martedì 7 ottobre 2008

Un'antichissima parola bisiaca: "zerendìgul"

Alcuni anni orsono, il poeta e cultore di storia locale Silvio Domini, sul periodico quadrimestrale dell'Associazione Culturale Bisiaca "Lisonz" (Anno 3° - N. 1, 1989, pag. 2.), pubblicò nella rubrica "Storia di parole" un'interessantissima nota in cui, oltre alle sue doti di storico e filologo, risaltano anche quelle del grande scrittore amato da importanti critici e poeti, come Diego Valeri o Andrea Zanzotto. Purtroppo questa nota, vista la scarsa diffusione del periodico, persa tra altri articoli perlopiù a carattere occasionale, non ha avuto fin oggi il risalto che merita e - credo - risulti ancora del tutto sconosciuta o quasi agli studiosi locali. Ed è un peccato, poiché ci parla, una volta ancora, dell'unicità del patrimonio linguistico di una regione che, come in questo caso, si rivela estremamente ricca di relitti lessicali, friulani, sloveni, tedeschi, veneti di straordinario interesse.
Ne riporto, qui di seguito, un ampio brano: "Non molto tempo fa un anziano bisiaco (G.B.), raccontandomi episodi dei primi giorni della Grande guerra sul nostro Carso, mi riferiva che suo padre, quando si trovava sulle pendici del Sei Busi con quelli della 'riserva territoriale', prima che arrivassero le armate comandate dal feldmaresciallo Boròevic, con i suoi commilitoni sparavano ai nostri soldati italiani con vecchi schioppi e pochi mortai e lanciavano pietre con lo zerendìgul. Al sentire questa parola, pronunciata da una bocca nostrana, ho aperto tanto d'occhi e immediatamente ho chiesto all'informatore cosa fosse questo 'zerendìgul'. Lui con un sorriso mi rispose: 'E, omo, iera un toc de sac o de tela dura cun dó pichi, un se cignìva strent e turzulà tórno al dé pìciul e quel vizìn e, dopo vér mes un pierot drento, se ciapava l'altro pic, se fava sgurlar cun forza al zerendìgul e po se molava al pic de dreta. Al pierot al partiva como 'na saeta e 'l 'ndava lontanón. Póri quei che i lo ciapava, i restava matunidi o morti'.
Dopo questa colorita descrizione, me ne tornai a casa sicuro di aver già letto questo temine in qualche documento antico riguardante la nostra zona. A casa, per tre o quattro giorni, ho cercato fra le mie carte e finalmente mi è capitato in mano un plico di fotocopie di scritture datate dicembre 1600 ( Archivio di Stato Venezia, Provveditori Camera Confini, busta 197). Erano gli atti di un processo, con relative testimonianze, svoltosi alla presenza del podestà veneziano di Monfalcone Ettore da Riva. Era successo che pastori sloveni di Doberdò reiteratamente portavano a pascolare i loro greggi di capre e pecore al di qua del Cimonetto, circa un miglio dentro alla zona veneziana, che era bene comunale della deganìa di Vermegliano. Un giorno di quel dicembre del 1600 quattro uomini di Vermegliano, guidati dal capopaese, si erano recati sul posto con l'intenzione di prelevare qualche pecora a mo' di risarcimento dei danni subiti e per avvertimento che non avrebbero più tollerato quello sconfinamento. Mentre trattavano con i pastori sbucarono all'improvviso da un'altura vicina quattro uomini armati di Doberdò: uno di questi si avvicinò al degano di Vermegliano Pierin Boscarol e lo ferì al volto con un colpo di archobuso da roda. Gli altri tre sloveni da lontano incominciarono a scagliar pietre col cerendègolo ferendo gravemente Batta Moimas. I Vermeglianesi di fronte a queste violenze se la dettero a gambe. Fra gli atti del processo un testimone vermeglianese dice testualmente di essere stato ferito da una pietra scagliata col zerendègul. Al processo quelli di Doberdò vennero condannati, ma naturalmente erano contumaci. Alla fin fine tutti, aggrediti e aggressori, erano povera gente che si ammazzava per una brancata di fieno a causa degli incerti confini.
Ma torniamo alla nostra parola. Consultando il Vocabolario veneziano del Boerio (1856) alla voce cerendégolo leggo: "Vocabolo antico. Strumento composto d'una rete fatta a mandorla, con cui si scagliavano pietre per offendere da lontano". Per scrupolo, consulto pure il Dizionario etimologico italiano del Battisti-Alessio (1975) e vi trovo la parola cerendegolo spiegata così: "antico veneto, fionda...". Seguono poi tutte le possibili derivazioni della parola dal latino e dal greco. I vocabolari friulani e quelli giuliani non riportano la voce che qui interessa'.
I dati riportati da Domini, possono ora essere arricchiti anche con altri molto interessanti grazie alla recente pubblicazione, da parte del decano dei dialettologi italiani Manlio Cortellazzo, di un imponente ed accuratissimo "Dizionario Veneziano della lingua e della cultura popolare del XVI secolo" edito da "La Linea Editrice" di Padova. Alla voce "cerendégolo" (o "cerendàgolo") troviamo anche qui un ovvio rimando alla definizione del Boerio, a cui Cortellazzo ne aggiunge però anche un'altra in senso figurato di difficile interpretazione, assieme ad alcune importanti citazioni da testi letterari dell'epoca, come ad es. alcuni versi molto esplicativi scritti nel 1571 (?) da Zolante de Monelo: "Zirando 'l cerendegolo più volte, / Alzo la man, me fermo in su 'l mio passo / Con tutte le mie forze in mi revolte / Può con el brazzo, e me calumo a basso". Esiste inoltre anche la forma "sarandégolo", che ci testimonia qual'era molto probabilmente la vera pronuncia popolare di questo termine, riportata nel 1500 dal Sanudo nei suoi Diari: "Li puti e le femene con sarandegoli". Nel 1550, invece, il Caravia scrive: "Perché Follada con un sarendegolo / Cuogoli el trava grossi como ravi". Cortellazzo annota inoltre che di questa voce abbiamo anche altre testimonianze precedenti, raccolte e commentate nel suo libro Venezia, il Levante e il mare.
Domini nel suo testo fa notare che questa parola antica veneta, che indicava una precisa arma atta a scagliare sassi, "era conosciuta ed usata dai Bisiachi (...) con la leggera variante, meglio trasformazione, di una e in i (zerendègul - zerendìgul); fenomeno questo che è nella natura del nostro dialetto, basti qualche esempio: scarselìn - scarsilìn, momentìn - momintìn, pochetìn - pochitìn". È interessante ancor più far notare che la parte terminale del termine qui si trasforma da "olo" in "ul" - come avviene in maniera non infrequente nel bisiàc ricalcando una forma tipica friulana - a testimonianza dei rapporti antichi e molto intensi che vi sono stati tra le diverse popolazioni ladine, slave, venete che si sono ritrovate in vario modo a convivere nel monfalconese dal medioevo all'epoca rinascimentale e oltre.
Difficile dire quando il termine possa essere entrato in Bisiacarìa e, sopratutto, con quali modalità. Il fatto che già nei documenti del 1600 il termine compaia in una forma leggermente dissimile rispetto a quella impiegata allora nel resto del Veneto, sicuramente testimonia di un suo precedente adattamento alla parlata locale e, quindi, che il termine era già conosciuto da tempo nel territorio. Trattandosi in fondo di un'arma, seppur molto rudimentale e primitiva, potrebbe essere stato introdotto nella zona dalle guarnigioni venete a partire dal 1420, come non si può escludere nemmeno - dal momento che il veneto come lingua franca era impiegato in maniera più o meno occasionale in tutta la fascia costiera anche nei secoli precedenti - che possa trattarsi di una voce giunta nel monfalconese in un tempo ancor più antico. Si tratta di semplici supposizioni, in attesa di uno spoglio sistematico dei tanti documenti non ancora consultati che riguardano il monfalconese.
Ciò che invece sappiamo per certo è che il termine "zerendìgul" è rimasto eccezionalmente in uso in Bisiacarìa sicuramente dal 1600 fino ai nostri giorni, quando questa affascinante ed antica parola si stava perdendo o era già scomparsa ormai, da più secoli, in tutte le altre aree venetofone. Una testimonianza ulteriore del fatto che ci troviamo di fronte ad una delle zone più complesse e stratificate, dal punto di vista storico e linguistico, dell'intera regione.



(Ivan Crico, 23-04-2008, 6:54)

Nessun commento: