sabato 27 dicembre 2008

Leonardo da Vinci, vegetariano amico degli animali


Giorgio Vasari, nelle sue "Vite", racconta di come Leonardo "passando da i luoghi dove si vendevano uccelli, di sua mano cavandoli di gabbia e pagatogli a chi li vendeva il prezo che n'era chiesto, li lasciava in aria a volo, restituendoli la perduta libertà".
Liberando quegli uccelli appena comperati al mercato, Leonardo non si è concesso semplicemente il lusso di un gesto stravagante. Altre fonti rafforzano questa ipotesi. Lo stesso Leonardo, nei suoi Appunti, dichiara:
"Fin dalla giovinezza ho rinunciato all'uso della carne, e verrà un giorno in cui uomini come me considereranno l'omicidio di un animale alla stregua dell'omicidio di un essere umano".
Già dalle sue abitudini alimentari Leonardo si rivela un amante della natura, un uomo che ha fatto del rispetto del genere animale una regola di vita.
Ecco allora, qui di seguito, alcune interessanti riflessioni su questi temi.

L' IMPORTANZA DI DIVENTARE VEGETARIANI
Repubblica — 06 giugno 2008 pagina 39


Ciò che il vertice Fao "ha dimenticato" di discutere è il cuore del problema della fame nel mondo, che non è solo legato ai costi di produzione e distribuzione dei cibi, ma soprattutto alle abitudini alimentari della popolazione del pianeta. Occorre una rivoluzione nell' alimentazione dei Paesi ricchi per dare il via concretamente e subito ad una soluzione della tragedia dei Paesi poveri, dove si soffre la fame. Noi siamo alle prese con il problema opposto: aumenta l' obesità fra i nostri figli, le nostre adolescenti anoressiche usano il troppo cibo come ricatto e se ne privano fino a lasciarsi morire, la nostra dieta opulenta ci fa ammalare sempre di più. Proprio su questi temi si riuniranno a Venezia a settembre alcuni fra i maggiori esperti per la Quarta Conferenza Mondiale sul Futuro della Scienza: «Food and Water for Life». Io penso che l' ingiustizia alimentare sia una delle peggiori iniquità dei nostri tempi: una questione di civiltà e di cultura, che ci riguarda tutti da vicino. C' è un comportamento individuale responsabile, infatti, che può contribuire a riequilibrare questi due drammatici estremi ed è la riduzione del consumo di carne. Molti uomini di scienza e pensiero hanno creduto che la scelta vegetariana fosse quella giusta per l' armonia del pianeta. Dal genio rinascimentale di Leonardo da Vinci, che non poteva sopportare che i nostri corpi fossero le tombe degli animali, fino ad Albert Einstein, il più grande scienziato del ' 900, che presagiva che nulla darà la possibilità di sopravvivenza sulla Terra, quanto l' evoluzione verso una dieta vegetariana. Anch' io sono convinto che il vegetarianesimo sia inevitabile, per tre motivi. Il primo è di ordine ecologico/sociale. I prodotti agricoli a livello mondiale sarebbero in realtà sufficienti a sfamare i sei miliardi di abitanti, se venissero equamente divisi, e soprattutto se non fossero in gran parte utilizzati per alimentare i tre miliardi di animali da allevamento. Ogni anno 150 milioni di tonnellate di cereali sono destinate a bovini, polli e ovini, con una perdita di oltre l' 80% di potenzialità nutritiva; in pratica il 50% dei cereali e il 75% della soia raccolti nel mondo servono a nutrire gli animali d' allevamento. L' America meridionale, per fare posto agli allevamenti, distrugge ogni anno una parte della foresta amazzonica grande come l' Austria. Trentasei dei quaranta Paesi più poveri del mondo esportano cereali negli Stati Uniti, dove il 90% del prodotto importato è utilizzato per nutrire animali destinati al macello. Viviamo in un mondo dove un miliardo di persone non ha accesso all' acqua pulita e per produrre un chilo di carne di manzo occorrono più di trentamila litri di acqua. Già oggi non riusciamo neppure a contare quante malattie e quante morti potrebbe evitare un minor consumo di carne. Veniamo così indirettamente alla seconda motivazione del vegetarianesimo, che è la tutela della salute. Non ci sono dubbi che un' alimentazione povera di carne e ricca di vegetali sia più adatta a mantenerci in buona forma. Gli alimenti di origine vegetale hanno una funzione protettiva contro l' azione dei radicali liberi, cioè quelle molecole che possono alterare la struttura delle cellule e dei loro geni. Si può quindi pensare che chi segue un' alimentazione ricca di alimenti vegetali è meno a rischio di ammalarsi e possa vivere più a lungo. C' è poi un secondo fattore. Noi siamo circondati da sostanze inquinanti, che possono mettere a rischio la nostra vita. Sono sostanze nocive se le respiriamo, ma lo sono molto di più se le ingeriamo. Consumando carne, ci mettiamo proprio in questa situazione, perché dall' atmosfera queste sostanze ricadono sul terreno, e quindi sull' erba che, mangiata dal bestiame, (o attraverso i mangimi) introduce le sostanze nocive nei suoi depositi adiposi, e infine nel nostro piatto quando mangiamo la carne. L' accumulo di sostanze tossiche ci predispone a molte malattie cosiddette "del benessere" (diabete non insulino-dipendente, aterosclerosi, obesità). Anche il rischio oncologico è legato alla quantità di carne che consumiamo. Le sostanze tossiche si accumulano più facilmente nel tessuto adiposo, dove rimangono per molto tempo esponendoci più a lungo ai loro effetti tossici. Frutta e verdura sono alimenti poverissimi di grassi e ricchi di fibre: queste, agevolando il transito del cibo ingerito, riducono il tempo di contatto con la parete intestinale degli eventuali agenti cancerogeni presenti negli alimenti. I vegetali poi, oltre a contaminarci molto meno degli altri alimenti, sono scrigni di preziose sostanze come vitamine, antiossidanti e inibitori della cancerogenesi (come i flavonoidi e gli isoflavoni), che consentono di neutralizzare gli agenti cancerogeni, di "diluirne" la formazione e di ridurre la proliferazione delle cellule malate. La terza motivazione, ma non ultima, è di ordine etico-filosofico ed è quella che ha fatto di me un vegetariano convinto da sempre. Io ero un bambino di campagna, amico degli animali e oggi sono un uomo che ha il massimo rispetto per la vita in tutte le sue forme, specie quando questa non può far valere le proprie ragioni. Il cibo è per me una forma di celebrazione della vita, ma non mi piace celebrare la vita negando la vita stessa ad altri esseri.
- UMBERTO VERONESI





Leonardo da Vinci, genio animalista
Viaggio nell'alternativa vegetariana nella ricorrenza della morte del grande toscano

Carmen Somaschi, presidente dell'Avi: «Il 40 per cento del raccolto mondiale di cereali finisce negli allevamenti per produrre carne anzichè sfamare milioni di persone sottoalimentate. L'alimentazione vegetariana non è sacrificio, ma scelta etica e umanitaria»

6 maggio 2006 - Paolo Baldi
Fonte: Brescia oggi

Ha firmato capolavori ineguagliati dell'arte e preparato progetti eccezionali per l'epoca; ha realizzato studi anatomici di altissimo livello e lasciato scritti illuminanti; ha arricchito l'umanità per tutti i secoli e i millenni a venire e, 500 anni fa, aveva cercato persino di volare. E dall'alto della sua immensa statura intellettuale ha lasciato in eredità frasi come «Verrà il giorno in cui l'uccisione degli animali verrà considerata come quella degli esseri umani». Parliamo di Leonardo da Vinci, forse il più grande tra gli italiani di ogni epoca e celebre «avanguardia vegetariana». 
Pochi giorni fa, il 2 maggio, è caduto l'anniversario della sua morte, avvenuta ad Amboise, in Francia, nel 1519. E la ricorrenza ci ha offerto lo spunto per una riflessione su una delle innumerevoli peculiarità del genio toscano: la sua dieta «nonviolenta». 
Oggi la sua traccia viene seguita da milioni di persone anche in Italia. Ma la stragrande maggioranza dei consumatori ha altre abitudini, e neppure la recentissima ondata di timori legati all'aviaria sembra aver cambiato molto le cose. 
Eppure tantissime persone hanno visto le immagini crudissime diffuse dai network: sequenze che hanno immortalato galline, anatre o oche infette o a rischio cacciate in sacchi di plastica e poi sepolte vive, oppure bruciate (sempre vive). 
Ci sarà forse un effetto differito causato da quei video choc? Un augurio in tal senso arriva dall'Associazione vegetariana italiana (Avi), i cui vertici sono stati consultati da «Bresciaoggi» per capire cosa si può dire di diverso, di alternativo a fronte dell'allarme quasi planetario diffuso dall'influenza aviaria. 
E con la presidente del sodalizio, Carmen Somaschi, abbiamo affrontato il tema dell'alimentazione vegetariana da un punto di vista solo in parte animalista, parlando innanzitutto di chi mangia troppo (e «male» secondo chi ha deciso di abbandonare la carne) e di chi non mangia nulla. 
Forse, dicono all'Avi, il consumatore può riflettere di più se gli si ricorda che il 40 per cento del raccolto mondiale di cereali finisce negli allevamenti, per produrre carne anzichè sfamare direttamente centinaia di milioni di persone sottoalimentate, e tra queste un esercito sterminato di bambini, risolvendo davvero il problema della fame nel mondo. 
Forse può essere colpito dal fatto che la «produzione» di un chilo di carne di pollo richiede due chili di cereali, che diventano 7 per quella bovina. 
Forse può far pensare che se volessimo garantire a tutti gli abitanti della Terra la metà del consumo di carne medio dell'Europa, la produzione di cereali necessaria avrebbe bisogno di due pianeti come il nostro. Forse dovrebbe obbligare a pensare il fatto che con i due chili di cereali usati per ottenere una bistecca di due etti si potrebbero saziare per un giorno circa 8 bambini, e che ogni giorno decine di migliaia di bambini muoiono di fame. 
E non è finita. Sorvolando per il momento sul trattamento riservato agli animali da allevamento, bisogna ricordare che, tanto per fare un esempio, negli Stati Uniti l'inquinamento organico prodotto dalla zootecnia è 130 volte superiore a quello prodotto da 120 milioni di americani. Tutti i paesi industrializzati sono alle prese con quantitativi folli di liquami da smaltire su terreni che non possono più assorbirne, con polline da bruciare negli inceneritori, e persino con i «gas serra» prodotti dalle allevamenti: un sesto delle emissioni globali di metano deriva dai ruminanti destinati alla tavola. 
Insomma, dati alla mano, secondo l'Avi la zootecnia industriale è una gigantesca macchina che rende più affamati gli affamati, inquina in modo massiccio il pianeta e crea vere e proprie bombe biologiche, che nel caso degli indescrivibili allevamenti della Cina e del Sudest asiatico, riescono anche a generare virus «d'assalto» capaci di far tremare il pianeta. «Non basta per fare una riflessione sul nostro stile alimentare?», si chiede Carmen Somaschi. 
E se non basta, l'Avi ha pronti altri «promemoria» buoni per la coscienza di ognuno. Per esempio, ricorda che i famosi polli italiani allevati a terra (bastava guardare con attenzione i numerosi filmati passano in tv nelle settimane scorse per capirlo facilmente), restano sotto la luce 23 ore su 24 per continuare a mangiare, e raggiungono il peso «adatto» in 35 giorni di vita. Poi vengono uccisi. E non si può fare altrimenti, perchè si tratta di mostri della genetica, di ibridi realizzati a tavolino, e il peso enorme dei loro petti programmati in laboratorio finirebbe letteralmente per piegare e rompere le loro ossa e i loro tendini se potessero vivere ancora. Identico, ovviamente, il discorso relativo ai tacchini. 
Poi, parlando sempre del settore avicolo, c'è l'interessante capitolo del trasporto, con polli e tacchini letteralmente «sparati» da macchine ad aria compressa nelle gabbiette che si riaprono solo al macello. E se invece arriva l'aviaria, ecco riaprirsi il capitolo delle sepolture di massa di animali ancora vivi. 
All'Avi affermano che c'è una alternativa a tutto ciò, ed è l'alimentazione vegetariana; che non è un sacrificio ma una scelta etica, umanitaria e salutista. Per quest'ultima voce, volendo, si possono anche chiedere notizie all'oncologo di fama internazionale, non animalista ma vegetariano, Umberto Veronesi. 
«E' uno stile di vita che deve cambiare - commenta ancora Carmen Somaschi -: bisogna superare l'abitudine ad abbuffarsi di cibi sbagliati. Il consumo di carne crea solo una catena di stupidità senza fine: si massacrano milioni di animali per il consumo alimentare, e a intervalli periodici, proprio l'allevamento intensivo causa epidemie che portano ad altri massacri per l'eliminazione dei capi a rischio. Per stare nel mercato - aggiunge - gli allevatori fanno cose indegne, concentrando quantità enormi di capi. E alla fine, i carnivori pagano due volte: per acquistare la carne e per pagare, attraverso i contributi pubblici, la ripresa degli allevamenti azzerati dalle malattie». 
C'è bisogno di un salto culturale? «Indubbiamente. Gli animali sono considerati alla stregua di merce, non come esseri viventi capaci di sofferenza - risponde la Somaschi -. E anche i mass media hanno un ruolo determinante: hanno continuato e continuano a parlare del "povero allevatore che ha perso tutto", e non dei poveri polli trattati come sassi». 
Qualcosa sta cambiando? «Fortunatamente sì. Nel '96, quando esplose per la prima volta il caso "mucca pazza" i vegetariani italiani erano circa un milione e mezzo. Oggi le stime Eurispes parlano di circa sei milioni di persone». 
Un appello ai consumatori? «Li invito a essere più consapevoli - conclude la presidente Avi -, a riflettere su cosa hanno nel piatto. Perchè dal nostro consumo, dalle nostre scelte anche alimentari dipende il futuro nostro e di tutta l'umanità».

(Per ulteriori informazioni: Avi, tel. 02/ 45471720; sito internet www.vegetariani.it).

Antonella Anedda: un libro da non perdere


Libri da non perdere. Uno di questi testi è di certo, già quasi introvabile, "Cosa sono gli anni" di Antonella Anedda. Un “libro di gratitudini e rapine”, secondo le parole dell’autrice:

D’immense gratitudini e piccole rapine. Quando, a sedici anni, andavo a un appuntamento, studiavo. Come se quell’incontro, spesso senza seguito, spesso insignificante, fosse il preludio di un’alta conversazione, della più stellare delle unioni. E se c’era indifferenza quella derivava da ignoranza, semplicemente era luce che tardava. Studiando interrogavo me stessa e in quel dialogo silenzioso, nel mento sollevato verso qualcosa che era del mondo e non esattamente del mondo, trovavo la forza di andare nel mondo. Ho continuato a incontrare così la scrittura. Quando leggo mi metto alla prova, alzo il viso per capire cosa posso imparare. Ciò che è stato scritto può non solo non essere perduto, ma sfavillare in attesa di essere decifrato.

“Cosa sono gli anni” è un silenzioso, paziente intreccio di passioni e meditazioni nei confronti di tanti autori “imperdonabili” - come li avrebbe definiti Cristina Campo - accomunati dalla stimmate del bisogno inesausto, al di là del volere del mondo e anche di se stessi, di approdare sulle rive dell’essenza, bruciando attorno e dentro di sé, come in un fuoco febbrile e purificatore, ogni residuo di gratuità. Non sono saggi, nemmeno racconti, ma piuttosto il nudo riverbero di un pensiero, di un cuore interrogante, che s’inscrive sulla pagina chiara come una gèmmea condensazione di parole. Un libro, uno dei pochi, chiarificatore forse proprio perché nel fondo riparato sempre dal vento, raggelante, di una conclusione definitiva.

Ecco, qui di seguito, due pregevoli recensioni del libro.


Francesca Borrelli
Il lessico passionale della poesia


il manifesto, 02/05/1997

Che cosa sono per noi gli anni se non un precipitato di parole e di relative emozioni - sembra dirci Antonella Anedda dalle pagine del suo libro - e sebbene il suo sguardo incontri perlopiù gesti quotidiani di passanti per le sue stesse vie, non così si comporta il suo ascolto, che ha filtrato tra tutti il suono dei poeti più amati e ha accordato l’orecchio sul timbro dei loro versi: così é andata componendo “la raggiante corona delle frasi”, la timida sequenza di “rapine” delle altrui parole, e l’enorme gratitudine per chi le ha pronunciate e si ritrova a dialogare, in questo libro, sul filo di un comune sentire, indifferente allo scarto dei secoli, alle distanze che mai avrebbero permesso un incontro. Che cosa ci portano gli anni, avrebbe potuto dire Anedda, se non pieghe nella carne e fenditure nel cuore: ma lo lascia sussurrare alle figure del suo coro ideale, che hanno scelto di esporre le proprie cicatrici trasformandole in seni sulla pagina, e hanno misurato il respiro del verso sul fiato che avevano in gola, talvolta sincopando in poche sillabe tristi o felici esuberanze dell’animo, oppure scegliendo di affidarsi a distensione metriche più intonate alla pacatezza del momento. Delle parole altrui Antonella Anedda si é nutrita per scalare le vette più alte del suo sentire, se é vero - come dice - che prima di andare a un appuntamento leggeva frsi che le riempissero il cuore, forse per portarne il battito più contiguo alla mente, o per fortificarsi di fronte all’eventuale indifferenza e potersi dire che, semplicemente, “era luce che tardava”. Si é tentati di compiere, con le frasi di Anedda, la stessa operazione che lei ha osato con i suoi poeti, rubarle le parole perché talvolta é difficle resistere all’incanto dell’immagine che in esse si compone: più che prose le sue sono frammenti lirici, sospesi alla lievità di un sogno; e più che saggi questi scritti sono prove di saggezza come quelle che derivano da una consumata esperienza, oppure - come lei scrive - sondaggi sulla “terra del libro”, con la penna usata a mo’ di ramo per scoprire quant’é profondo lo strato che si offre e dov’é che oppone resistenza, quanto occorre scavare per trovare le fondamenta del senso, o l’origine di un significato riluttante a mostrarsi in superficie. “Occorrerebbe fermarsi sul ciglio di ogni verso” - scrive Anedda - esporsi fintanto che si arriva ad afferrare quel “tu” con il quale la poesia ti si rivolge, ti chiama a farne parte. E convoca sulle sue pagine parole e gesti tra lro lontani, ma tutt’altro che estranei: l’espressione della fatica che ci trascina nei “Beati” di Maria Zambrano, e la vernice che, come il tempo, trascolora dalla bambina alla madre alla vecchia nelle “Tre età” dipinte da Gustav Klimt; e ancora, “lacrime o sudore” di sfinimento sul viso di Marina Cvetaeva, tracce di una vita senza tregua, dell’eroico affaticamento da cui si origina e in cui matura l’intera sua opera. portano il segno di una stanchezza disumanante anche le parole di Simone Weil, operaia presso le Fonderie Bernard, quando scrive della sua dignità spezzata “sotto i colpi di una costrizione brutale e quotidiana”, e la santità della vecchia Pasenka descritta da Tolstoj in “Padre Sergio” é inscindibile dalla sua fatica; così come non resta che il segno della sottrazione e della perdita nella protagonista di “Mal vu, mal dit” di Beckett “trasmutata in pietra davanti alla notte”, e di scavo vivono anche le filiformi figure di Giacometti: tutte indistintamente figlie di una diversa, eppure accomunante, erosione del corpo e dell’anima in uno sfinimento senza possibile riscatto. C’é un comune lessico dell’abbandono nelle cui variazioni si ritrovano le parole del distacco, che in Amelia Rosselli descrivono “quasi una deportazione dell’anima”, e inseguono il “viaggio oltre la polvere” di Nelly Sachs, che insieme alle altre voci ebraiche di Getrud Kolmar, Etty Hillesum, Ottla Kafka costituiscono “l’onore del Novecento”, come scrive Anedda e “il prestigio del bene” come disse Simone Weil. La poesia non vive solo di atmosfere rarefatte e di materialità sublimate, ci sono versi che recano rumori e persino odori di cucine, di tepori domestici, di pentole in bollore: così é nei particolari messi a fuoco da Pasternak o dalla Achmatova, “fessure attraverso cui accogliere l’universale” - scrive Anedda; così é negli “Indizi terrestri” di Marina Cvetaeva, composti “non dopo, ma vicino al quotidiano”, sebbene la sua scrittura insegua “incandescenza di forma e pensiero”, un po’ come i colori che sfondano i confini della forma e si piegano alle correnti metropolitane, negli “Addii” di Umberto Boccioni. Ma, appunto, non di soli slanci procede il ritmo dei poeti: non quello di Wallace Stevens, sintonizzato sull’incedere incerto di un uomo già provato, i cui versi “coscientemente senili” sono scritti - dice Anedda - “dopo aver fissato bene la vanità”; né i versi di Celan che rinnegò le sue composizioni giovanili, né quelli di Kavafis nei quali risuona l’eco del suo “io non so sopportare”: versi consapevoli della loro irremediabile debolezza di fronte a un amore che si nega. Molte voci, troppe tra quelle convocate in questo libro, hanno scelto di tacere togliendosi la vita o lasciandosi morire: non ha senso azzardare una spiegazione, ma forse tra le pagine messe insieme da Anedda é legittimo cogliere un suggerimento: che esista un legame, talvolta troppo necessario, tra un corpo insidiato dalla morte e il linguaggio minacciato dal silenzio; come se la scelta di scrivere, essendo spesso prossima a un’ansia di totalità, rendesse meno tollerabile la percezione della propria finitudine.



Stefano Crespi
Immagini nella luce livida della solitudine


Il Sole-24 Ore, 06/08/1997

Per le meritvoli edizioni Fazi di Roma, esce un libro abbastanza insolito nelle categorie correnti: si tratta di prose, dal titolo “Cosa sono gli anni”, e più specificatamente di prose lungo la linea e quasi nell’assolutezza delle prose dei poeti. Un libri insolito e sempre più raro, al punto che l’editore ha aggiunto un sottotitolo più discorsivo di saggi e racconti. L’autrice, Antonella Anedda Angioy, vive a Roma, proviene da una famiglia dell’aristocrazia sarda; ha pubblicato nel 1992 il libro di poesie “Residenze invernali” (nelle edizioni Crocetti)._“Residenze invernali” e “Cosa sono gli anni” (con uno scatto di poetica) sono due titoli molto belli entro cui sembra definirsi, riconoscersi la presenza (la voce) di questa giovane figura. Sono titoli che entrano in una circolarità, in una reciproca relazione di poesia e prosa le quali diventano il segno e il sogno l’una dell’altra: il tempo e lo spazio, il presente e il passato, la bellezza e la vanità._Il punto originario della prosa, così come la intendiamo, nella sua imparagonabilità rispetto al racconto, al saggio, a un priori poetico, é l’assenza d’opera. La scrittura é possibile sullo sfondo di un’assenza di scrittura: fuori dalle categorie del linguaggio, non c’é che un mormorio ostinato che torna al silenzio di cui non si é mai linerato.Nella prosa introduttiva, “Senza recinti”, cade improvvisamente questo frammento: “Di ciò che ho letto e perfino tradotto non conservo quasi nulla. Come davanti all’amato, non é abbastanza o é troppo, come prima di un appuntamento, nello specchio non c’é che vuoto e un bagliore che é anche paura.” Scorriamo le pagine del libro avanti e indietro, lo annnotiamo di sottolineature, per ritornare sempre a questo punto, come alla cifra e all’originarietà di queste prose: la misura della scrittura e la dismisura della condizione irrapresentabile._Sono pagine, dice l’autrice, nate “nell’isola di un’isola”, scritte a memoria, con pochi libri, e ricontrollate poi a Roma nelle citazioni. Sono pagine dunque che si iscrivono in un tempo lungo, arcaico dove si adunano i segni, le tracce, le frasi più interiormente necessitate; dive ricorrono gli accenti essenziali, e forse ossessivi della parola._C’é un libro d’arte che ci attrae. E’ intitolato “Lettrici. Immagini della donna che legge nella pittura dell’Ottocento”. E’ una variante (la donna che legge) nella infinita raffigurazione femminile (la donna mentre si veste e si sveste, si lava e si specchia, sogna o dorme, mentre passeggia e conversa nei salotti, mentre lavora, mentre prega, mentre esibisce la sua bellezza o é ripiegata nell’affetto materno). Ma forse più affascinante é l’immagine della donna, senza libro, alla finestra: la nostalgia dell’assenza, di un’infelicità, l’interiorità di un tempo compatto, il luogo profondo dell’io, e quasi quella “luce rembrandtiana” di quotidiano mistero ( con un’espressione di Claudio Magris). Nell’immagine della donna senza libro, più che la storia di un linguaggio, amiamo l’archeologia di un silenzio. Le prose di questo libro dicono la vita, il senso unico e irripetibile di ogni volto, di ogni gesto, di ogni oggetto, di una pena senza nome, di una frase nella frase infinita; dicono la vita nella sua intensità che risplende dietro le parole, dietro le unità indefinite, dietro le formalizzazioni categoriali. E’ uno sguardo che, su una soglia oscillante, cerca la presenza sfuggente, tenta di ricondurla quale immagine: il tempo fitto e tramato dei libri passa attraverso le mute lettere di un alfabeto interiore. C’é l’epica degli scrittori russi, la voce della letteratura ebraica, l’orizzonte inesausto della letteratura femminile ( da Ingeborg Bachmann a Marianne Moore, da Hannah Arendt a Simone Weil, da Anna Achmatova a Marina Cvetaeva, da Amelia Rosselli a Cristina Campo, da Nelly Sachs a Gertrud Kolmar). Tutto é riportato a una cadenza di diario che non stringe l’atto della vita in una meditazione di racconto, o in un taglio critico; ma si congeda nello struggimento, nello sguardo di un incontro, nel “grigio spento” di un luogo, nella luce livida di una solitudine._Di questa scrittura primaria vorremmo sottolineare la connivenza con l’immagine. C’è nella scrittura il trascorrere dell’interiorità: l’immagine é quasi il tentativo di fissare l’atemporale, l’opacità che resiste. Il dire é portato a quella cifra di unità, dove la parola più che riassorbire il reale nel senso, riporta il senso nel respiro, nel “disegno della poesia” (Yves Bennefoy). Diventano così esemplarità di scrittura le “immagini” di Giotto, del Lotto, di Cézanne, di Klimt, di Albetro Giacometti; o il bellissimo racconto di Andrej Rubev: “Umili e regali, con le grandi ali colme di luce, i volti bruni leggermente inclinati, gli angeli della Trinità sostano alla mensa di Abramo nel sereno splendore di un miracolo domestico. Per dipingerli Rublev non dovrà che ricordare ciò che ha visto in quel giorno di pioggia: le tre creature stanche sedute a un tavolo sotto una tettoia, con i piedi incrociati e nudi, mentre in lontananza splendono i bagliori di una tempesta e lentamente cadono le prime gocce d’acqua”.


scheda tecnica:

autore Antonella Anedda

titolo Cosa sono gli anni

collana le terre

pagine 144

ISBN 88-8112-045-3

data di uscita 01/05/1997

numero collana 8

prezzo in libreria € 10,33

lunedì 22 dicembre 2008

IL PANE DI PADRE BIANCHI


Ascolto con attenzione ed intima partecipazione, da molti anni, le parole di Padre Bianchi a Radio Rai 3. Ho trovato su "La Repubblica" questo testo, che non è una semplice recensione né un pezzo d'occasione, di Piero Citati. Parole profonde, sentite, da leggere e condividere.


IL PANE DI PADRE BIANCHI
di Pietro Citati

da "La Repubblica", 20 dicembre 2008


Nell'alto Piemonte, tra Biella e Ivrea, sorge la comunità monastica di Bose. Siamo in collina: ci sono prati, fitti boschi; ma la vicinanza delle alte montagne - il Monte Rosa è prossimo - dà all'aria collinare quella freddezza, nitidezza e insieme quelle trasparenze e velature, che si avvertono nelle pitture lombarde di Bernardo Bellotto. Nella comunità, ci sono quattro sacerdoti. Tutti gli altri - cinquanta monaci e cinquanta monache - hanno conosciuto un lungo noviziato: otto anni di paziente attesa sulla soglia; ma non hanno preso gli ordini sacerdotali. Non dicono messa. Preferiscono restare «semplici cristiani», come sant´Antonio e san Francesco: in nulla, apparentemente, si distinguono dai laici che abitano le città e le campagne, salvo per l'obbedienza ai voti di vita comune e di celibato. Sono - quasi - come tutti gli altri: senza quella lieve, talora impercettibile parete che allontana il sacerdote dagli altri esseri umani. Della comunità fanno parte alcuni protestanti e due ortodossi: il patriarca di Costantinopoli è di casa; segno non di una impossibile fusione delle religioni, ma di quel fitto intreccio di esperienze religiose, che rende così confidenziale la nostra vita nel nuovo millennio.
Oggi il monastero fiorisce: ha case, chiese, refettori, sale per le conferenze, laboratori , fraternità , come un monastero del Medio Evo. Il monastero è nato a poco a poco, casa dopo casa, stanza dopo stanza, chiesa dopo chiesa. L'ha creato padre Enzo Bianchi, il priore, un uomo di sessantacinque anni, che giunge dal Monferrato: sembra uno di quei contadini che, nelle chiese romaniche, venivano scolpiti negli archi per illustrare le fatiche dei mesi invernali; piccolo, tozzo. con una folta barba medioevale, porta nelle membra il peso, la forza e l'energia della vecchia civiltà contadina. Sa fare di tutto. Cucina, prepara marmellate, mette le melanzane sott´olio, ascolta anime, cura corpi, predica, studia la Bibbia, scrive libri, prende aerei, sale sul Monte Athos; e prega nel silenzio della sua stanza appartata, come un monaco del dodicesimo secolo. Attorno a lui, tutti lavorano. Qualcuno coltiva i campi, educando primizie: qualcuno polisce ceramiche: qualcuno medica nella città vicina: o studia l'Antico e il Nuovo Testamento nella grande biblioteca: o prepara una bellissima collezione di Padri della Chiesa: o stampa i libri: o costruisce mobili; o edifica le nuove ali del monastero; o lavora in cucina. Come nella civiltà moderna, ciascuno ha il suo ruolo: l'attività è precisa, ordinata, scrupolosa; ma ad un tratto, con una completa inversione delle parti, chi studia il siriaco sbuccia patate in cucina, e il ceramista pulisce il pavimento del refettorio. I monaci di Bose sono cristiani e quindi non disprezzano e non tengono lontano il mondo, il regno dei corpi e la natura. Hanno copiato nei loro libri una frase di Paolo VI: «Anche se il mondo si sentisse estraneo al cristianesimo, la Chiesa non può sentirsi estranea al mondo, qualunque sia l´atteggiamento del mondo verso la Chiesa». E come potrebbero rifiutarlo, se al centro dei loro pensieri c'è, come dice un piccolo, bellissimo libro di Enzo Bianchi, il Mistero e scandalo dell’incarnazione Gesù si è umiliato e piegato: si è reso vile e abbietto: è disceso nel peccato, rinunciando al «tesoro geloso» della incontaminata vita divina, proprio per salvare ogni molecola, granello, briciola della realtà quotidiana. Così i monaci di Bose continuano quello che, per secoli, hanno fatto i conventi cristiani. Salvano la natura, e la trasformano in cibo. Cuociono le marmellate, conservano le melanzane sott'olio e i «ficuzzi», preparano i vini di queste vigne quasi montane, lasciano stillare le gocce del miele, come se lasciassero colare le gocce di un'essenza celestiale.
Se fossi capace, vorrei raccontare la vita di Enzo Bianchi, che considero il mio priore personale, e che ora pubblica presso Einaudi Il pane di ieri (pagg. 116, euro 16,50). Discendeva da una famiglia poverissima: aveva conosciuto quello che noi chiamiamo, senza renderci conto della parola, la miseria. Al tempo del Concilio Vaticano secondo, aveva circa ventiquattro anni; e insieme a due amici decise di rifondare il monachesimo - il glorioso monachesimo dei tempi cristiani, quello di sant'Antonio, san Benedetto, san Francesco -: impresa immensa. I tre partirono per Bose: dopo poco tempo, i due amici abbandonarono Enzo Bianchi; ridiventare monaci era troppo arduo e difficile. Egli rimase solo: non aveva un soldo: viveva nelle case dei contadini, quasi mendicando; e, nel tempo libero, che era moltissimo, restaurava una piccola chiesa romanica tra i prati, in fondo alla valle.
Enzo Bianchi attese: con l'immensa pazienza e testardaggine che soltanto uno del Monferrato può possedere; attese come attendono gli uomini di fede. E ora, dopo meno di cinquant´anni, ecco il Monastero di Bose: una realtà straordinaria, forse unica al mondo. Senza alzare la voce, esso intrattiene rapporti con il cristianesimo ortodosso russo e con quello greco, pubblicando convegni, di cui l´ultimo è appena uscito. Enzo Bianchi sa benissimo che, nella sostanza, nulla o quasi nulla divide il cattolicesimo di oggi dall'ortodossia greca e russa. Non c´è nessun bisogno di creare una specie di superreligione: ma il cattolico del 2008 pensa attorno al Cristo, a Maria e alla divinizzazione dell´uomo quasi quello che pensa un ortodosso greco e russo. Questo mi consola. Nel suo recente libro, che sta ottenendo un grande successo, Enzo Bianchi narra con perfetta verità cosa è stata la vita nelle campagne del Monferrato fino a cinquant´anni or sono. Racconta i rapporti tra Dio e il tempo atmosferico, quando Dio fermava la grandine: racconta le ore della giornata, ritmate dal canto del gallo e dal suono della campana: racconta come nelle case venissero invitate le lingere, ossia i mendicanti, che sedevano a tavola insieme ai padroni: racconta come il pane di ieri diventasse il pane dell´indomani; racconta le veglie nelle stalle e nel caldo della cucina, dove gli uomini giocavano a carte. Tutti vivevano molto soli. Non esisteva l´amicizia. Intorno, le vigne del Monferrato: le foglie gialle paglierino del moscato, quelle rosse paonazzo del brachetto, le foglie viola del dolcetto e quelle verde antico del barbera; e le piante odorose, il prezzemolo, l'erba cipollina, il timo, la maggiorana, il rosmarino, che padre Bianchi ha ripiantato nel suo orto di Bose, «insaporendo l´anima». Poi ci sono le ricette del cibo: quella meravigliosa del sugo della pasta; vorrei ricordarla per intero ai cuochi e alle cuoche di oggi. Era un cibo sacro, che apparteneva a un tempo ancora sacro.
Con discrezione, padre Enzo Bianchi tocca un punto gravissimo. La vita contadina di sessant´anni fa era gremita di simboli che venivano adattati all´esistenza cristiana: pensiamo al pane, al vino, agli uccelli, all´acqua, alla gramigna, al viandante e al pescatore nei Vangeli. Le parole di Gesù raccoglievano i nomi della vita agreste elevandoli a segni. Oggi, il nostro linguaggio non ha niente di sacro: né un computer, né un´automobile, né un frigorifero, né un telefonino né un aeroplano rivelano nemmeno un´ombra o un barlume di apparenza religiosa. Sono oggetti silenziosi, atoni, indifferenti, senza eco, che tengono lontana la parola. La foresta dei simboli è morta. Il linguaggio quotidiano respinge i Vangeli. Capisco come sia terribile il compito di padre Enzo Bianchi, e di tutti i monaci e gli uomini di chiesa che devono parlare agli uomini di oggi, senza più pane né vino, né gramigna né acqua né uccelli.

PIETRO CITATI

ENZO BIANCHI
Il pane di ieri
Einaudi 2008
pagg. 114 – Euro 16,50

lunedì 15 dicembre 2008

Nuova installazione di crico a Borgo Fornasir (UD) alla "Rassegna di Arte Contemporanea"

Da domenica 14 dicembre fino al 14 gennaio, nell'ambito della "Rassegna di Arte Contemporanea", presenterò una mia nuova opera scultorea, realizzata per l'occasione, nel giardino della Chiesetta di Borgo Fornasir a Cervignano del Friuli. Lo spazio è sempre aperto e illuminato anche nelle ore serali. L'opera, intitolata "Coordinate di una morte (La traccia luminosa della presenza)", è dedicata all'ingegner Fornasir, ideatore tra le altre cose, per conto dei fratelli Cosulich dei Cantieri Navali di Monfalcone, dello straordinario villaggio operaio di Panzano.
Borgo Fornasir, sorto dal nulla in una zona periferica e spopolata di Cervignano tra la prima e la seconda guerra mondiale, nacque dall'idea dell'ingegner Fornasir di creare a proprie spese una grande azienda agricola dove, chi vi lavorava, potesse usufruire anche di un alloggio per la famiglia, corrente elettrica ed acqua calda, spazi per lo svago: comodità del tutto sconosciute all'epoca alla maggioranza della popolazione. Fornasir era difatti, oltre che uno tra i più grandi ingegneri dell'epoca ed accorto imprenditore, persona di rara sensibilità, mossa per tutta la vita dal desiderio di migliorare le condizioni di vita delle classi più umili.
Sul pavimento della chiesetta del borgo sono ancora visibili quattro borchie che dovevano segnare, secondo la sua volontà, il perimetro della sua sepoltura. Non fu così, per diverse ragioni, e la sua tomba ora si trova altrove. Ma la traccia luminosa della sua presenza rimane nei molti segni lasciati in questo luogo, un luogo che ci mostra come sviluppo economico e attenzione per l'altro possono convivere in modo armonioso.
La terra, la pietra, nelle sepolture diventano schermo immobile e buio che qui, in quest'opera, svanisce per lasciare spazio al paesaggio in continua metamorfosi del cielo. Segno di una vita, nel profondo, mai uguale a se stessa. L'occhio di Fornasir non si fermava solo a ciò che vedeva. Ma si lasciava attrarre, anche, da ciò che non era ancora diventato visibile e a cui lui poi ha iniziato a dare una forma. La forma, nascente e desiderata, come avrebbe detto il mugnaio filosofo Menocchio, di "uno mondo nuovo".


Per ulteriori informazioni sugli altri eventi, che vi consiglio di visitare: www.artecorrente.it