martedì 7 ottobre 2008

Su un incontro con il poeta Mario Benedetti

Il cielo per sempre.


Di sfuggita come tante altre volte - l’occhio a cercare freneticamente intorno un posto dove parcheggiare - tornai a intravedere la targa sulla casa di Michelstaedter mentre l’ombra della Chiesa di Sant’Ignazio, delle sue due verdi guglie laterali, si stendeva su Piazza Vittoria. Ero in ritardo. Sopra le case, in alto, il Castello di Gorizia avvolto nel crepuscolo afoso, torbido di luglio. Presso alcune mercerie ( negozi che qui, durante i giorni feriali, sono presi d’assalto da gruppi d’acquirenti frettolosi che arrivano d’oltre confine ) trovai un posteggio.
Poche decine di metri mi dividevano dalla libreria di Giovanni come ugualmente vicina, svoltato l’angolo, si trovava la casa dov’era nato e vissuto Graziadio Isaia Ascoli. Insigne studioso, in una città di frontiera dell’altro secolo in cui gran parte della popolazione parlava ancora il friulano, come il tedesco o lo sloveno, da questo estremo, silenzioso angolo del nostro paese riuscì a rivoluzionare gli studi di linguistica: nell’Italia, un’Italia appena unificata difatti, al Manzoni che vedeva nel fiorentino colto la lingua da seguire, L’Ascoli ribatteva che anche il fiorentino in fondo non era che un dialetto e che la sua considerazione avrebbe portato a non tener conto della storia linguistica italiana precedente. Contro l’astrazione di un italiano parlato da una cerchia ristretta di persone Ascoli difese, in questo modo, la realtà dialettale. E, attraverso questo, una visione estremamente moderna della lingua intesa come una realtà mobile, aperta, impura: ma che in questo aprirsi ad altre influenze denuncia la sua vitalità, la sua capacità di incarnare la varietà e le continue trasformazioni del reale.
Combattivo nel difendere le sue idee, studioso instancabile, fondatore dell’Archivio Glottologico Italiano e Senatore del regno, era inoltre, tra i moltissimi altri, in stretto contatto con poeti come il Carducci e Pascoli.
Non sembrava così strano, allora, ritrovarsi in quella piccola libreria, inconsapevolmente a novant’anni esatti dalla sua morte, a parlare della nuova poesia evocando le “Odi barbare”, molta dimenticata poesia di fine secolo, quasi per cercare, ripartendo da lontano, da una posizione eccentrica, strade poco battute per proiettarsi, con maggior forza, in avanti.
Incalzato da Gian Mario Villalta, Mario Benedetti, durante l’incontro, sembrava sottrarsi alle domande lanciando quasi casualmente, come fossero delle boutade, altri interrogativi, quasi che più della risposta importi quanto una domanda sia capace di creare nuove, ancora impensate domande. Aggiungere altri possibili punti di osservazione rispetto al problema.
Nel giorno già al termine fuori, uscendo nel buio, senza aver trovato una risposta ai propri interrogativi, ci si ritrovava in qualche modo cambiati; c’era stato come un balzo in avanti nel nostro pensiero, lungo il cammino si erano aggiunti nuovi sentieri, ponti per proseguire oltre. Gorizia, i suoi lunghi marciapiedi di pietra, lucidi sotto la luce dei lampioni, poche automobili, bar chiusi sempre troppo presto, si spalancava davanti, prolungata anch’essa, senza fine, nella notte.

I lineamenti fini, gli occhi di un celeste tenero. Mario Benedetti parla raramente. Sembra quasi, ad un primo incontro, poco interessato a ciò che gli sta succedendo intorno. Ma è soltanto un’impressione superficiale. In realtà, a volte dopo molto tempo, ci si accorge che i suoi silenzi sono il segno di un’attenzione profonda, di una curiosità che si esprime nell’ascolto, nello sguardo: particolari, anche minimi, frasi, nomi si imprimono nel suo ricordo con forza e, se capita di riparlarne assieme, di riferirsi a qualche occasione particolare, ci si accorge solo allora che fra tutti il più presente era sempre lui, il più apparentemente lontano.
Nato tra le colline di Nimis, in Friuli, Mario Benedetti vive da anni a Milano. Sul terrazzo di casa cerca un cielo scomparso. Un’aria irraggiungibile.
Torna spesso, appena può da queste parti, a trovare la sua famiglia. Con Donata, o da solo, approfitta di questi momenti per scoprire paesaggi sconosciuti. Paesi dimenticati tra le valli del Natisone, a cui si arriva per strade strette, accidentate. Le distese piatte della Bassa, con i pioppi nudi alla sera in un velo di nebbia. La gente, le tante genti diverse di qui. Con le parole ereditate, cariche di vita, che esplodono tra il fumo delle “private” come qui vengono chiamate le mescite stagionali di vino. Il profumo della landa carsica nel Terrano o del Traminer illimpidito dal gelo, come un discorso con questi luoghi mai interrotto, che si riapre.

Guardo vicino all’acqua l’acqua.
Quando dici erba piango,
quando nelle tue parole ci siamo noi e c’è tutto
l’avere incominciato da piccoli
qui in questa terra, dici, questa nostra terra...

Un rapporto profondo con la lingua, i luoghi, le persone su cui lo sguardo si è posato per la prima volta. Uno sguardo che, nel tempo, è andato spostandosi sempre più in là, lontano, intravvedendo e scontrandosi con problematiche profonde, sono la caratteristica più evidente - anche se non l’unica - del suo lavoro. Sono versi tratti dal suo primo libro di poesie e prose, “I secoli della primavera”, un libro il cui la parola, attraverso una dura e tesa scarnificazione del dettato lirico, tendeva ad avvicinarsi al manifestarsi della vita colta nel suo aspetto più nudo, anonimo, come a voler dar voce senza farle violenza a tutta quella infinita quantità di esistenze, di gesti e di paesaggi attraversati, destinata a non altro che a sparire, in silenzio: l’infanzia con i suoi tremori, la madre e il padre, le corse in bicicletta e il dischiudersi pieno di stupore nel vento, nei giorni, dei primi volti femminili amati.
Non si delineano risposte, rivelazioni in questi testi rapiti nel turbine dello sgomento di confrontarsi, senza nulla da opporre, al fluire degli anni che trascorrono cancellando, precipitando nella nebbia del ricordo ciò che fino ad un momento prima era tra noi, dentro di noi.
Eppure, lontana da ogni opaca immanenza, in queste parole che non parlano d’altro che di ciò che ci circonda, di una realtà umile, fatta di povere cose, si dilata fino a dissolverne i confini la percezione del mistero che le abita e in cui abitano. Le cose diventano allora il luogo in cui, da ogni direzione, il tempo precipita come sospendendole in un presente irreale, “un altro presente” 2):

E vedo - chissà dove - il bianco del soffitto, le porte che si aprono e si chiudono, soltanto più scure agli stipiti, dove tutto è presente: ciò che muore perché è ancora, perché rimane, perché continua ad essere...di nuovo all’angolo, dove le linee ripartono dal punto che conclude le pareti.

Il suo secondo lavoro invece, Una terra che non sembra vera, è un piccolo libro uscito nel 1996. Sono ventun poesie appena ma, già ad una prima rapida lettura, si ha da subito l’impressione di trovarsi di fronte a qualcosa di nuovo e di diverso rispetto al libro precedente e, insieme, a quanto offre in generale l’attuale produzione italiana.
Partendo ancora e sempre dalla vita quotidiana ad esempio - radicata profondamente nei drammi dell’oggi ma con vette d’intensità lirica inattese - senza nessuna retorica questa poesia sembra la sola tra le tante che sia riuscita a restituire fino in fondo, attraverso le parole, il dramma, lo sgomento della guerra oltre confine. Un dramma senza fine che, in Slovenja, Slovenja, emerge senza mai essere nominato ma solo alluso nei versi finali:

E’ venuto con i passi nell’erba,
è un vento che pensa e ha avuto un prato là
e scende, va così, e sale nella mummia del fieno il suo forcone.

Su, qui, Silvano Berra ricorda Franco che tagliava ieri i càrpini.
Io faccio fatica a dire chi sono perché non è più niente l’erba che capita.
Aspetto sul muro il muro per sedermi, di poter guardare qui davanti
il vento che è stato, i giorni che erano anche per me giornate di caldo.

La nonna malata, ma era sempre un po’ magra malata,
avvilita per le spese del funerale,
come fate, lo ripeteva alla mamma.
L’avevano portata con il carro all’ospedale e poi quando era venuta
tra quelle due finestre si era fermato.
Uno ubriaco l’aveva messa in spalla come un sacco, è morta così,
l’hanno messa in terra ma era morta.
Stava lì, nel suo vestito, con quello che si era visto sempre,
era buona, era una donna buona.

Piangi qua, borgo senza nessuno
carbone dei corpi e delle mucche
vestiti bruciati, visi neri
fumo delle carni e del fieno umido.

Un impressione di stupore e spaesamento insieme, accentuata anche dal fatto che la lingua di Benedetti non si discosta di molto da quella di ogni giorno: non troviamo, difatti, termini ricercati o preziosi, cari a tanti poeti; ed è quasi del tutto assente un uso sperimentale della parola teso, a scardinare il linguaggio proiettandosi - attraverso un ribaltamento dei significati convenzionali - in altre non ancora esplorate dimensioni del dire. O, meglio, il lavoro di Benedetti parte dall’interno della lingua e procede per vie nascoste, lievi ma decisivi interventi, “scarti minimi” (parafrasando il titolo della rivista fondata assieme a Stefano Dal Bianco), in modo tale che, almeno apparentemente, non vi sia una differenziazione così evidente rispetto alla poesia della tradizione novecentesca. Eppure pochi ad esempio, quasi nessuno forse, hanno saputo convogliare la lezione estremamente moderna di Celan - senza forzature - all’interno della poesia italiana come questo autore. Una poesia come “Marzo”, soltanto per fare un esempio, si presenta come una sintesi rara di questo lavoro sulla parola:

Un bianco dove non si mette niente,
di notte
si vede una pagina di Nerval,
il sangue di Esenin, una baita, la strada nuda di una frontiera,
un bungalow sulla costa.

Non è mai tornare se diventa che mi vedi leggero.
La mano attraverso le case è dirti guarda
e già ti sporgi sul mare.
E la primavera gira gli occhi nella primavera
se ti dico guarda quante eriche.

Difendimi, difendi questa notte bianca,
il giorno ripetuto nel pensiero.
Log, Ambleteuse,
colpi dei piedi sulla strada, facce piene di vento scuro,
i nostri visi nelle mani,
il vento negli occhi chiusi per pensarlo.

E un albero di fiori
sale sullo slargo con la marea
perché la mano è così, amore,
lei va alta tra i tuoi capelli.

Nella parola, maturata nelle lunghe veglie, trovano asìlo tutte le cose minacciate, la notte condivisa dagli uomini, di cui l’umano fa parte. Proteggere la notte, porla in salvo, è mantenere viva, alta nel vento scuro, la fiamma del mistero. Le molte vite scomparse, i molti volti senza nome di cui siamo la sola, quasi sempre inconsapevole, testimonianza. Attraverso la memoria con cui un presente proiettato solamente nel futuro, nell’affinamento sempre più disumanizzante della tecnica, tende a recidere ogni legame. Decretando, per i morti, abbandonati a se stessi, una morte ulteriore, definitiva se nulla, più, li congiunge a noi, alla nostra vita.
Il peso di un’enorme responsabilità, di cui l’uomo deve farsi carico, viene ricordato, esplicitamente o implicitamente, in tutti questi versi . Parimenti, in altre forme, un medesimo appello veniva lanciato nell’ultima, lacerata poesia in friulano di Pasolini “Saluto e augurio”:

Difìnt i palès di moràr o aunàr,
in nomp dai Dius, grecs o sinèis.
Mòur di amòur par li vignis.
E i fics tai ors. I socs, i stecs.

Il ciàf dai to cunpàins, tosàt.
Difìnt i ciàmps tra il paìs
e la campagna, cu li so panolis,
li vas’cis dal ledàn. Difìnt il prat

tra l’ultima ciasa dal paìs e la roja.
I ciasàj a somèja a Glìsiis:
giolt di chista idea, tènla tal còur.
La confidensa cu’l soreli e cu’la ploja,

ti lu sas, a è sapiensa santa.

Nell’attimo in cui veramente capiamo come tutto ci sfugge, come noi sfuggiamo a noi stessi, cominciamo allora, per la prima volta, a comprendere quanto la sopravvivenza e la continuità delle cose può dipendere dal nostro volerle o non volerle custodire al nostro interno, garantendo loro - scomparse, sempre sul punto della cancellazione definitiva - uno spazio teso ancora ad accoglierle nel mondo. Dipende soltanto da noi - traghettandole con la nostra testimonianza verso il domani - se l’oblio assoluto avrà, o meno, il sopravvento.
Apparentemente - ma solo apparentemente appunto - rispetto ad altre ricerche più estreme questa poesia potrebbe allora forse apparire come un ritorno a forme e modi di esprimere più rassicuranti, come una sorta di riflusso, non riuscendo a trovare più alcun appiglio stabile, nell’alveo protettivo e materno di una realtà in cui questi riferimenti erano ancora intatti e vivi.
La frattura operata da Benedetti esiste invece; ma forse, per meglio dire, più che un distacco drammatico, un taglio netto, la sua è piuttosto da intendersi come una di quelle svolte decisive che accompagnano senza traumi, discretamente e senza il bisogno di doverlo manifestare, un passaggio naturale da un’età della vita ad un’altra, per cui non c’è più bisogno di dover attaccare il nostro passato per liberarsene e proseguire oltre. Questo passaggio è anche il risultato di una rara sapienza nel riuscire a costruire testi estremamente equilibrati, in sé conclusi, “classici” quasi, con una misura ed un senso del ritmo che nulla, però, ha a che vedere con la metrica tradizionale.
Versi in cui il tempo batte, silenzioso, in perfetta sincronia con quello attuale. Il che li rende quasi inavvertitamente familiari, vicini a noi, diversamente da ciò che accade con quanti credono (o sperano) di poter ristabilire un rapporto con il passato recuperando semplicemente forme già collaudate. Nate per altri, non più nostri, tempi.
La poesia di Benedetti - senza mai voler affermare nulla di definitivo, resa forte dalla sua a volte manifesta incapacità a dire - apre forse più di altre ricerche attuali un via, ancora percorribile e vera, verso il domani soltanto immaginabile della parola:


Mi sento nel giro che facevi a prendere la legna,
nel rumore del camion che va perché si possa entrare
in trattoria durante l’ora di pausa: nei pensieri
che accompagnano la terra da togliere nel cantiere.

Questo è lo sguardo che lo tiene, quando si va la sera,
e volendo ci si può chiedere com’è stata, che cosa, la giornata:
restare in una melodia o con un disegno più nervoso e impossibile.

Così mi penso nelle parole che risalgono il cortile,
dopo averti sentita nell’aria che ti affaticava: un po’ intorno
come una sera d’aria tra le pietre e sulla campagna.

Dove la neve è occuparsi di che cosa sono le erbe e i sassi,
rimanere sulle cose per un po’, nel bianco della neve:
con le piane che avevano il tuo sguardo grande,
tu che diventavi le giornate, lavoro e prati di un mondo.


Memorie e sguardi che si fondono nella luce smarrita di un unico, dilatato presente. Rivelazioni che sorgono ancora, anche dalle nuove poesie come questa, dall’ascolto di ciò che passa con noi, dentro di noi, e scompare, oltre una frontiera nascosta, inosservato. Intrattenibile. I muri strappati delle case che non ci sono, l’acqua sporca oltre le reti. I volti pieni di vento vivi fino a quando qualcuno continuerà, nel silenzio, ancora a pensarli.



Mario Benedetti
Nato a Udine nel 1956. Considerato dalla critica più attenta uno dei più significativi autori della nuova poesia italiana, è stato fondatore, assieme a Stefano Dal Bianco, della rivista Scarto minimo. Ha pubblicato alcune brevi raccolte di prose e poesie confluite ne I secoli della primavera (Sestante, 1992) e Una terra che non sembra vera (Campanotto, 1996). Nel 1996, inoltre ha vinto l’importante concorso per l’inedito “Città San Vito del Tagliamento”.


“Difendi i paletti di gelso, di ontano, / in nome degli dei, greci o cinesi. / Muori di amore per le vigne. / Per i fichi negli orti. I ceppi, gli stecchi. // Per il capo tosato dei tuoi compagni. Difendi i campi tra il paese / e la campagna, con le loro pannocchie / abbandonate. Difendi il prato // tra l’ultima casa del paese e la roggia. / I casali assomigliano a Chiese: / godi di questa idea, tienla nel cuore. / La confidenza con il sole e la pioggia, // tu lo sai, è sapienza santa”. “Saluto e augurio”, p. 257.


Per una morte

Vanno via tutti i tuoi occhi,
mezza faccia nascosta, il mento sulle patate.
I tuoi occhi con i nomi delle mele e delle pesche,
la faccia contro la formica, con sopra fili di naylon.
Nessun sangue, i tuoi occhi come prugne
e come ciliegie, resta per giorni la sveglia finché ha batteria.
Il palmo della mano avanti piano sul davanzale,
solo un po’ di freddo, la mano
sulla maniglia della finestra, un po’ più di freddo e l’aria.
Sguardi che colorano le case, i più piccoli
pezzi d’intonaco, rossi, bianchi, celesti, sfumati
dentro gli anni. La casa più bella del paese, le palme,
c’erano le palme, abiti, programmi, Irene
e la piccola Santa mi è sempre parso, nel racconto
che tutto abbandonava alla terra.

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