martedì 7 ottobre 2008

Gianfranco Scialino e Pavle Merkù su "De arzent zu"


Nella foto: Pavle merkù


Prefazione e postfazione di Gianfranco Scialino e Pavle Merkù sul libro di poesie in tergestino "De Arzent zu" di Ivan Crico


La lingua che i poeti si fingono e modellano è sempre inaudita e come tale stupisce, sollecitando emozioni nuove, e dissolve confini, aprendo orizzonti impensati a ogni intelligenza sensibile all'avventuroso mistero del vivere.
Presente o ritrovata, inseguita o attesa al varco dal poeta, costruita con assidua dedizione o ricevuta intera inaspettatamente in dono da una nascosta divinità che "ditta dentro" imperiosa, essa è linfa e respiro, cifra e sostanza di ogni pagina poetica. Il poeta cerca con cuore presago la materia atta ad essere forma della sua misura e della sua voce e quando con onestà l'ha riconosciuta può essere certo che in essa, dopo il tormento, riposerà. La lingua dei poeti può essere quella di tutti, ma diviene subito altra, diversa, inconfondibile. Può essere morta, dimenticata, lontana e desueta, ma diviene subito universale, comprensibile, condivisa.
Quest'ultimo è il sortilegio che si compie con le liriche di Ivan Crico costituenti la raccolta De arzènt zù (D'argento scomparso). L'autore riprende un antico dialetto dell'area ladina, del quale dice di avere subito la fascinazione, leggendo e rileggendo il libretto dell'abate Mainati I dialoghi piacevoli in dialetto tergestino.
Si tratta di un idioma perdutosi da almeno due secoli e mezzo, parlato a Trieste nel segno di una continuità linguistica che legava il Friuli a parte dell'Istria, lungo un ponte del quale i cariati piloni si riconoscono ancora oggi nel bisiàc e nel muglisano. Esso appare nobile, solenne, parsimonioso nel suo lessico eppure totalmente esaustivo a fronte dei moti dell'animo e dei movimenti del pensiero, ricco di armonici gravi e sapido di esperienza materiale e morale, prerogativa della gente di mare e di monte che lo usava nella sua quotidianità operosa e concreta. Una arcaicità non sterilmente filologica e lessicografica, ma coincidente quasi con una appropriazione dell'essenza delle cose, promana da voci come aulìu (ulivi), fok (fuoco), talpòm (pioppo), riòse (rose), zesendèi (lampade), chièba (gabbia), calùsa (cisterna), aurègla (orecchio). Le desinenze verbali tronche e perentorie sostengono robustamente il discorso e gli conferiscono una patriarcale fermezza: fauèlem (parlano), tegneuèm (tenevamo), àm lassà (abbiamo lasciato), au sauèst (ha saputo); altre desinenze, come quelle dell'imperfetto, nell'indugio del trascinamento vocalico suggeriscono l'idea di una persistenza illimitata, favolosa, dei fenomeni e delle azioni: ciolèua (prendeva), butèua drènto (collocava), inuochèua (invocavano).
Crico ha sentito il tergestino come il mezzo che gli avrebbe permesso di entrare nei sedimenti del passato, ripristinando un rapporto profondo con la comunità, con il paesaggio, rompendo la crosta di un presente reso banale da un affastellarsi frenetico e incongruo di fatti e appiattito da una comunicazione veicolata in una lingua lisa e frettolosa; ha capito che per suo tramite avrebbe potuto intrecciare nostalgie e delusioni, dire dei morti e dei vivi, confessare i suoi mancamenti di uomo che si misura con il nulla e con il vuoto, sottesi all'esistere, e farlo con un rigore e con una dolcezza mai prima sperimentati.
Ivan Crico si muove in consonanza con alcuni grandi poeti del Novecento che hanno avvertito la necessità di ritagliarsi o di farsi o di andare a raccogliere una lingua che nella sua estrema particolarità consentisse loro di sentirsi pienamente integrati con l'universo interiore ed esteriore che volevano rendere e che apparisse quale verbo originario e costitutivo dell'essere: così il friulano rustico e calligrafico di Pier Paolo Pasolini, il gradese mondato e melodico di Biagio Marin, così il petèl, infantile balbettio, e il veneto di nicchia solighese dei filò di Andrea Zanzotto.
Fernando Bandini indica in questo modo la fonte alla quale attinge, quando tocca la sua corda più segreta e domestica:"Sta lingua la xe quela / che doprava me nona stanote / vardandome da dentro la soàsa". Ivan Crico procede oltre: con i testi in tergestino diventa un esploratore del sottosuolo del dialetto, potenziando di riflesso il valore di difesa dalle spersonalizzazioni, di argine alle omologazioni che la scrittura poetica nei più disparati dialetti ha ormai storicamente assunto nella letteratura italiana contemporanea. Le parole ricondotte alla luce, non più fioche per secolare silenzio, tornate reattive in un parlante vivo, danno contorni certi alle perplessità della coscienza, raccolgono nel loro guscio i movimenti della vita interiore, dichiarandosi insieme vetuste e attuali, preziose come tesori dissepolti e fresche e trepide nel tracciare il diagramma tutto moderno dell'inquietudine e dello spaesamento.
Queste convivenze e connivenze di senso si rendono riconoscibili in certi nodi ossimorici che congiungono assenza a presenza, fissità a moto, uniscono chiarore e tenebra, memoria e oblio, vuoi nell'articolazione di un'intera lirica, si veda l'efficace intarsio di Aurìl (Aprile), oppure nel ricorrente tema bifronte dell'acqua, cedimento al divenire e alla sparizione, e del fuoco, gesto affermativo, ribellione all'enorme scialo che dei viventi si compie in natura:

No fauelaràsto cussì, se par uèr
cognossaràsto fìntanemài dola
ch’el rìua a implantàlo in tòl cor
de àga dei dì el fok. Squasi
duta l’aulìa ciàze per tiàra prima
che la se madurìss.

(Non parleresti così, se veramente / conoscessi fin dove arriva / a piantarlo nel cuore / d'acqua dei giorni il fuoco. Quasi / tutte le olive cadono a terra prima / ancora di maturare.)
In questo piccolo canzoniere l'attitudine dominante è quella dell'andare; figura riassuntiva è il transito per trite vie, lungo sentieri, rasente edifici, verso i rilievi che contornano il microcosmo dove si giocano i destini delle persone, incontro a luoghi diroccati e di macerie, per viali fioriti o per moli di pietra all'impatto con il bianco mare di schiume o nero di naufragio, oltre la dogana infine, estrema barriera, anzi varco a una plaga cimiteriale, incerta di oscurità, promemoria della necessaria sparizione. Si succedono gli attacchi che sono invito a sondare insieme il tangibile e l'inafferrabile della vita: "Dopo se tirèua sù riènt la muràja / de la zità in tòl gniènt lizièr de l'aria" (Poi si proseguiva costeggiando la muraglia / della città nel niente leggero dell'aria); "E po sùbit se uoltèua, e se zièua / a traze in cianòua" ( E poi subito si girava, e si andava / a prendere il vino nella cantina); "Uà la zò per chel troz. Ciataràsto / plena la calùsa" (Scendi per quel sentiero. Troverai / la cisterna colma d'acqua); "L'ham trasportada dola che aimò ghe dìsem / la duàna uècia" (L'hanno portata da quelle parti che chiamavano / della dogana vecchia); "Uegnarài ància mì. Atòr sora el ciàf / el sègn gruèss de tiemp ciatìui" (Verrò anch'io. Attorno sopra il capo / il segno forte di tempi cattivi). La meta dunque, oltre le illusioni che inducono a perpetuare l'attaccamento alle passioni e ai luoghi familiari, è il non luogo degli occultamenti irreparabili, la grande faglia del nulla, dove tutte le forme dell'esistente ricadono, dopo di esserne uscite: "Ma inlò no xe nissùm mont, arboi / dolache per l'òglo ciatà repòs" (Ma là non c'è nessun monte, alberi / dove per l'occhio trovare riposo).
Più si affina la coscienza e più con evidenza maggiore essa riconosce che il nucleo essenziale della saggezza sta nel rilevare, accettandolo con fermezza, il proprio distacco dal mondo,"leuarse e sauerse aimò uìa" (svegliarsi e sapersi già via), ovvero nel protrarre fino all'esaurimento l'alterno alterno di immergersi ora nell'impasto della storia, ora di sporgersi sul vuoto semenzaio del tempo e delle stagioni, per poi sprofondarvi, procedendo, di distacco in distacco, mentre sempre più da lontano mandano segnali le miti e mute presenze del paesaggio e le tumultuanti azioni da cui germogliano i vincoli umani.
Eppure la vita che ci possiede, annota Crico, insiste a tenerci legati a sé, pungolati e scossi dalla legge immutabile e impassibile delle trasformazioni, il cui frantoio non basta ad annullarci, perché il nostro sangue contiene la speranza:
’Suòla
la fàuz del sol imfrà lis jàrbis, ciàze contra
la scuàrza negra de lis zarièsis mastruzàdis.
Le imprònte dei dì che a sònem in tòla mèja
presènzia che deuènta intòl uod ram nòu.

(Vola / la falce del sole tra le erbe, cade contro / la scorza nera delle ciliegie infrante. / Le orme dei giorni nella mia presenza / che diventa nel vuoto ramo nuovo.)
L'amore mai spento per la vita, sempre incompiuta e irrisolta, genera nel poeta il desiderio irrealizzabile di possederla tutta, almeno attraverso la contemplazione e il canto. Egli cerca i segni di vissuti ancestrali e incalza i vissuti personali, graffiti su edifici in rovina, come la casa del mulino: "Jera in mez de lis campàgnis. / Ariènt passèua um àga clara, senza / record" (Si trovava in mezzo ai campi. / Accanto passava un'acqua chiara, senza / ricordi), o dipinti su dilavati affreschi di volte franate: "El pinel sutil còlis man / di chèl che lo tegnèuem l'au lassà de cui / sàu quanti aign i mur, la pièra che intrèja / de inlà fima chi la tem el sòuo uède" (Il pennello sottile assieme alle mani / di chi lo teneva ha abbandonato da chi / sa quanti anni i muri, la pietra che intera / da allora fin qui trattiene il suo sguardo).
Crico rappresenta dall'interno del suo esplicarsi, come energia testarda e strapotente, il rifiorente gettito della natura: "le paràulis che fauèlem li auzièi / le da segn de l'arìu, incalmàde de la nòua / stajòm imfrà el cacabùs auàr, de jàrbis / zòuem de aurìl..." ( le parole che dicono gli uccelli / annunciano l'arrivo, innestate dalla nuova / stagione tra l'argilla avara, delle erbe / giovani d'aprile).
Intanto fervono indefettibili le opere degli uomini, votate a decadere via via in altri frantumi, macinati e setacciati dai secoli, dai millenni, per diventare strato di reliquie sulle quali futuri viventi si chineranno attratti forse da curiosa solidale pietà:

Uàrla inlò in tiàra, dauànt l'ultima
ciàsa de chelis dola che una uolta
in tol uod l'umièr col sòuo pùngol
al butèua drènto òu de fred, la fuèja
muarta, la scuàrza che aimò la se fau
plùi scura, e fora de chei tai el uem
un sug fis de dì che no se ued.

(Vedi là in terra, davanti all'ultima / casa di quelle dove un tempo / nel vuoto l'inverno col suo aculeo / deponeva uova di gelo, le foglie / morte, la scorza che ora / si scurisce, e fuori da quei tagli fuoriuscire / un umore denso di giorni che si tenevano nascosti.)
Il chiarore di un giorno qualunque può inatteso illuminare un itinerario nel quale, a seguirlo, un provvido filo d'Arianna memoriale ci guida fino alle soglie di una rivelazione o di un appagante recupero. Ci investe allora come un empito di grazia che riordina il passato e disegna coordinate buone per il presente, per poco certamente, ma basta per protrarre la resistenza nel viaggio. La porta sbarrata in fondo ci esclude da ciò che è ipotizzabile come verità conclusiva, ma anche ci protegge dal vuoto abissale, infinito che sicuramente le vaneggia dietro: "Inlò lontam brusèm fiùris / mastruzadis de memoria. Stradis / che no se arìua mai." ( Là lontane bruciano figure / morte di memoria. Strade che non si arriva mai).
Ciò che è stato si riduce comunque a scricchiolare sotto i nostri piedi, decaduto e inerte: "Àu batù tant tièmp la puàrta. La rosàda / imbriajèua la poluèr muàrta dei salìz." (Ho bussato tanto alla porta. La rugiada ubriacava la polvere morta dei selciati). Alla sua mineralizzazione inutilmente si oppone la fresca carezza della memoria, conforto e pietà.
La continuità tra le epoche e le stirpi è per immagine archetipica offerta dall'albero, abbrancato al suolo, aperto ai venti e al cielo con la ventura annuale delle sue foglie. L'albero sradicato è per converso figurazione di un dolore, di una strappo innaturale, di una violenza, di un oblio aggressivo e irriconoscente verso il positivo e il bene. Per ben tre volte con forte evidenza Crico rappresenta il trauma dello sradicamento. Un boschetto di noci, intensamente indicato come altare e tempio, "um autàr àut de nojàris", ha lasciato il posto a un lastricato di piazza, a fabbriche e teatri: l'atto denunciato si rende corrispettivo, senza inutili proteste, del pragmatico nichilismo della civiltà attuale che dovunque su scala planetaria non può manifestarsi se non infrangendo il primordiale sacro vincolo e rispetto che sottometteva l'uomo alla natura.
Un frutteto generoso, "che àm ciauà fora", non elargisce più ristori nelle calure agostane: la sua scomparsa esprime il farsi buio dei ricordi, il sogno vano di trattenere quel vano sogno che si chiama età illusa giovanile o semplicemente passato, più o meno profondo, disceso fra gli strati sotterranei in cui si depone continuamente come cenere e concrezione. Un pioppo alto e dalle foglie tremule di luce non assolve più alla sua funzione di punto di riferimento:
Quand l'am leuà uìa, splanà subìt
dal sou liòk dolache el jera àut
el talpòm, m'ai pensà de lis tòue
paràulis, de ze che m'asto dita
sol el di prima passant ariènt
del arzènt rouiàrs de lis fòiis.

(Quando l'hanno levato via, spianato subito / dal luogo dove si trovava alto / il pioppo, ho ripensato alle tue / parole, a ciò che mi avevi detto / solo il giorno prima passando vicino / all'argento rovesciato delle sue foglie.)
Il talpòm appariva come il garante dei patti solidali tra gli uomini, anzi lo era. Ora che è scalzato sembra che vacillino fin le prime amicizie e che salti il pacifico dialogo tra i gruppi e le generazioni. Per ricucirlo servono messaggi schietti, fatti di parole che rifuggano dalle contorsioni utili solo a chi finge o non ha nulla da trasmettere: quelle antiche invece che abbiamo ascoltato posseggono una autenticità corposa e trasparente, il loro risalire da lontano le salva dalla confusione di un babelico presente; esse rieducano al rispetto e alla coerenza e per questo si assumono un compito di alta moralità.
Le poesie di questo libretto sono strutturate da Crico nei modi di un soliloquio in cui un soggetto pensoso compie un protratto scandaglio interiore, giovandosi di parole riscattate da un lungo confino, rifatte fiorenti per esigenza di testimonianza sincera e tali che risemantizzano la vita. Questo soliloquio è sempre sul punto di assumere accattivanti e coinvolgenti aperture colloquiali rivolte a un fidato interlocutore che può essere un doppio dell'io poetante, la parte del sé impastoiata nel cacabus ross, l'argilla rossa, dell'esistenza, o perduta negli anfratti di un tempo consunto; e può essere anche un compagno e fratello da consolare, da far partecipe di una pena, da sostenere con qualche umile consiglio sigillato in una ripristinata lingua delle rose, tenera nella ricordanza, brusca nelle sue salutari sentenze.

Gianfranco Scialino


Ivan Crico: De arzènt zù

Il linguaggio che un poeta impiega, sia lingua dotta, dialetto vivo, gergo usuale o che altro mai, è uno strumento musicale, la cui padronanza, ci consente già di distinguere il grado di creatività e la risonanza interiore di chi lo usa. Parlando di poeti poi non pensiamo ai troppi versificatori che si autodefiniscono poeti, ma ai pochi che sono veramente capaci di “creare” sonorità ed emozioni nuove, ciò che il nome di poeta assicura.
Ivan Crico ci consente con la sua poesia di partecipare a singolari nozze con i linguaggi che impiega, vivi come il dialetto bisiaco con il quale la sua creazione poetica si è fatta notare, o morti, come lo è il dialetto tergestino che lui dopo uno o due secoli dall’estinzione fa rivivere alla nostra percezione sonora in tutta la sua ricchezza.
Il dialetto friulano tergestino è a Trieste l’erede della romanità della città: appena un millennio più tardi il veneziano coloniale ne avrebbe insidiato il primato per soffocarlo del tutto dopo l’istituzione del Porto franco (1719), quando questo diventò la lingua franca dei commerci cittadini. La toponomastica triestina attesta ancor oggi insediamenti tergestini nella valle di Rozzol, slovenizzata al più tardi nel XIV secolo, di Roiano e di tutta la costiera occidentale che all’inizio assicurava la contiguità linguistica tra il Friuli e le sue estreme frange occidentali.
Confrontato con altri dialetti friulani, il tergestino ha una singolare ricchezza fonetica che lo distingue e lo rende riconoscibile ed è in ciò simile al dialetto muglisano, anch’esso scomparso pochi decenni dopo (o prima?) del tergestino. Oltre a “I Dialoghi piacevoli in dialetto tergestino” pubblicati dal Mainati, pochi sono i testi letterari della fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento rintracciati e pubblicati dai pochi studiosi che se ne sono occupati.
È perciò una piacevolissima sorpresa constatare come un prezioso dialetto, scomparso da tempo, sia rivissuto e rivisitato per la voce di un giovane poeta, anche se solo per la gioia sua e di pochi studiosi. Ma ci auguriamo pure la dovuta attenzione da parte dei cenacoli letterari cittadini e friulani.

Paolo Merkù

Nessun commento: