Agosto 2008. Di fronte all'immensità azzurra del golfo, a Sistiana, lungo la strada che sovrasta la Costa dei Barbari, si è spento mercoledì scorso, in un incidente d'auto, Tino Sangiglio, professore all'Ateneo di Trieste e neogrecista di ampia notorietà. Un luogo, con le sue bianche pietre dilavate a picco sul mare, un nome che non possono non far venir in mente, per una misteriosa catena di sottili rimandi, quella Grecia e quei poeti che sono stati di quella terra fino ai tempi moderni la limpida problematica voce - primo fra tutti Kavafis - ma anche Seferis, Elitis, Ritsos, Vassilihòv. Poeti, questi ultimi, che Sangiglio ebbe anche modo di conoscere e di tradurre, spesso per la prima volta, in italiano. Nato a Salonicco nel 1937, Tino - perfetto conoscitore della lingua d'Omero come di quella di Dante - faceva parte della comunità greca di Trieste, che lo ha sempre sostenuto nel suo sforzo di far conoscere l'opera di questi grandi poeti, spesso proposti in versioni non prive di errori. Errori che non potevano sfuggire ad un occhio e ad un orecchio attento come il suo. Mi raccontava, ad esempio, un giorno, che molti traduttori di Kavafis, per quanto validi, più volte avevano tradotto in modo scorretto alcuni termini presenti nelle poesie di questo poeta. Perchè? Perchè Kavafis amava incastonare nei suoi versi, come gemme rare, termini derivati dal greco popolare, spesso nati dall'incontro con il mondo turco, ma ormai da decenni scomparsi dall'uso. Tino, invece, questi termini aveva avuto la fortuna di udirli in casa sua, dalla madre, che parlava ancora un greco molto simile a quello impiegato da Kavafis ad Alessandria. Questa sua straordinaria conoscenza di quello che è stato uno dei più grandi poeti di ogni tempo, indusse l'editore Passigli ad affidargli, qualche anno fa, la traduzione dell'opera completa di questo autore.
Un altro lavoro estrememente importante di Tino, pubblicato una decina d'anni orsono, è stata anche la pubblicazione di un'opera inedita di Baudelaire. E non è forse solo un caso che proprio a Trieste, città che per prima in Italia - attraverso la presenza di Joyce e della psicanalisi - avvertì la dissoluzione di ogni certezza e la frammentarietà drammatica di ogni esperienza, in questo estremo crocevia orientale di identità destinate a fondersi, scontrarsi e, spesso, anche a smarrirsi, che proprio a Trieste, come dicevo, si pubblichi per la prima volta l’edizione più completa di un’opera che, forse più di ogni altra, è da ritenersi la precorritrice più antica e acuta di questa crisi, quel Pauvre Belgique! scritto nell’ultima, atroce fase della sua esistenza da Charles Baudelaire.
“Le paysage, noir” difatti, una delle tante cupe definizioni di quelle terre condensa, più di ogni altra, lo spirito con cui il poeta - sempre più solo, ammalato ed incompreso - guardava alle cose che lo circondavano poco prima di morire, rientrato a Parigi, a soli 46 anni.
Questa edizione viene a colmare un vuoto per molti versi inspiegabile nel campo dell’editoria italiana, se anche nei Meridiani mondadoriani quest’opera non compare neppure in selezione antologica. Vi sono state nel tempo alcune - anche molto pregevoli - edizioni in cui comparivano brani di questo lavoro; ma il libro pubblicato dall’Istituto Giuliano di Storia, Cultura e Documentazione (curato dall’insigne traduttore dei massimi poeti greci contemporanei nonché profondo conoscitore della cultura francese Tino Sangiglio), appare da subito come uno strumento indispensabile per chi voglia immaginare quali potessero essere gli sviluppi vertiginosi - e purtroppo precocemente stroncati - del pensiero baudelariano. Pauvre belgique!, com’è ben spiegato nella lunga ed illuminante prefazione, non è opera da minimizzare, presentando ad un’attenta analisi “nascosti e sensazionali segnali”. Attraverso il frammento, una scrittura ondivaga, fatta come di bagliori rapidi e abbaglianti, Baudelaire tenta di affrontare il nuvo mondo “senza capo né coda” che vede sorgere davanti a sé. Il poeta francese comprende, in anticipo su Rimbaud e Nietzche, che la realtà non è più inquadrabile in una rappresentazione unitaria e organica e che soltanto il frammento, “un frammento del mondo vero” come avrebbe detto Benjamin, può evocarla, fissarne senza imprigionarli in fissi schemi mortuari i lineamenti in fuga. La totalità non è dunque che l’insieme di miriadi di frammenti tra loro interscambiabili, sovrapponibili, continuamente modificati dalle circostanze, e quindi sempre al di là di ogni tentativo di definirla. L’opera assoluta, a cui Baudelaire tendeva nei suoi ultimi anni, non poteva essere - forse - che un altrettanto indefinibile intersecarsi di annotazioni, confessioni strazianti, denunce ed osservazioni in cui la realtà, come entro una sua pulviscolare immagine riflessa, potesse riconoscersi. Pauvre belgique!, come del resto tutti i suoi estremi pezzi in prosa, anticipa in questo modo - con lucidità sconcertante - l’insorgere di un nuovo sentimento del tempo, di un “tempo reale” capace di opporsi - sempre secondo un’intuizione di Benjamin - alla vuota successione cronologica del “rosario dei fatti”.
Come nel cinema di un grande regista contemporaneo, Peter Greenaway, la lettura di un evento non è più univoca, unidirezionale, ma nasce dalla percezione simultanea di tanti diversi eventi, più o meno significativi, eppure tutti ugualmente concorrenti, in modo palese o inconscio, a raffigurare l’idea che l’autore si era prefissato di ottenere. Il senso si sviluppa dunque, di volta in volta, dall’accostamento di elementi diversi; elementi che pur rimanendo gli stessi potrebbero, cambiati di posto, esprimere significati ed emozioni completamente diverse. Il valore di questa interscambiabilità (lo testimoniano le lettere citate) era ben chiaro a Baudelaire - con i suoi rischi enormi e le sue promesse - tanto che in questa possibilità creativa intravvide la chiave per rivoluzionare il suo ed ogni altro linguaggio fino ad allora esistente. A partire dalla poesia ( o forse da una certa concezione della poesia), non a caso lasciata in disparte nei suoi ultimi anni.
Di questo folgorante progetto non rimangono altro che poche - ma decisive - tracce: oltre a Pauvre Belgique!, Fusées, lo straordinario Mon coeur mis à nu e Igiène. Ma dalle decostruzioni cubiste fino al caotico, quasi illeggibile intersecarsi di suoni e immagini dei videoclip musicali, qui, forse meglio che altrove, in queste crude e veritiere tracce la modernità potrà riconoscere gli inizi problematici del suo cammino.
(Ivan Crico)
Charles Baudelaire, a cura di Tino Sangiglio con testo originale a fronte, Istituto Giuliano di Storia, Cultura e Documentazione 1999, pp. 131, L. 10.000
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