia semo destinai
E noi poveri marineri
Così passemo la matina

La xe una disciplina
Assai più mal de casa
Ma intanto si avvicina
L’ora de la manasa

Con quel buon appetito
Da veri commedianti
Per questa bella partita
Pronti come elefanti

La manasa i porta su
Non pesa cosa cosa granda
Ma nanche no xe più
Quella pisciona de bevanda

Brodo gnochi e carne lessa
Sempre pasti variabili
Ma noi solo ne interessa
che i sia grandi e saziabili

Certi domanda risi
se ghe xe un poco ancora
El cogo se rabia e ’l disi
No xe più va in malora

El “tag sarse” se rabbia
El disi fé presto magnar
Che abbasso già la guardia
Se senti a ciamar

Se comincia indossar
Giberna e munizión
Poi se va a passar
In piazza la revisión

Insomma poveri marineri
D’istà e ancor d’inverno
Pensando ai fogoleri
Che a casa xe nell’interno

Per esempio a Vallebimga
che de guardia se va là
La xe una troppo lónga
per un povero soldà

In quel bosco solitario
Che non entra nanche vento
Xe come un santuario
Chiuso come un convento

Il magazìn numero sette
Che xe sotto guardia dura
Che per quelle due orette
Se ciapa più d’una paura

Ogni quarto d’óra
per non restar indormenzà
Se devi a squarciagola
Zigar forte “Alt ver dà”

Co xe vento in quel boschetto
Qualche fòia la camina
E quel povero che xe al posto
Ghe par zà che sìa una mina

Co se ga fatto due ore de posto
Invece de andar dormir
Tocca far due ore de aviso posto
Ancora per soffrir

Dopo terminà ste quattro ore
Se va per riposar
Ma la panza no permetti
La domanda de magnar

Par contentar la panza
Spesso anche ne toca
Con grandissima creanza
Inpinirla de pagnocca

La sede poi tormenta
E sbrondóla le budella
Con magnifica eloquenza
Zò de acqua una camela

E così se la passemo
In guardia qua e là
ma per l’altro noi gavemo
Miseria in quantità

Se qualche povaretto
Sul posto fa la spavada
Due o tre mesi de marchetto
I paga ben salada

Per andar fra quelle mura
De marco ostel grande
Fa una certa paura
De farsela in mutande


La vita militare Durante un giorno di festa / Non sapendo cosa fare / Mi venne in mente / Di descrivere la vita militare // Sono molti versi in rima / Ma ho scelto i più belli / Per farvi intender chiaramente / Che cos’è la marina // Quando siamo in caserma / Facciamo come in fanteria / Manovre scuola e scherma / Guardia e pulizia // Appena spunta il giorno / Con un tiro di cannone / Ci buttano giù dal letto // Nemmeno ben vestiti / Ci chiamano per il caffé / E se presto non si corre / Rispondono che più non c’è // Il caffé è eccellente / A quell’ora è una chicca / Ma preso per più giorni vale / meno di una patacca // E dopo un poco ci chiamano / “Andret mit ghevchr” / Ancora mezzi addormentati / Far tutto questo è un dover // Si va giù in piazzale / Per un paio d’ore a far manovre / E poi si torna in caserma / Per i fucili ben lustrare // Nemmeno finito del tutto di pulirli / Siamo destinati alla guardia / E noi poveri marinai / Così trascorriamo la mattina // E’ una disciplina / Assai più dura che a casa / Ma intanto si avvicina / L’ora del rancio // Con quel buon appetito / Da veri commedianti / Per questa bella partita / Pronti come elefanti // Portano su il rancio / Che non pesa chissaché / Ma almeno non c’è più / quella pisciona di bevanda // Brodo gnocchi e carne lessa / Sempre pasti variabili / Ma a noi soltanto ci interessa / che siano abbondanti e capaci di saziare // Alcuni domandano del riso / se ve ne sia ancora un poco / Il cuoco si infuria e dice / è finito, andate a quel paese! // “Il tag sarse” si arrabbia / E dice finite presto di mangiare / Che giù ormai Si comincia ad indossare / Giberna e munizioni / Poi si va / In piazza per l’ispezione // Insomma poveri marinai / D’estate e ancora d’inverno / Pensando ai focolari / nell’interno delle case // Per esempio a Vallebimga / Far la guardia là / dura troppo a lungo / per un povero soldato // In quel bosco solitario / dove non entra nemmeno il vento / Pare di essere in un santuario / Chiuso come un convento // IL magazzino numero sette / che è sempre sotto guardia dura / Che per quelle due orette / Si prende più d’un spavento // Ogni quarto d’ora / Per non cadere addormentato / Si deve a squarciagola / Gridare forte “Alt ver dà” // Quando c’è vento in quel boschetto / Si muove qualche foglia / E quel poveretto che sta al posto di guardia / gli sembra già che ci sia una mina // Quando si sono fatte due ore di guardia / tocca farne altre due / ancora per soffrire // Al termine di queste quattro ore / Si va a riposare / Ma lo stomaco non permette / Domanda da mangiare // Per accontentarlo / spesso anche ci tocca / riempirlo con una pagnotta // La sete poi tormenta / e gorgogliano le budella / Con magnifica eloquenza / Si butta giù una gamella d’acqua // E così ce la passiamo / Facendo la guardia di qua e di là / Ma per il resto non abbiamo altro / Che miseria in quantità // Se poi qualche poveretto / sul posto di guardia s’addormenta / Passa due o tre mesi da “marchetto” / pagandola salata // Tra quelle mura andando del “Mark Hotel” / si ha paura / di farsela nelle mutande



Pola, 29 ottobre 1917
Carissimo Ginetti.

Eccomi pronto a risponderti alla tua cara lettera d.d 25-10-17 (...) sono già da tre settimane che soffro dolori alla schiena e la gamba sinistra, e l’avrò lunga, perché dei reumatismi non si guarisce tanto facile (...) dopo il cattivo tempo è necessario che venga anche il buono: e verrà si spera.
Tu mi scrivi che hai fame, ma io in quanto a quella credo che ti supero; almeno tu che lavori e avrai anche paga credo e puoi comperarti frutta come mi scrivi, o pane, o vino o altro, ma io con 12 corone dico dodici corone al mese ti lascio pensare a te cosa che posso comperare passarette e gnient’altro, per fumare tu trovi sigarette a otto centesimi oppure fai come Franckhi chinatevi ma qui non si trova nemmeno chinandosi, frutta qualche volta sono in piazza ma io sono distante più d’un ora e poi non arrivo, pomi a una corona al Kg. e più volte chi va in fila e sta tre ore poi quando crede d’essere arrivato non sono più e via a bocca assiutta, e poi tutto non si può scrivere, se un giorno “e forse verrà” si troveremo alle nostre case avremo assai cose da raccontare e d’ascoltare sotto qualche “napa”.
Della morte del tuo povero vecchio mi ha fatto sapere mio cognato Cristian, mi dispiace tanto e l’ho sempre in mente come che sarebbe stato uno della mia famiglia, ma che vuoi fare coraggio e sarà quel che sarà.
Sono persuaso che le nostre famiglie sono alle loro case e che stanno bene meglio di noi; e spero “seccondo le notizie che si sentono oggi” in breve tempo di aver notizie direttamente dal nostro paese, le pigne sono già abbasso dei monti e anche di là dell’aga.
Se i nostri vanno così avanti spero in breve d’andar a casa in permesso, che consolazion sarebbe dopo trentanove mesi poter abbraciare la famiglia e veder le nostre case e le belle campagne forse verrà! ma trovando uno de più in famea come tu mi hai scritto che sono diversi a Pieris di più per virtù del cucusia allora radighi, no saria altro che buttar tala montana vacca e videl oppure bandonar zuz e vergoni e chi ga vù, ga vù, ma spero che questo non troveremo: troveremo invece fasoi e purzita e pan misturà vin bon in quantità polenta e brodet de raza, sguazzet de bisat, zieuli fritti sulle gardelle, e in tecia roste le martondelle, risotto coi macaroni oh che boni ecc. ecc. de notte dormir sulle suste e... revoltarse oh che bel, de giorno dalla cantina sotto la napa cul bucal ma de vin, fora no sarà affari de andar parché no conossaremo più nissun come ghetta. Dunque coraggio ancora sto resto varda de guantar duro là che te sè, parché più che se la missia e più la spuzza, mi dopo che son dentro son sempre qua lavoro de murador quasi senpre ma spero che qua resterò fin a guera finida.
Dei nostri patrioti qua ghe ne se assai pochi e li vedo poche volte, se Beppi Adanel el se za un anno chel lavora in arsenal in zivil, Beppi Cargnel come mi ma in zittà, me cugnà Sardon se in caserma de marina el fa guardia, e go savesto che se anca Minetti ostreghetta ma no lo go mai visto, ma appena che passo vado veder se lo trovo e lo saludo per ti. Mi go più bone speranze de ti per andar casa o del disdotto o mai, cossa te par!
Finisso el quadrel del stodens augurandote ogni ben e saludandote caramente segnandomi l’aff. mo amico

Pacifico

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