mercoledì 8 ottobre 2008

Sulla poesia di Elio Grasso


Come il mare, come il tempo



Una lunga estate di niente aveva disseccato i nostri sogni,
arrugginite le voci, accresciuti i corpi, disciolti i nostri ferri.
Talvolta il letto ruotava come una barca alla deriva
Che lentamente guadagna l’alto mare.

Yves Bonnefoy


Parole già mescolate alla notte, prima e più volte ripetute dell’arrivo del sonno, che della notte - una notte marina, di scure macchie di venti dilatate sull’acqua - conservano i silenzi, i ritmi rallentati, la lontananza implacabile e calma in cui si annullano i nostri atti, l’onda estesa delle memorie.
Sentivo ugualmente, risvegliandomi nella fioca luce lunare al tintinnìo dei vetri aperti che accompagnava il passaggio delle petroliere, a poche decine di metri da casa mia, al Lido, qualcosa di molto simile a questo, a questi versi, penetrati come i marmi chiari dei davanzali dalla salsedine, dalla vicinanza del mare, un altro mare, quello di Genova, di Elio, sull’opposto confine occidentale della nostra penisola.
Il taglio affilato che scendeva dentro, recidendo da sé nella penombra volti già confusi, i giorni diventati mani che si stringono e bianchi d’acacie, fogli scritti e richiami lunghi. Il distacco duro, difficile, per liberarsi da tutto questo illimpidendo la visione dai preconcetti, andare oltre e, nel contempo, la tenerezza vincolante per quanto di insignificante, forse solo in apparenza insignificante, ci accompagna: gesti minimi, frasi di circostanza, che rimangono però alla fine come tracce fluttuanti sulle acque del tempo - destinate presto a sparire - della nostra fragilità, sempre inconsapevoli di fronte ad un mistero che ci sovrasta e cancella.
Cose su cui, forse, non ci si dovrebbe più nemmeno soffermare, da cui bisognerebbe subito distogliere lo sguardo, se farlo significa esporsi ad un vento di vita scomparsa capace di dissolverci, come polvere, rasi da una troppo vasta, troppo superiore, per noi, impensabilità: il profumo dilatato nell’aria di un cibo condiviso tra amici; il bianco e nero di una vecchia foto, con l’immagine di noi diversi, diventati altri, in altri esili di ore, di giorni addentrati; nella mente, lontano, il volto di qualcuno che sorride, non si sa più dove né perché, a cui tornare a rivolgersi attraverso il nulla luminoso del ricordo:

Perché scrivere a te ragazza
se ancora non hai la mia età inconsapevole?
Con il volto che sparirà nei campi bianchi
non sarai divisa dalla tenerezza,
esperta di canali e venti
di tramontane e bore.
Ma quanta vita hai tenuto
nel pugno prima del risveglio...

E insieme, mescolato a tutto questo, il riverbero vivo e intimamente umano di ciò che potrebbe essere e che non è stato ancora, di anime diventate, senza rumore, un tutt’uno con l’attimo che scompare.

Anime insensate e ferite dai discorsi
mai terminati

di fronte a cui, in una perpetua indecisione, ritrovarsi combattuti fra la rabbia mai sopita per un immenso patrimonio di possibilità perdute e la compassione nei confronti di uomini, esistenze affondate nella cenere densa, stratificata, di uno spazio chiuso all’ascolto.
Durezza e tenerezza, giudizio e compartecipazione alla passione di vivere che s’incanalano qui in una parola sgorgata dal mare, fatta di stasi e limpide accensioni, ferite di gelo che si riaprono dopo anni come lontani, mai definitivamente sepolti, conti in sospeso.
Più di ogni altra volta prima, forse, acquista forza in questo modo la parola di Grasso, in una rinnovata capacità di essere diretto senza mai privare il verso di quella parte d’inafferabilità che lo pone in sincronia con il ritmo stesso della vita. Sezione di un più ampio discorso, “Il libro della madre disamorata” attraversa frammenti di vita vissuta, luoghi, rumori con un pudore e una raffinatezza mai esibita che già in molti hanno riconosciuto come fra le doti più evidenti di Grasso. Ma, in questa e in altre sue recenti prove forse, c’è ancora qualcosa di più, una maggiore consapevolezza e libertà nel rendere la parola - senza ulteriori filtri - un’éco primaria della propria voce: raggiungendo, così, una semplicità che è il segno, infallibile, di un lungo e arduo lavoro intorno alla propria e (come critico e traduttore) all’altrui scrittura.
Decàde, allora, anche la frattura tra interno ed esterno, presente e passato, nel delinearsi sulle pagine di un paesaggio limpido e inquieto di “ campi bianchi” in cui veder sparire i confini - tracciati dal nero delle parole - di un volto, di un tempo vicino e già, con noi stessi, non più nostro.

...fossi ancora qui, apriremmo il sangue
al mare, ci affiancheremmo alle barche
una volta per sempre.

Ma anche nell’ultimo, sospinto da un flusso ascendente, “La soglia a te nota”, sembrava ancora una volta d’avvertire sullo sfondo la costante presenza del mare, i fragori invernali di alte onde sugli scogli in lontananza, o il silenzio iridato di immense masse d’acqua che lambiscono - oltre le stasi perfette e le nitide accensioni del Mediterraneo - le tenere rive erose di altre terre, altri continenti. Un silenzio d’acqua marina, che depura la parola dal grido, la lava e depone - sulla fine sabbiosa chiarità del foglio- come un sassolevigato, un’arida radice spugnosa, un grano di sale. E come un sale sono, nella loro struttura interna plasmata da una stellare geometria, le parole di questi testi, dalla superficie pura e opaca, aliena ai brilii troppo intensi, che trattiene uniformemente la luce più che rimandarla. E’ il fascino di una poesia raffinata, colta, ma che mantiene al suo interno, mi sembra, l’umile bellezza quotidiana del parlato, intrecciata alla scabra disadorna trama dell’esistere di ogni giorno. La voce, le voci che si inseguono in queste liriche potrebbero essere quelle del risveglio, nude, velate da minimi tremiti d’alba, in cui si confonde alla difficoltà la sorpresa di ritornare - dopo la notturna immersione in fondo al nostro stesso mistero - di nuovo in superficie rinnovandosi, inspirando l’aria dura e dolce delle cose,

questa luce che non esige
una vecchia stagione,
soltanto il confine che ti spetta
scavato nelle forme della fatica, della ferita.

Una calma forse soltanto apparente, forse più simile, più vicina ad una tregua luminosa in cui il brusìo come il grido si decompone nell’attesa, nel racconto di un’attesa in cui i vari capitoli, il rumore sottile delle pagine sfogliate, parlano di ore, di giorni, luci e ombre della vita nitidamente descritte.

Una prova non si sceglie,
resta un graffio
dopo aver calato il coltello.
Se fossi trama, o soltanto geniale
come il rifiuto,
ti chiederei il silenzio
o quel minimo di difesa
che ti addormenta.

Sia intatta la grazia lontana della neve,
ma nella storia che ci riguarda
sia insonne e feroce, comunque armata
perché possa vendersi la prigione.

E non sappiamo quale altra casa in fiamme.

Il filo che unisce gli animi, allora rimane l’ascolto reciproco, spogliato da ogni affermazione del proprio sé, che si esprime in un flusso di parole venate da un tale senso della misura per cui ogni estremizzazione del discorso parrebbe inevitabilmente fuori luogo, discostandosi da una precisa continua circolazione di sentimenti reali, tangibili esperienze di vita vissuta.
Attraverso una sempre pudicamente nascosta sapienza stilistica, da un’apertura sopratutto ad un tu mai definito ma mai indistinto, l’oriente di un tu verso cui il messaggio poetico non cessa mai di direzionarsi, Elio Grasso riesce in questo modo a sgravare i suoi testi dal peso di ogni soggettivismo senza cadere, però, nel rischio di una fredda e impersonale oggettività.
Un dialogo che non si interrompe, si rincorre da un verso all’altro, tra stanze e spiaggie, traghetti e strade, nel respiro, nel nitore di paesaggi, situazioni in cui ancora siamo

dispersi come un giorno appena
formato, saturo di presagi
e di odori nati tra i vetri.

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