mercoledì 8 ottobre 2008

Charles Ward: ricordo di un amico poeta americano a Gorizia

Cade la mezzanotte

E’ impossibile scrivere su se stessi in modo
più vero di quanto non si sia veri. Questa
è la differenza fra scrivere su di sé e su
cose esterne. Su se stessi si scrive esattamente
quel tanto che siamo alti; qui non si sta sui
trampoli o su una scala, ma sui nostri piedi.

Ludwig Wittgestein, Pensieri Diversi.



Se sempre la parola poetica, come scriveva Paul Celan, è rivolta verso un tu, non è mai possibile sapere - in partenza - quale volto, quale precisa e concreta fisionomia questo tu incarni. Affidato alle onde dei giorni, del tempo, vicina o risplendente in una lontananza ignota la riva - la sabbia bianca su cui il messaggio si arena - rimane, per chi scrive, un approdo sognato ma, sempre, imprevedibile.
Chi cerca attrae come un richiamo lanciato nell’invisibile, magneticamente, verso di sé ciò che lo può aiutare, guidare, e che può presentarsi allora sotto forma di persona, di segni o suoni, di parole. Possiamo allora scoprire che il tesoro che cercavamo lontano, come nella nota favola sufi, era sepolto sotto la nostra casa oppure che, convinti di stringerlo tra le dita, quell’oro non era che il sogno di un oro lontano verso cui dobbiamo ancora incamminarci.
Fiorito lungo crinali d’ombra, l’amore per la lingua e la poesia italiana di Charls Ward risale a quando, ancora residente a Chicago, vagava per le vie di questa città, le sue luminarie e le sue insidie, portando nella sua borsa una serie di lunghi componimenti, lunghe stanze di endecasillabi nate dal suo primo, mai dimenticato incontro con Le ceneri di Gramsci di Pasolini. Questi testi ancora inediti e in parte mai completati rivelano già però una sorprendente confidenza con l’italiano che va oltre l’interesse filologico nei confronti di un’altra lingua e che è, invece, qui il segno della ricerca di una propria lingua interiore, lingua della poesia, di una patria dell’anima se quella reale è destinata, per sempre forse, a rimanere ignota:

Io che non conosco il mio nome vero,
figlio di buona donna sconosciuta,
potrei essere il principe ignoto
separato dal suo regno...

Il suo viaggio di moderno Nessuno in esilio, bruciando nelle zone più oscure, estreme della realtà, ogni legame con il mondo e le sue convenzioni, lo ha portato ad approdare - segnato da una tragica consapevolezza del valore di ogni istante vissuto - ad una moderna, frammentata Itaca, a questo paese sempre così lontano, nei suoi splendori e nelle sue ombre, dall’immagine stereotipata di chi lo immagina dall’esterno.
In questa ricchezza di paesaggi sempre diversi, di memorie storiche, di profumi e sapori, di linguaggi differenti di zona in zona, in questa ardente onda magmatica in cui ogni cosa rimane travolta mescolandosi e fondendosi con ciò che la circonda, la sensibilità di questo poeta sembra aver dunque trovato la possibilità di incanalarsi e riemergere dal buio, come un’acqua carsica, sotto forma di nuove, sorgive parole. Parole che sfruttano appieno le possibilità espressive e metaforiche dell’italiano ma che, e in questo sta anche il loro valore, non portano su di sé, stancamente, il peso della nostra tradizione letteraria. Una tradizione che Charls Ward conosce bene, che cita di continuo, ma dalle cui secche, istintivamente, sa portarsi in salvo, con la sicurezza di chi presente la vicinanza di un pericolo e immediatamente lo scansa. Non si sente in debito, come accade a molti dei nostri poeti, nei confronti di coloro che li hanno preceduti. Autori le cui colpe, assieme ai meriti, sembrano ricadere come quelle inevitabili (secondo il detto) dei padri sui figli. Una pena che bisogna, volenti o nolenti, scontare fino in fondo ma da cui Charls Ward è, com’è ovvio, esonerato. Scene di sapore quasi arcadico, ad esempio, possono dunque tranquillamente essere recuperate e tornare allora a rivivere nella lirica “Nel salotto”, nella statica e linda atmosfera della casa borghese di un amico, partendo dalla scoperta e dalla divertita osservazione di un prezioso tappeto appeso sul muro, dal padre, per sottrarlo alla polvere e alle macchie, a orme di suole infangate:

S’avvicina al museo della sua gioventù
per tanti fili raccolti in un sentiero
del bosco pastello. Su un cavallo nero,
lui, un gentiluomo accanto ad uno bianco
sellato da donna, contenuta nel crespino
intrecciando la gonna gonfia ad un gesto
che fiorisce al ritornello di un flauto
suonato per accigliar il fanciullo
piegato il polso esilmente preceduto
dai levrieri, sulla coda dell’occhio

sorvola oltre i salici del fiume. Laggiù,
scalzo, nella foce, arranca il giovanetto
dentro la sua spelonca...

La cura descrittiva, si scoprirà nel finale qui non riportato, non serve in fondo che a rafforzare la critica nei confronti di questo mondo èlitario, chiuso, “il museo della gioventù” dell’amico: un mondo che, come il tappeto sottratto all’usura, allo sporco, sottrae gli anni giovani, gli anni dell’esperienza, attraverso i veti, le proibizioni, al contatto con l’esistenza. Nessuna vena nostalgica affiora da questa descrizione, nessuna volontà di recupero della classicità. Piuttosto, anche qui, torna la constatazione di quanto, in ogni epoca, le pulsioni vitali continuino ad essere imprigionate, ingabbiate, come in questo caso, in un’idea di ordine, di pulizia che si rispecchia - nella sua gelida fissità - in una immagine dorata di morte.
Libero dunque di attingere con assoluta libertà a tutto ciò che lo attrae, dotato di una rara sensibilità musicale nei confronti del valore fonico della parola e amante dei giochi verbali che riflettono il suo humor tagliente, provocatorio al limite dello scandalo, i suoi primi componimenti ( come il precedente ‘“Nel salotto” apparsi su “CorRispondenze” 1) mettevano bene in luce questi due aspetti della sua personalità oscillante, da sempre, tra satira ed elegia, come in “Da Hiroshima a Tudjman”, in cui un’offensiva immagine di cronaca diviene l’emblema, ciclicamente riproposta sotto diverse spoglie, dell’arroganza del potere:

Oggi,
nel caldo
d’agosto
croato
scio
glien
dosi nel
gelato
leccato
dal capo
dello stato
nella piazza più vasta
del popolo, cerca sotto il porfido
un rifugio nel brio del gesto messo in onda,
mentre le gru sbattono un ombra d’accordo.

O, sempre tra i testi pubblicati su “CorRispondenze”, il finale di questa poesia, “Dalla Basilica d’Aquileia, verso Trieste”, tra le più intense della sua prima produzione:

...Un angelo
sbatte conti
con le ali
attaccate in una chiazza
di petrolio, dove una balena
più bloccata di quella d’Aquileia,
ormai arcaica, galleggia
sulla Bora della baia,
per inghiottire l’elegia
nella quale nessun poeta
o profeta, nenche Giona,
ha la fiaccola
il farmaco
o la fede
per morire.

Il lavoro di Charls Ward si delinea dunque come “un affresco inquietante e potente della società odierna, rappresentata con la consapevolezza lucida e spietata che viene offerta da una imagerie anticonvenzionale, libera di viaggiare” 2).
Ma è, forse, quando più intensamente emerge la sua componente elegiaca, lirica, che questo poeta raggiunge i suoi risultati più alti. Un’elegia attuale e sempre attraversata paradossalmente, in fondo, da una componente eversiva, di scandalo, che deriva dal bisogno di cercare un riscatto salvifico attraverso un illimitato denudamento di sé, in una confessione in cui la propria vita interna, intima viene esposta rivoltando all’esterno tutto ciò che il senso comune tiene accuratamente nascosto, sprofondato nella sfera dell’indicibile:

Lo sguardo era più contorto
sul tuo volto, in quel momento
di calma, seduto a tavola,
che prima, quando fino al gomito
ero dentro di te.

Eros, nella sua forma più cruda e umorale, estrema fino allo spossessamento di sé, e Thanathos: due temi che ritornano spesso nelle poesie di Charls Ward, collegati spesso a quello della cucina ( di cui è un raffinato cultore), del cibo in cui la materia prima si trasforma alchemicamente, attraverso la cottura e i succhi gastrici, in qualcosa d’altro, in un mescolarsi di piacere sensuale e distruzione da cui la vita trae continuo nutrimento. Ma anche questo, sempre, secondo precisi rituali in cui si inserisce - classicamente - quello del corteggiamento, della preparazione all’incontro erotico, con le sue attese, la caccia e la fagocitazione della preda, come accade, descritto con ironia, nei versi de “L’acquerello dal mosto cotto”:

I miei capelli, pochissimi, quasi neri, quasi
rasati con un’accetta, forse lanciata
dalle tue sarde (in saor?) ma devo aspettare

di pescare per assaggiare, e nella mia ansia
preferisco una ricetta giapponese per tagliarti
come sushi...

Nominare l’oscuro diventa nel suo caso anche il modo per poter, oltre la presente falsificazione generalizzata di ogni cosa, accedere all’autentico, ad una verità possibile se non definitiva, per essere se stessi e vivere - di conseguenza - secondo le proprie inclinazioni o pensieri. Vedendo riconosciuta, e non semplicemente tollerata, la propria diversità. In questo senso, anche nelle sue forme più disimpegnate, la poesia di questo autore va vista come mai gratuita ma piuttosto, come diceva di Pasolini Zanzotto parlando del destino della nostra poesia attuale, come il segno di uno “squartamento fisico in atto” 3), una rappresentazione rituale del lato rimosso della realtà che obbliga il lettore a confrontarsi, attraverso l’exemplum dato dal poeta, con la sua parte in ombra. Ombra che il mondo allontana da sé allontando, attraverso l’emarginazione, il confino dalla società, chi la èvoca, chi ne diventa - a volte anche inconsapevolmente -il traduttore, Ombra di morte, anche, che il poeta avvicina, porta qui, ora, per non ritrovarsi poi, esaurita e bruciata ogni lontananza tra noi e il suo respiro, impreparati e senza argomenti - come di fronte ad un ospite inatteso - ad affrontarla.
Questa rinuncia a difendersi, a difendere il proprio spazio intimo dallo sguardo altrui (nel verso che scola dalle vene della propria carne denudata, esposta alla luce del sole come nei mercati le carcasse infiorate degli agnelli tra la gente, gli sguardi accecati dallo spettacolo della morte) appare allora- nella sua vulnerabilità mai così evidente, vicina e palpabile - come una estrema, problematica richiesta d’amore se è soltanto denunciandone la miseria, per salvarlo, condividendone la fragilità, che si dà forse la sola forma possibile di amore vero nei confronti dell’altro.
Non c’è, forse, umanità che non passi attraverso l’abbraccio a ciò che di più terribile può colpire l’uomo. Ciò che con tutte le forze respingiamo - la malattia, la morte - rimane sempre, allora, il varco attraverso cui accedere ad una maggiore consapevolezza di sé, ad una vera comprensione del dolore altrui:

...”non preoccuparti, o figlio mio, so che c’è
tanto da fare prima dell’appuntamento,

ma ci sarà anche più di un momento
per il té alle cinque, e dunque fino alle sei
magari, o meglio ancora le sette non devi

correre, o girare troppo le mani perchè
sei nelle mie mani, quindi calmati
i polmoni nel mio respiro”.

Senza questo confronto, rifiutando di scegliere “il difficile” come ricordava Rilke, il dialogo tra gli uomini non può che rimanere in superficie, la vuota iridescenza di una macchia oleosa sull’acqua del tempo, in balìa di preconcetti, luoghi comuni che avvolgono, come una nebbia impenetrabile, la realtà. Se però l’esigenza primaria resta ancora quella di giungere, attraverso la parola poetica, all’essenza delle cose, come accade in questi versi, se continua a tremare viva nel buio dentro di sé la fiamma della ricerca, nel tentativo di spezzare ogni definizione codificata e vedere con occhi diversi, occhi sgombri da ogni preconcetto la realtà, tutto di noi, sempre, in ogni occasione dovrebbe essere rimesso in discussione. Rigettando ogni giustificazione e sciogliendosi, come dice Zolla, “dalla sudditanza dal diritto” 4).
Chi non è disposto a rinunciare alla propria vita, parafrasando le parole dei Vangeli, è destinato a perderla. Anzi, seguendo da vicino la storia di queste liriche e di questo autore, niente si può sperare d’avere se non si ha più, definitivamente, nulla da perdere. Ogni parola qui, detta come se fosse l’ultima, si inscrive in una luce definitiva. Il domani, mai dato per scontato, è sempre qualcosa in più, un dono immenso ma di cui non si può essere mai certi. Parte di un tempo, comunque, già contato. L’ultima parte della sabbia che scende, rapida, dalla clessidra, immagine di

quanto è passato, quanto rimane.

Mi sembra che sempre di più Charls Ward, nella sua religiosità intensa, puramente eversiva, tenda a incarnare nel proprio corpo e nella propria parola, così indissolubilmente legati, questa consapevolezza, la luce profonda di questo messaggio. La mezzanotte soffiata dal presente, non più ieri e non ancora oggi, culmine buio in cui si incrocia ciò che se ne va con ciò che arriva, diventa l’immagine duratura di ogni istante, perché è sempre, in ogni momento, mezzanotte: punto sospeso, in cui ardiamo irriconoscibili, tra due assenze:

...scorre scade il tempo
che versa e consuma il poco rimasto si getta
nel presente che soffia “cade la mezzanotte”
ed ormai non stiamo né tu né io ci siamo”.


Note

1) “Nel salotto”, poesie inedite di Renato Alfresco a cura e con un’intervista di Alberto Laudato, in “CorRispondenze”, Anno I, n. 1, edizioni Kappa vu, Udine, marzo-aprile 1996, pp. 25-33.

2) Nota di Alberto Laudato sempre in “CorRispondenze”, Anno I, n. 1, edizioni Kappa vu, Udine, marzo-aprile 1996, pg. 25.

3) Andrea Zanzotto, Aure e disincanti nel Novecento letterario, Mondadori, 1994.

4) Elémire Zolla, Uscite dal mondo, Adelphi Edizioni, Milano, 1992.






Calaf, oppure caro Giulio,

Domenica scorsa, anzi ieri a Venezia

pioveva freddo, e sono entrato nel museo
della Fondazione Querini Stampalia, dove
mi ha impressionato molto un ritratto
di Vincenzo Catena, che ha dipinto
nella mano di Giuditta una spada
conficcata nella testa di Giovanni
Battista. Lo sguardo della tentatrice
cosciente d’essere complice della storia,
ti fa partecipe della sua, e ti colpisce
la precisione del suo gelo, che mi ricorda
Turandot, alla quale indirizzò,
la sua scriba, queste parole:

Io, profugo dal mio paese nativo
di nessuno e nessuna parte di niente
a parte il mio corpo insano che pulsa
impuro e bastardo, vincerò, io
che non conosco il mio nome vero,
figlio di buona donna sconosciuta.
Potrei essere il principe ignoto,
separato dal suo regno, potrei
essere la schiava che ne ha salvato
il padre, e innamorata del figlio
anch’egli da lei salvato (che potrebbe
essere me) fino alla fine non voluta

ma necessaria per proteggermi da lei,
dal secondo dei Suoi enigmi: la morte,
che preferirei saltare per proteggere
la mia identità come fosse soltanto
una piccola crepa il non crepare
troppo giovane come se io avessi
scelto questa malattia, come fosse
il mio titolo da Lei selezionato. Potrei
essere Puccini reincarnato, ma impaurito
di fallire, secondo i critici,
per la seconda volta nel cercare
un capolavoro; e quindi scelgo

la non scelta di non iniziarlo, come fossi
già decapitato da Lei...ahimè...un termine
di lamento ben adatto per tutte le pesti
mortali, portandoci al termine del silenzio
immortale che ci spaventa, la sua inumanità,
principessa di gelo...Se potessimo sopravvivere
fino all’alba forse Lei non avrebbe bisogno
di vendicare i suoi antenati, con le vite
dei miei compagni reali, illustri, sacrificati
in modo ignobile, destinati a suonare
il Suo gong, la sua campana sotto La Scala
immobile, zitti nel rispondere

agli enigmi lanciati in sfida, Principessa
Virus, i Suoi soldati caduti come T cellule
della Sua perfidia virtuosa, che non ci perdona
che non ci salva, che non ci permette quell’attimo
di grazia tramontata magenta sulle ali del cigno
mentre suona la penombra sulle acque parmensi.
Lì nel giardino di Maria Luigia (più graziosa di Lei
che ci decapita), nell’ottantatrè ho riflettuto
su quella che sarebbe stata la mia vita
fra vent’anni e non avrei mai immaginato
che avrei cantato come il cigno, avendo
compiuto soltanto trentasei anni, un’opera

incompleta di speranza. Ed al punto in cui
si è spento il maestro Giacomo, alla prima
si è fermato Toscanini, un altro parmigiano,
in omaggio; ma nessuno si fermerà per me
neanche un secondo, Turandot, io il Suo apostolo
fottuto, che lascerà la sua Pechino senza l’invito
d’entrare nella città che per me rimane
proibita. Il terzo enigma...Amore?
E’ questa la risposta? E’ questo il rimedio?
E’ questo l’oppio che dovrei fumare
per andarmene, oppure devo piangere
in solitudine vicino al muro, per fracassarlo

con il mio urlo reso stonato da Lei, Turandot,
che uccide non soltanto i soprani (estendendo
la voce in contorsioni imperiali) ma anche
i bassi più plebei, e me fra loro,
cresciuto per essere un principe
amnesiaco, i peccati precedenti
ben nascosti finché Lei
sul Suo trono mi starà davanti
minacciosa. Mi chiamerebbe per la mia
sentenza, principessa, se conoscesse come
mi chiamo, il mio vero nome? Ed io Giulio,
cambiando discorso ma non tanto, non conosco

il tuo cognome, che tu difendi da me ad ogni costo
e che, se lo permetti, io difenderò come se fosse
Cesare, per me non sarai ignoto mai, e sempre onorato
come un re...tu mi rimpatri ed io rinasco
nello scoprire...che sei tu il mio
paese, il mio non morire.



Adagio per clessidra e teiera

per F.P.



Sono le ore cinque e un’ora e mezza fa
mi sono svegliato tossendo il catarro
di cinque anni che stiamo respirando.

Il suo spessore leggero all’inizio,
un sollievo per me che ho sempre il peso
di quest’orologio sulle spalle, dove non ho

occhi per leggere il tempo, quanto è passato,
quanto rimane. Credevo di averti dietro di me
come un venticello sospirante nell’orecchio

un bel ricordo dove t’avrei sentito recitare
“non preoccuparti, figlio mio, so che c’è
tanto da fare prima dell’appuntamento,

ma ci sarà anche più di un momento
per il té alle cinque, e dunque fin alle sei
magari, o meglio ancora le sette non devi

correre e girare troppo le mani perché
sei nelle mie mani, quindi calma i tuoi
polmoni nel mio respiro”. Ma altrove

pensavo che fosse soltanto un giro
d’aria che sentivo sul collo, troppo lento
e sottile per trombarmi verso il mio destino.

Ed in premura ho corso vorace nella distanza
fantasmagorica, portandola vicino alle labbra
per baciarla sotto il vischio qui appeso

su un filo di vento, che nella mia umidità
è diventa sputo, così denso da non permettere
nemmeno al pianto della pioggia di bagnarmi

ed ho bisogno di sapone e d’una doccia calda
e te per toccare quella parte della schiena
dove non arrivo da solo dietro il cuore, e vorrei

che siano le tue lacrime a lavarmi
ed il loro sale nelle tue mani per asciugarmi
e più che altro i tuoi occhi per controllare

l’orologio pesante sulle spalle dietro la gola
ingombrata di catarro, la preghiera della sveglia
“che ora è?”. La risposta infusa ed emessa

dalla tasca buia tagliata aperta nella tazza
rotta sulla schiena, il vetro decomposto in sabbia
dalla clessidra scivola scorre scade il tempo

che versa e consuma il poco rimasto, si getta
nel presente che soffia “cade la mezzanotte”
ed ormai non stiamo né tu né io ci siamo.


Cade la mezzanotte

E’ impossibile scrivere su se stessi in modo
più vero di quanto non si sia veri. Questa
è la differenza fra scrivere su di sé e su
cose esterne. Su se stessi si scrive esattamente
quel tanto che siamo alti; qui non si sta sui
trampoli o su una scala, ma sui nostri piedi.

Ludwig Wittgestein, Pensieri Diversi.



Se sempre la parola poetica, come scriveva Paul Celan, è rivolta verso un tu, non è mai possibile sapere - in partenza - quale volto, quale precisa e concreta fisionomia questo tu incarni. Affidato alle onde dei giorni, del tempo, vicina o risplendente in una lontananza ignota la riva - la sabbia bianca su cui il messaggio si arena - rimane, per chi scrive, un approdo sognato ma, sempre, imprevedibile.
Chi cerca attrae come un richiamo lanciato nell’invisibile, magneticamente, verso di sé ciò che lo può aiutare, guidare, e che può presentarsi allora sotto forma di persona, di segni o suoni, di parole. Possiamo allora scoprire che il tesoro che cercavamo lontano, come nella nota favola sufi, era sepolto sotto la nostra casa oppure che, convinti di stringerlo tra le dita, quell’oro non era che il sogno di un oro lontano verso cui dobbiamo ancora incamminarci.
Fiorito lungo crinali d’ombra, l’amore per la lingua e la poesia italiana di Charls Ward risale a quando, ancora residente a Chicago, vagava per le vie di questa città, le sue luminarie e le sue insidie, portando nella sua borsa una serie di lunghi componimenti, lunghe stanze di endecasillabi nate dal suo primo, mai dimenticato incontro con Le ceneri di Gramsci di Pasolini. Questi testi ancora inediti e in parte mai completati rivelano già però una sorprendente confidenza con l’italiano che va oltre l’interesse filologico nei confronti di un’altra lingua e che è, invece, qui il segno della ricerca di una propria lingua interiore, lingua della poesia, di una patria dell’anima se quella reale è destinata, per sempre forse, a rimanere ignota:

Io che non conosco il mio nome vero,
figlio di buona donna sconosciuta,
potrei essere il principe ignoto
separato dal suo regno...

Il suo viaggio di moderno Nessuno in esilio, bruciando nelle zone più oscure, estreme della realtà, ogni legame con il mondo e le sue convenzioni, lo ha portato ad approdare - segnato da una tragica consapevolezza del valore di ogni istante vissuto - ad una moderna, frammentata Itaca, a questo paese sempre così lontano, nei suoi splendori e nelle sue ombre, dall’immagine stereotipata di chi lo immagina dall’esterno.
In questa ricchezza di paesaggi sempre diversi, di memorie storiche, di profumi e sapori, di linguaggi differenti di zona in zona, in questa ardente onda magmatica in cui ogni cosa rimane travolta mescolandosi e fondendosi con ciò che la circonda, la sensibilità di questo poeta sembra aver dunque trovato la possibilità di incanalarsi e riemergere dal buio, come un’acqua carsica, sotto forma di nuove, sorgive parole. Parole che sfruttano appieno le possibilità espressive e metaforiche dell’italiano ma che, e in questo sta anche il loro valore, non portano su di sé, stancamente, il peso della nostra tradizione letteraria. Una tradizione che Charls Ward conosce bene, che cita di continuo, ma dalle cui secche, istintivamente, sa portarsi in salvo, con la sicurezza di chi presente la vicinanza di un pericolo e immediatamente lo scansa. Non si sente in debito, come accade a molti dei nostri poeti, nei confronti di coloro che li hanno preceduti. Autori le cui colpe, assieme ai meriti, sembrano ricadere come quelle inevitabili (secondo il detto) dei padri sui figli. Una pena che bisogna, volenti o nolenti, scontare fino in fondo ma da cui Charls Ward è, com’è ovvio, esonerato. Libero dunque di attingere con assoluta libertà a tutto ciò che lo attrae, dotato di una rara sensibilità musicale nei confronti del valore fonico della parola e amante dei giochi verbali che riflettono il suo humor tagliente, provocatorio al limite dello scandalo, i suoi primi componimenti mettevano bene in luce questi due aspetti della sua personalità oscillante, da sempre, tra satira ed elegia.

Il lavoro di Charls Ward si delinea così come “un affresco inquietante e potente della società odierna, rappresentata con la consapevolezza lucida e spietata che viene offerta da una imagerie anticonvenzionale, libera di viaggiare” 1). Una morsura , lampeggiante ed umorale, che penetra a fondo nei segni senza protezione, esposti dell’esistenza. Ma è, forse, quando più intensamente emerge la sua componente elegiaca, lirica, che questo poeta raggiunge i suoi risultati più alti. Un’elegia attuale e sempre attraversata paradossalmente, in fondo, da una componente eversiva, di scandalo, che deriva dal bisogno di cercare un riscatto salvifico attraverso un illimitato denudamento di sé, in una confessione in cui la propria vita interna, intima viene esposta rivoltando all’esterno tutto ciò che il senso comune tiene accuratamente nascosto, sprofondato nella sfera dell’indicibile. Eros, nella sua forma più cruda e umorale, estrema fino allo spossessamento di sé, e Thanathos: due temi che ritornano spesso nelle poesie di Charls Ward, collegati spesso a quello della cucina ( di cui è un raffinato cultore), del cibo in cui la materia prima si trasforma alchemicamente, attraverso la cottura e i succhi gastrici, in qualcosa d’altro, in un mescolarsi di piacere sensuale e distruzione da cui la vita trae continuo nutrimento. Ma anche questo, sempre, secondo precisi rituali in cui si inserisce - classicamente - quello del corteggiamento, della preparazione all’incontro erotico, con le sue attese, la caccia e la fagocitazione della preda. Nominare l’oscuro diventa nel suo caso anche il modo per poter, oltre la presente falsificazione generalizzata di ogni cosa, accedere all’autentico, ad una verità possibile se non definitiva, per essere se stessi e vivere - di conseguenza - secondo le proprie inclinazioni o pensieri. Vedendo riconosciuta, e non semplicemente tollerata, la propria diversità. In questo senso, anche nelle sue forme più disimpegnate, la poesia di questo autore va vista come mai gratuita ma piuttosto, come diceva di Pasolini Zanzotto parlando del destino della nostra poesia attuale, come il segno di uno “squartamento fisico in atto” 3), una rappresentazione rituale del lato rimosso della realtà che obbliga il lettore a confrontarsi, attraverso l’exemplum dato dal poeta, con la sua parte in ombra. Ombra che il mondo allontana da sé allontando, attraverso l’emarginazione, il confino dalla società, chi la èvoca, chi ne diventa - a volte anche inconsapevolmente -il traduttore, Ombra di morte, anche, che il poeta avvicina, porta qui, ora, per non ritrovarsi poi, esaurita e bruciata ogni lontananza tra noi e il suo respiro, impreparati e senza argomenti - come di fronte ad un ospite inatteso - ad affrontarla.


Questa rinuncia a difendersi, a difendere il proprio spazio intimo dallo sguardo altrui (nel verso che scola dalle vene della propria carne denudata, esposta alla luce del sole come nei mercati le carcasse infiorate degli agnelli tra la gente, gli sguardi accecati dallo spettacolo della morte) appare allora- nella sua vulnerabilità mai così evidente, vicina e palpabile - come una estrema, problematica richiesta d’amore se è soltanto denunciandone la miseria, per salvarlo, condividendone la fragilità, che si dà forse la sola forma possibile di amore vero nei confronti dell’altro.
Non c’è, forse, umanità che non passi attraverso l’abbraccio a ciò che di più terribile può colpire l’uomo. Ciò che con tutte le forze respingiamo - la malattia, la morte - rimane sempre, allora, il varco attraverso cui accedere ad una maggiore consapevolezza di sé, ad una vera comprensione del dolore altrui.

Senza questo confronto, rifiutando di scegliere “il difficile” come ricordava Rilke, il dialogo tra gli uomini non può che rimanere in superficie, la vuota iridescenza di una macchia oleosa sull’acqua del tempo, in balìa di preconcetti, luoghi comuni che avvolgono, come una nebbia impenetrabile, la realtà. Se però l’esigenza primaria resta ancora quella di giungere, attraverso la parola poetica, all’essenza delle cose, come accade in questi versi, se continua a tremare viva nel buio dentro di sé la fiamma della ricerca, nel tentativo di spezzare ogni definizione codificata e vedere con occhi diversi, occhi sgombri da ogni preconcetto la realtà, tutto di noi, sempre, in ogni occasione dovrebbe essere rimesso in discussione. Rigettando ogni giustificazione e sciogliendosi, come dice Zolla, “dalla sudditanza dal diritto” 4).
Chi non è disposto a rinunciare alla propria vita, parafrasando le parole dei Vangeli, è destinato a perderla. Anzi, seguendo da vicino la storia di queste liriche e di questo autore, niente si può sperare d’avere se non si ha più, definitivamente, nulla da perdere. Ogni parola qui, detta come se fosse l’ultima, si inscrive in una luce definitiva. Il domani, mai dato per scontato, è sempre qualcosa in più, un dono immenso ma di cui non si può essere mai certi. Parte di un tempo, comunque, già contato. L’ultima parte della sabbia che scende, rapida, dalla clessidra, immagine di

quanto è passato, quanto rimane.

Mi sembra che sempre di più Charls Ward, nella sua religiosità intensa, puramente eversiva, tenda a incarnare nel proprio corpo e nella propria parola, così indissolubilmente legati, questa consapevolezza, la luce profonda di questo messaggio. La mezzanotte soffiata dal presente, non più ieri e non ancora oggi, culmine buio in cui si incrocia ciò che se ne va con ciò che arriva, diventa l’immagine duratura di ogni istante, perché è sempre, in ogni momento, mezzanotte: punto sospeso, in cui ardiamo irriconoscibili, tra due assenze.

Note

1) Nota di Alberto Laudato sempre in “CorRispondenze”, Anno I, n. 1, edizioni Kappa vu, Udine, marzo-aprile 1996, pg. 25.

3) Andrea Zanzotto, Aure e disincanti nel Novecento letterario, Mondadori, 1994.

4) Elémire Zolla, Uscite dal mondo, Adelphi Edizioni, Milano, 1992.






Calaf, oppure caro Giulio,

Domenica scorsa, anzi ieri a Venezia

pioveva freddo, e sono entrato nel museo
della Fondazione Querini Stampalia, dove
mi ha impressionato molto un ritratto
di Vincenzo Catena, che ha dipinto
nella mano di Giuditta una spada
conficcata nella testa di Giovanni
Battista. Lo sguardo della tentatrice
cosciente d’essere complice della storia,
ti fa partecipe della sua, e ti colpisce
la precisione del suo gelo, che mi ricorda
Turandot, alla quale indirizzò,
la sua scriba, queste parole:

Io, profugo dal mio paese nativo
di nessuno e nessuna parte di niente
a parte il mio corpo insano che pulsa
impuro e bastardo, vincerò, io
che non conosco il mio nome vero,
figlio di buona donna sconosciuta.
Potrei essere il principe ignoto,
separato dal suo regno, potrei
essere la schiava che ne ha salvato
il padre, e innamorata del figlio
anch’egli da lei salvato (che potrebbe
essere me) fino alla fine non voluta

ma necessaria per proteggermi da lei,
dal secondo dei Suoi enigmi: la morte,
che preferirei saltare per proteggere
la mia identità come fosse soltanto
una piccola crepa il non crepare
troppo giovane come se io avessi
scelto questa malattia, come fosse
il mio titolo da Lei selezionato. Potrei
essere Puccini reincarnato, ma impaurito
di fallire, secondo i critici,
per la seconda volta nel cercare
un capolavoro; e quindi scelgo

la non scelta di non iniziarlo, come fossi
già decapitato da Lei...ahimè...un termine
di lamento ben adatto per tutte le pesti
mortali, portandoci al termine del silenzio
immortale che ci spaventa, la sua inumanità,
principessa di gelo...Se potessimo sopravvivere
fino all’alba forse Lei non avrebbe bisogno
di vendicare i suoi antenati, con le vite
dei miei compagni reali, illustri, sacrificati
in modo ignobile, destinati a suonare
il Suo gong, la sua campana sotto La Scala
immobile, zitti nel rispondere

agli enigmi lanciati in sfida, Principessa
Virus, i Suoi soldati caduti come T cellule
della Sua perfidia virtuosa, che non ci perdona
che non ci salva, che non ci permette quell’attimo
di grazia tramontata magenta sulle ali del cigno
mentre suona la penombra sulle acque parmensi.
Lì nel giardino di Maria Luigia (più graziosa di Lei
che ci decapita), nell’ottantatrè ho riflettuto
su quella che sarebbe stata la mia vita
fra vent’anni e non avrei mai immaginato
che avrei cantato come il cigno, avendo
compiuto soltanto trentasei anni, un’opera

incompleta di speranza. Ed al punto in cui
si è spento il maestro Giacomo, alla prima
si è fermato Toscanini, un altro parmigiano,
in omaggio; ma nessuno si fermerà per me
neanche un secondo, Turandot, io il Suo apostolo
fottuto, che lascerà la sua Pechino senza l’invito
d’entrare nella città che per me rimane
proibita. Il terzo enigma...Amore?
E’ questa la risposta? E’ questo il rimedio?
E’ questo l’oppio che dovrei fumare
per andarmene, oppure devo piangere
in solitudine vicino al muro, per fracassarlo

con il mio urlo reso stonato da Lei, Turandot,
che uccide non soltanto i soprani (estendendo
la voce in contorsioni imperiali) ma anche
i bassi più plebei, e me fra loro,
cresciuto per essere un principe
amnesiaco, i peccati precedenti
ben nascosti finché Lei
sul Suo trono mi starà davanti
minacciosa. Mi chiamerebbe per la mia
sentenza, principessa, se conoscesse come
mi chiamo, il mio vero nome? Ed io Giulio,
cambiando discorso ma non tanto, non conosco

il tuo cognome, che tu difendi da me ad ogni costo
e che, se lo permetti, io difenderò come se fosse
Cesare, per me non sarai ignoto mai, e sempre onorato
come un re...tu mi rimpatri ed io rinasco
nello scoprire...che sei tu il mio
paese, il mio non morire.



Adagio per clessidra e teiera

per F.P.



Sono le ore cinque e un’ora e mezza fa
mi sono svegliato tossendo il catarro
di cinque anni che stiamo respirando.

Il suo spessore leggero all’inizio,
un sollievo per me che ho sempre il peso
di quest’orologio sulle spalle, dove non ho

occhi per leggere il tempo, quanto è passato,
quanto rimane. Credevo di averti dietro di me
come un venticello sospirante nell’orecchio

un bel ricordo dove t’avrei sentito recitare
“non preoccuparti, figlio mio, so che c’è
tanto da fare prima dell’appuntamento,

ma ci sarà anche più di un momento
per il té alle cinque, e dunque fin alle sei
magari, o meglio ancora le sette non devi

correre e girare troppo le mani perché
sei nelle mie mani, quindi calma i tuoi
polmoni nel mio respiro”. Ma altrove

pensavo che fosse soltanto un giro
d’aria che sentivo sul collo, troppo lento
e sottile per trombarmi verso il mio destino.

Ed in premura ho corso vorace nella distanza
fantasmagorica, portandola vicino alle labbra
per baciarla sotto il vischio qui appeso

su un filo di vento, che nella mia umidità
è diventa sputo, così denso da non permettere
nemmeno al pianto della pioggia di bagnarmi

ed ho bisogno di sapone e d’una doccia calda
e te per toccare quella parte della schiena
dove non arrivo da solo dietro il cuore, e vorrei

che siano le tue lacrime a lavarmi
ed il loro sale nelle tue mani per asciugarmi
e più che altro i tuoi occhi per controllare

l’orologio pesante sulle spalle dietro la gola
ingombrata di catarro, la preghiera della sveglia
“che ora è?”. La risposta infusa ed emessa

dalla tasca buia tagliata aperta nella tazza
rotta sulla schiena, il vetro decomposto in sabbia
dalla clessidra scivola scorre scade il tempo

che versa e consuma il poco rimasto, si getta
nel presente che soffia “cade la mezzanotte”
ed ormai non stiamo né tu né io ci siamo.

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