giovedì 6 novembre 2008

Gianni D'Elia: verso Pordenone e il mondo


VERSO PORDENONE E IL MONDO



Tal sercli net da li pupilis
dai zovinùs in cieris lontanis
il sigu nòuf da li sisilis,
il veciu ciant da li ciampanis
a colin sensa scaturìju.

<>
e dis-ciapinela pal sulisu
a cor a vistisi par zì ju
in Glisia pai ciamps zà clars.

A torna ch’a son un puc pì clars.
A stissa il fòuc, a met a boj
il lat, a distira tai bars
li intimelis blancis, i ninsoj.
A svualin intor li òdulis.
I fis sot il biel suf biont,
a vuardin sensa pì jodilis:
a àn dismintiàt li so sfiòndis
zint ju viers Pordenon e il mont.

Pier Paolo Pasolini



Il treno ricomincia a rallentare. Poco a poco, emergendo dal caos informe in cui fino a un momento prima erano immersi, riemergono timidi, quasi indecisi i lineamenti della campagna friulana. La linea è quella che porta da Trieste, facendo scalo a Udine, a Venezia. Nel capoluogo friulano bisogna scendere per cambiare. Lungo i corridoi, in cerca del proprio binario, si incontrano tra studenti con cappellini, giubbotti tutti uguali e le immancabili Nike ai piedi, gli sguardi tristi dei soldati e le prime prostitute di colore che si dirigono, in vista della notte, verso Trieste o Pordenone. Assonnate, senza trucco, sono vestite con tute da ginnastica, magliette anonime su cui si adagiano, spesso, cupe cascate di treccine ornate di conchiglie. Molte di loro vengono dalla Nigeria o dalla Sierra Leone; alcune, le più allegre tra loro, probabimente da qualche zona del Sud America. Parlano in uno strano spagnolo, o forse portoghese, incupito dalla lontananza, dalle loro voci profonde, nasali. Si capisce, da subito, che quello che in questo momento si riflette nei loro occhi è un mondo freddo, destinato a rimanere, forse per sempre, estraneo.
Ci sono spazi, come questi, in cui ci si trova come cadendo nel vuoto. Niente a cui potersi aggrappare. In cui anche rimanere fermi ad aspettare non dipende mai da noi. Ma da orari prestabiliti o, spesso, dai sempre più numerosi ritardi. Allora, anche se il treno che arriva si sa, come accade con questo, che ripartirà solo fra mezz’ora, salire in fretta, quasi facendosi strada tra quelli che scendono, del tutto illogicamente, appare come una specie di liberazione. L’importante è passare in un altro luogo, un altro spazio. Trovare, sdraiandosi sui sedili, una collocazione. Un punto fisso da cui affacciarsi e tornare magari a fissare, con altri occhi, quello che fino a poco prima era assorbito senza scampo dal vuoto. Operai che agganciano le carrozze tatuate durante la notte con le bombolette spray; il venditore di panini, un colombo che scende in volo sul marciapiede di pietra chiara, lisciata da migliaia di passi.

Lentamente prima, poi sempre più veloce, il treno riparte. Poco fuori città, oltre i caseggiati della periferia, si tornano a rivedere i primi pioppeti, qualche gelso, le rogge che scandiscono ritmicamente le distese dei campi. Man mano che si va avanti ci si immerge in un’altra atmosfera, diversa da quella udinese, cittadina e borghese, anche se non più - come la descriveva Pasolini - appartenente ad un mondo contadino, arcaico, legato al succedersi ciclico delle stagioni. Rimangono ancora grandi, a volte immensi appezzamenti coltivati a mais, soia, filari interminabili di vigneti, ma i contadini sono rimasti in pochi. Poche decine di famiglie in cui da tempo, alle molte braccia, si sono sostituiti moderni macchinari. Ai lati delle strade le file di salici gialli, che venivano piantate per ricavarne i lacciuoli per legare le viti, sono state sostituite da insegne di faesite dipinta con slogan triti di banche o di grandi magazzini, sexi-shop, cantine sociali.
Certo, la memoria di ciò che era, quell’immagine di terra romanza fissata per sempre nei versi dei poeti dell’Academiuta, riesce ancora a sopravvivere e sovrapporsi, per un momento, a questi segni di morte che l’intaccano e nascondono, come i bozzoli bianchi, nuvolosi delle processionarie gli aghi verdi dei pini. Ma per quanto? Se nulla, forse, sopravvive all’erosione del tempo come la poesia, questo non basta a salvare, però, i luoghi cantati nei suoi versi. Anzi, forse tutto questo non fa che renderne in un certo senso, mantenendo vive davanti agli occhi queste lucenti immagini del perduto, più doloroso il ricordo. Anche se l’occhio capta ancora, e spesso, angoli sperduti di quiete, fitti boschetti di rovi e acacie, muri calcinati di casolari su cui al mattino, come su di una vela tesa, tra le onde terrose dei campi nudi si riflette la prima luce rosata.

* * *

A Casarsa della Delizia, dove Pasolini visse e scrisse i suoi versi friulani, c’è un’altra fermata. Da lì, poco più che adolescente, mi recavo a piedi verso Versuta, un piccolo borgo dove il poeta con sua madre visse durante la guerra. Ci andavo a piedi, forse l’unico vero modo per capire un paesaggio. Di assorbirne i colori, coglierne i profumi. In macchina, ovunque si vada, è da dietro un vetro, ad una velocità non nostra, che attraversiamo i luoghi. Li attraversiamo; ma questo non basta: l’importante è essere attraversati dai paesaggi che incontriamo. Bisogna respirarli, lasciare che penetrino dentro, in ogni fibra, attraverso i pori della nostra pelle.
Anche a Versuta le cose negli anni sono molto cambiate. Resta ancora però presso una casa colonica, segnalata da una targhetta, la fontana cantata nei famosi versi d’apertura delle “Poesie a Casarsa”:

ë ü ç ï ö ä© b ê û î ô â á ú í ó


Fontana di aga dal me paìs.

A no è aga pì fres’cia che tal me paìs.

Fontana di rustic amòur.


Fontana d’acqua del mio paese.

Non c’è acqua più fresca che nel mio paese.

Fontana di rustico amore.

Tra i campi lì vicino si trova anche, mezzo diroccato e senza più il tetto, il “Casél”, una piccolissima costruzione in muratura per tenere gli attrezzi dove, durante la guerra, Pasolini faceva da maestro ai bambini della zona. Rami di alberi entrano dalle finestre senza vetri in quel luogo in cui - esperienza quasi unica in Italia - venivano discussi versi di Penna e Machado, Caproni e Lorca. Nascevano qui, tra i campi, poesie nuove e traduzioni in friulano dallo spagnolo, dal catalano, dall’inglese, mentre si andavano formando alcune delle maggiori personalità della cultura friulana del nostro tempo. Una lezione, dopo quasi mezzo secolo, mai appresa, o solo in minima parte, dal nostro sistema scolastico. Destinata a consumarsi, probabilmente, tra quelle macerie. Macerie che però, riprendendo un pensiero di Wittgestein, diventeranno “ alla fine un mucchio di cenere, ma sulla cenere aleggeranno spiriti”.
A Versuta abita ancora Ernesta, una gentile contadina che aveva affittato una stanza a Pasolini e a sua madre quando Casarsa, per via dei bombardamenti, era diventata troppo pericolosa. Racconta di quando morì Guido, il fratello, nella strage di Pòrzus, e Susanna rimase per giorni abbracciata a Pier Paolo fissando, lontane, le cime azzurrine delle montagne.
Chiacchierando insieme, ogni tanto mi diceva in veneto: “Pasolini el iera un omo bon, bon”. Sempre gentile e disponibile, era molto amato dalla gente semplice di qui che ancora non si capacita delle modalità della sua morte.
Raccontò, prima di congedarsi, che un giorno gli chiese: “Dimmi, Pier Paolo, poiché io sono ignorante e non capisco queste cose, secondo te, che hai studiato, esiste Dio?”. Lui, dopo un attimo di silenzio, le rispose: ”Dio c’è”. E tornò a ripeterci questa sua risposta fissandoci con un’aria solenne, come a volerla sottolineare meglio, per tre volte di seguito.

Proseguendo ancora si arriva a Codroipo del Friuli, dove vive Amedeo Giacomini. Piccolo di statura, la barba bianca, il suo corpo come il suo sguardo tormentato trasmettono un’energia interna che i malanni fisici, le dure prove che ha dovuto attraversare, non sono riusciti a spegnere. I suoi lineamenti ricalcano la tempesta interiore in cui, fin da giovane, ha dovuto dibattersi. Spirito combattivo, polemico nel voler ristabilire ad ogni costo la verità dei fatti quando la vede minacciata. Parla nelle sue liriche di giorni immersi nel buio crogiolo della malinconia -Tal grin di Saturni, nel grembo di Saturno come dice una sua poesia - ma segnati nel fondo da una “barbara speranza” che lo porta, ugualmente, ogni giorno a tentare di ricominciare daccapo:

ë ü ç ï ö ä© b ê û î ô â á ú í ó


Jo, nassut di zenar,
fì de ploe e de nef,
tampieste tal cour di une mari
ch’a no mi voleve,
scampanotà di cjampanis
a saludà il miò no vole jessi tal mont...
’Ste’ barbare speranze
ch’a ti à fat vivi tal grin dal jessi,
grin di Saturni, ti puarte, madrac vert,
a sbrissa ta lis sfesis,
ombrene malade, gjat avostan...
Il fouc e la sinise, cjalde cjaresse
sul trima dai vues, ti sburtin
ogni di a sercja di scuminsa...


Sulle pareti, tra i molti quadri, pende un lavoro in pelle di Luciano Fabro, il grande artista concettuale, che è anche suo cognato. Ne possiede molti altri, forse anche più belli, ma, dice, non c’è spazio sufficiente. Dietro a lui, invece, si staglia una delle più belle incisioni di Zigaina regalatagli in occasione della pubblicazione del libro Mistieroi- Mistirus, con una prefazione di Padre David Maria Turoldo, in cui appare la sua traduzione in friulano del famoso poemetto di Zanzotto.
Amedeo fuma in continuazione. Spegne nel posacenere già colmo una sigaretta dopo l’altra, affondato nella poltrona del suo salotto, mentre il cane Mozart - il “salvato dalle acque”, l’ultimo di una cucciolata destinato a morire - gli si infila sotto le gambe, guarda incuriosito gli ospiti o si volta verso Sandra, la moglie di Amedeo, in cerca di una carezza. Mozart deriva il suo nome dalle sue insolite qualità canore: più che abbaiare sembra inseguire, con grazia, qualche confusa traccia melodica ascoltata in chissà quale altra vita.


Il cjanut ch’a’ ti sta intor,
botul dols e pelos di cjarina
quant che il cour, lat d’ aghe lamie,
al trime intal glas di une vite
ch’ ’a ti rive al sveati svintade,
chel bastart squasi ros che il segret
al cognos dal sta par sé sense dole-si
se il fret distac di cheatris
a’ lu insit sicu piere tal quadri,
al dà la misure, bajant,
dal tiò jessi siarade e lontane...
(...)

Il cagnolino che ti sta intorno,
botolo peloso e dolce da accarezzare
quando il cuore, lago d’acqua insipida,
trema nel ghiaccio di una vita
che ti giunge al risveglio portata dal vento,
quel bastardo quasi rosso che il segreto
conosce dello stare per sé senza dolersi,
se il freddo distacco dagli altri
lo incide come pietra nel quadro,
dà la misura, abbaiando,
del tuo essere chiusa e lontana...

Giacomini, come anche Ida Vallerugo, si è dedicato alla scrittura in friulano dopo aver iniziato come apprezzato narratore e poeta in italiano. E, anche in questo caso, l’occasione scatenante è stata il terremoto, come una sveglia che abbia bruscamente riportato alla realtà, alla propria prima esperienza della realtà, due tra i più raffinati sperimentatori in lingua della nostra regione. Come un conto in sospeso, dimenticato nel tempo, che chiedeva di essere saldato. Un appuntamento, di cui non si sapeva nulla, ma che ugualmente non si poteva più rimandare.
Oltre a Pasolini, oggi, è difficile trovare un altro autore in Friuli della statura di Giacomini: opera dopo opera, fino alle ultime, altissime prove, la sua produzione lirica si è imposta come una delle esperienze più importanti nella storia della letteratura italiana (anche se, a differenza degli altri grandi nomi della poesia in dialetto tutti editi da grande case editrici, i piccoli, molto raffinati editori con cui ha pubblicato, non sono mai riusciti a farlo conoscere bene al grande pubblico ). Filologo finissimo, traduttore dal francese, di testi provenzali e dell’Historia Longobardorum di Paolo Diacono, dirige tra l’altro la fondamentale rivista dedicata ai dialetti Diverse Lingue. E’, inoltre, un grande conoscitore degli uccelli e questa sua esperienza è confluita nei suoi due trattatelli intitolati L’arte dell’andar a uccelli con vischio e L’arte dell’andar a uccelli con reti.
Se la lingua di Pasolini è quella materna, elegiaca, in cui il confronto con la realtà si scioglie sempre in una visione lirica e trasognata, addentrata in una lontananza quasi mitica, il friulano addottato da Giacomini è quello duro, intercalato da imprecazioni violente, dei padri. Il confronto con l’esistenza, nella poesia di Giacomini, non è separato dal diaframma delle mediazioni. Come nella vita, la sua parola penetra direttamente nel cuore delle cose.

A’ si reste chi a regjistrâ events,
suts i vôj, doprant peràulis
ch’a no nus làssin scjamp,
vueits di sens e di spassi
intal reliquiari ch’al fo dai siumps.
E a’ no si vores ch’ ’a si jevassi buere
a tirâ- sú i ôrs dai dîs,
a mostrâju crots intune lûs di vêri.
Li piíssimis mòscjis a’ nus svuàlin intôr
insiliôsis ’romai pluj di vècjus sarpints.
’I lassin lâ la man sul ôr dal sfuej
fermant ancje i zesç.
Un orloj di lontan
al bat intal sanc òris di pene.

Un affondo doloroso, spietato a volte, ma naturalmente votato al canto, come se, nelle sue poesie, anche l’aspetto più brutale della vita non fosse destinato ad altro che a questo: a un canto ininterrotto che, come negli uccelli accecati da richiamo, si conclude solo con la morte. Un’estrema dissipazione di sé fino ad annullarsi, ma che resta il prezzo da pagare per dare una voce all’esistenza che arde dentro di noi.
Perché ciò che distingue subito l’opera di Giacomini, la rende diversa da quella di molti altri scrittori in lingua e in dialetto contemporanei, è proprio la profonda musicalità che permea tutti i suoi versi. E non si tratta, qui, soltanto di lirismo, ma di vera e propria musica, come se, a seconda delle stagioni della vita o degli stati d’animo, egli sia andato componendo di volta in volta un tango o un preludio orchestrale, una composizione corale o un lied, un canto d’amore.

Tu èris pai miei làvris
more madure di morâr.
’A ti rideve tai vôj ’ne dolse sede,
promesse a traimi-four
di là che il sorêli al ere une feride,
aghe clare, lusinte
pa la mê sêt di sbisse
sbrissade fra li’ sfésis dal estât.
O li fiéstis de viarte
su la cise dai rosârs!
Il tió cuarp di agane
al fermave la lûs
tanche sui pètuj li’ pèrlis de rosade.
Strénzilu, peâti
al fo jessi agnul
colât tal cour dal mont,
ta une tiare uarbe di pecjât.
Pò al vigní misdí; pò sere...
Vualive si speglave tai flancs
’ne strache pâs:
al suplît amôr
la glorie dai cuarps scunîts
’a no j bastave.
Ti ài piardude par pôre di no savê
peràulis a disi la fan di té rinade;
j’ ti ài piardude ch’ j’ eri cjoc
inmò di ben e di bieltât...
Amôr, se pùar ch’ al é il lengas de gionde!
Mitût di bande
j’ mi disfâs cumò in tardívis soledâts.

Sono i suoi ultimi lavori comunque, come questi, a rappresentare i vertici della sua produzione. Presumut Unviar e In agris rimis sono i libri della maturità, dell’avvicinarsi dell’ultima stagione della vita. Del farsi inverno, lasciate cadere le foglie come gli alberi, in un’estrema economia dei propri mezzi espressivi per fronteggiare l’attacco del nulla, del gelo. La parola si scarnifica, come restringendosi in un unico punto e rilasciando così, in seguito, la luce limpida nata da questa sempre più tesa concentrazione.


Al cale il soreli sul cil dal mont
turbul ’romai di siumps scuminsats.
Intor de’ cisis, grìviis d’ ombrene,
a’ svuàlin i gnòtui inmubinats.
Tra poc ’a muardarà la suite
i ors de gnot cu dinc dal siò strit
ch’ al plate ogni revoc maturìt.
’A é l’ore di piardi-si in sé
fats grancs di scusse dure
a strenzi il segret dal cour ch’al madure.

Non cambia il paesaggio descritto, ma la volontà di fuga presente nelle sue raccolte iniziali via via scompare per lasciar posto ad un incontro, sentito senza via di scampo, con il proprio destino.


(...) Bisugne impara a resisti.

No a la vìe. No a restâ,
a resisti,
ancje se di sigur
varin smenteanse ancjemò, dolur.

Le opposizioni brucianti, insanabili, che lo hanno tormentato per tutta la vita, tendono allora a dissolversi. Anche il dolore, così a lungo patito, pur senza estinguersi, anzi, sembra oltrepassato e si aprono allora, improvvisi, inattesi, squarci inattesi di liberazione:

In Friuli il rapporto tra musica e poesia, scaturito naturalmente dalla sonorità unica di questa lingua, ha origini antiche che si diramano fin nel presente. Una passione che contagiò anche Pasolini e che mantenne, poi, anche negli anni romani, partendo proprio dalla suggestione delle stupende villotte, le vilotis, caratterizzate come scriveva dalla

brevità metrica, che del resto si fa profonda nell’intimità dei contenuti, e vasta nella melodia: a esprimere come si canta uno spirito a volte ciecamente malinconico come possono esserlo certi sperduti dossi prealpini, di sera, d’inverno; e talvolta colmo invece di un’allegria accoratamente rozza, sgolata, di cui si empiono piazzette e orti nei vespri odorosi, nelle notti tiepide.

A Gradisca di Sedegliano, a pochi chilometri da Codroipo, abita anche il pianista Glauco Venier. Glauco è ancora giovane ma, dopo essersi diplomato in organo, ha intrapreso una carriera nell’ambito del Jazz costellata da numerosi riconoscimenti. Alto, dal fisico imponente, i capelli scuri incorniciano un volto che esprime la sua naturale apertura verso gli altri, verso ogni nuova esperienza creativa. Figura aliena alle mode e sfuggente ad ogni classificazione precostituita, sempre pronto ad affermare con forza il bisogno e il diritto di spaziare liberamente in più campi diversi senza per questo perdere la propria identità, Venier è considerato oggi come uno dei migliori pianisti europei viventi.
Come scriveva recentemente Carlo Boccadoro, in una sua recensione all’ultimo lavoro dell’autore friulano, “L’insiùm”, il pianismo di Venier è “memore dell’esperienza del Jarret di Belonging e My Song eppure perfettamente in grado di affrancarsi da quel modello per esprimere una personalità multiforme. Armato di un solido bagaglio tecnico che gli deriva da un passato di studi classici, Venier unisce l’assoluta bellezza del tocco a un uso molto controllato del virtuosismo, sempre incanalato verso il massimo dell’espressività di fraseggio. Anche le sue improvvisazioni si caratterizzano per un uso molto intelligente della costruzione, in cui ogni elemento è inserito in un nucleo compatto; nulla viene sprecato, tutto ha un senso, e spesso a Venier bastano poche note per creare una costellazione melodica piena di autentica poesia”.
“L’insiùm”, “Il sogno”, è un album di grande bellezza in cui Venier ha rielaborato brani popolari e poesie in friulano dal Cinquecento ai nostri giorni in chiave jazzistica: un atto d’amore nei confronti dei luoghi in cui è nato, al legame antico in questa terra tra musica e parola, con le migliaia di Villotte nella cui lingua preziosa, romanza, il profumo del lontano torna a spirare portato dal vento.

* * *

Pordenone, tra tutte, è forse la città che ha subito più trasformazioni fra quelle del Friuli. A partire proprio dall’uso del friulano che, qui, è stato sostituito da una parlata veneta importata dalla media borghesia quasi a segnare, una volta per tutte, il distacco dal mondo contadino. Da borgo rurale, difatti, nel giro di pochi decenni si è trasformata in uno dei centri industriali del Nord Est.
Le tracce del lavoro iniziato da Pasolini, però, non sono state cancellate. L’amore per la poesia sopravvive nell’opera di molti confluendo in importanti pubblicazioni a cura delle “Edizioni Biblioteca dell’Immagine” e, sopratutto, grazie a Gian Mario Villalta che qui ha portato in una serie di incontri i più importanti poeti italiani, da Fortini a Sanguineti, da Loi all’Anedda.
Alla fine del viaggio, di questo itinerario lungo le tracce di Pasolini e insieme della poesia in friulano, giunto a destinazione, nella torre antica di mattoni che hanno trasformato in una bella enoteca, tra il fumo e il tintinnìo dei bicchieri, guardo Gianni D’Elia mentre parla con la sua voce sottile. I capelli ondulati e fluenti, la barba, sulle guance, morbida e rada come quella di certi orientali, gli occhi vivi e attenti sotto le lenti cerchiate da una sottile montatura dorata. Le dita chiare ed eleganti. Aperto e disponibile, a tratti nella sua voce, tra i discorsi, s’insinua una nota dolorosa, come assorbito da qualche memoria triste che l’attraversa dal fondo del tempo.

...quanto più di me vivo privo,
non tardare nel nome dell’amore
a sentire levare lo sguardo del mattino
che passa in una solitudine perenne.

Con tanto silenzio la vera stagione,
anche se l’inverno è ovunque,
si alza altissimo nel cuore
dove udire e scorgere ogni volta.

Agli inizi d’autunno del’75 Katia Migliori, che stava allora allestendo l’indice ragionato della rivista Officina, telefonò a Pasolini per chiedergli un incontro. Il poeta le promise che finito il montaggio di Salò, a cui stava lavorando, l’avrebbe attesa a Casarsa, dove si sarebbe recato per qualche giorno a riposare. A quell’incontro doveva esserci anche Gianni D’Elia. La morte di Pasolini non rese mai possibile quell’incontro. La nostalgia per la scomparsa di un maestro come Pasolini veniva ad assommarsi così a quella, altrettanto bruciante, per un incontro che non è potuto accadere. Forse è stato anche questo avvenimento a far sì che nell’opera del poeta pesarese si ripresenti di continuo la figura di Pasolini, come se il lutto per quell’incontro così brutalmente sottratto dal proprio orizzonte, non potesse esaurirsi. Come se quel vuoto non si possa tentare di colmarlo che cercando, oltre la morte, un colloquio mai avvenuto.

Passato attraverso l’esperienza difficile, contrastata di Lotta continua, dopo aver vissuto fino in fondo la crisi delle ideologie, come egli stesso ricorda, “la poesia di Pasolini, la prosa e la letteratura critica di Officina, e in special modo le analisi storiche di Romanò, che legavano i testi e gli autori tra Ottocento e Novecento al contesto della società e della cultura italiane, mi sembravano di un efficacia incredibile. La crisi della politica ne veniva illuminata, in profondo, senza rifiuti formalistici, ma neppure senza indulgenze plenarie. C’era qualcosa che poteva capire la storia e interrogarla, oltre ogni idea di autonomia delle forme, a contatto con le idee del secolo, con le speranze e le disperazioni più vere di ogni vivo. Ed era la poesia, come forma di conoscenza, come indipendenza da ogni ideologia prescrittiva e di partito, come esercizio di un realismo critico e ideologico di pensiero, e proprio nel solco di una nuova conczione marxista ed eretica, come estrema risorsa anche morale dell’individuo anonimo,magari anche come scandalo della contraddizione e rifiuto delle logiche dominanti, politiche e culturali”.
Poi ci fu l’incontro fondamentale con Roversi, a cui seguì la pubblicazione del suo primo libro di poesie Non per chi va, e la necessità di attrezzarsi sempre più autonomamente, dando vita a una nuova rivista da farsi a Pesaro. Un’esperienza per molti versi unica nel panorama italiano, con quattordici numeri, usciti tra il febbraio 1982 e il novembre 1994. Innumerevoli interventi critici, interviste, racconti e sopratutto poesie di autori come Giudici, Luzi, Fortini, Pasolini, Roversi, Caproni, Bilenchi, Santi, Macchia, tra i tanti, tantissimi, che hanno collaborato e dato un volto - in forma più o meno diretta - a quella che rimane una delle più interessanti e importanti riviste di questi decenni: “Lengua”.

Nel corso di questi anni, per incontri o conferenze, Gianni D’Elia si è recato spesso in Svezia e, ultimamente, grazie alla sensibilità della casa editrice Artemisia, con sede a Helsinki, a cura di Elina Suolahti e Martii Berger, è uscito anche un elegante volume intitolato Voci di scrittori italiani, che raccoglie alcune fra le più note testimonianze pubblicate a partire dal primo fino all’ultimo numero uscito. Testimonianze di straordinario valore e densità ma, anche, di sorprendente godibilità, accomunate da uno stile limpido, da un cristallino nitore che permea anche i ragionamenti più complessi. Si apre così, già ad una prima lettura, un mondo attraversato da una mai sepolta passione per la scrittura, il ragionamento, ostile ad ogni improvvisazione gratuita, che prende rilkianamente le parti, sempre, del “difficile”. Esemplare, in questo senso, l’intervista a Fortini a cura di Attilio Lolini in cui - tra le altre - molto intense e significative appaiono le risposte riguardanti il suo modo di comporre:

Essere sottoposto all’occasionalità della lirica è cosa che ho sempre considerato come propria di una fase storica della poesia che rifiuto con tutte le mie forze e che mi pare legata, oggi, ad una tteggiamento errato e perfino puerile. Di qui l’ambizione, sempre regolarmente fallita, di altro: cioé di un discorso lungo. Quando oggi qualche voce critica (ad esempio Berrdinelli) mette in evidenza la relativa brevità della durata interna alle mie composizioni dice qualcosa di vero: ma erra solo se parla di epigramma. Ci sono, naturalmente, mie scritture che hanno e vogliono avere carattere di epigramma; ma è un’altra faccenda. La poesia non si misura con il doppio decimetro, e tuttavia quella critica ha ragione se vuol dire che nelle mie poesie c’è una forte tendenza centripeta. Ogni composizione si presenta come un nucleo, più o meno irradiante; di qui la difficoltà della sequenza e l’eccezionalità di composizioni come La poesia delle rose o Il nido che a me paiono a distanza e a memoria, incredibilmente lunghe mentre non lo sono affatto.
La composizione, quel che supera cioè il momento dell’immediatezza lirica è opera di architettura. Ho dovuto lottare tutta la vita perché la critica capisse - e finalmente c’é arrivata - che il rifiuto di pntare sulla “parola” era a favore della sintassi e della metrica e che quindi, nato e cresciuto in una poesia che aveva il culto della parola, accettavo una dimensione apprentemente prosastica puntando tutto sugli strumenti metrici e sintattici; sul periodo, cioè, sulle cadenze, sulle tensioni. Dietro la loro apparente disgregazione, nei libri da me pubblicati, si disponevano sequenze, blocchi, movimenti interni. La prosasticità gessosa con la quale ho per tanto tempo civettato può riscattarsi soltanto con una persino prepotente importanza conferita alle cadenze, alle cesure, ai ritmi.

Non meno interessanti e ricche di fertili suggestioni le due interviste a Mario Luzi, in cui ogni risposta, segnata da una grazia severa e penetrante, potrebbe dare l’avvio a una serie senza fine d’interrogazioni sul fare poesia oggi:

Ecco, la riconquista della naturalezza. E’ un pensiero, questo della naturalezza, su cui posso fare centro, un motivo caro da tempo, che mi preme. La naturalezza io la devo riconquistare continuamente, perché tutto va contro di essa: la convenzione, l’artificio, il patteggiamento conscio, inconscio, l’istituzione; tutto va contro, l’innaturale si ricostruisce di continuo ed io devo continuamente demolirlo, di libro in libro. Devo riconquistare la naturalezza. Se no va all’aria tutto. Quando ricomincio un libro - almeno fino ad ora così è successo - riorganizzo tutto daccapo, non c’è nulla del libro precedente che mi può servire, perché servirsene appunto, sarebbe già una perdita della naturalezza. E questo vale anche per la lingua di un’opera, sia in senso personale che generazionale. Ogni volta va riconquistato lo spirito contro la lettera, ogni volta va liberato lo spirito vivente del parlato, dell’esserci della parola, per potersi mettere in ascolto e poter accedere anch all’ascolto degli altri. Questo è il momento fondamentale, ed è soltanto a questo patto che l’operazione è linguistica nel senso totale, proprio del verbo. Non è più della tecnica espressiva che si tratta.

Uno spazio importante, in questo volume, è dato alla memoria: memoria, custodita e coltivata, di esperienze fondanti come quella di “Officina” a cui questa rivista, fin dagli esordi, ha sempre fatto riferimento; e memoria, infine, di autori che ripercorrono le tappe del loro percorso esistenziale, tratteggiando vive descrizioni di luoghi scomparsi, di poeti e narratori incontrati, impietosamente descrivendone, a volte, le debolezze, lucidamente ponendo in risalto la loro grandezza non sempre compresa.
Ricchissima e stimolante, in questo senso, la lunga “Conversazione in atto” di Gianni D’Elia con Roberto Roversi o quella con Piero Santi. Non bisogna tralasciare, tra le altre cose, il ricorrente interrogarsi sulla nuova poesia in dialetto, un punto di onore di questa rivista, che ritorna nelle risposte - diversissime ma tutte ugualmente illuminanti - sempre di Roversi, di Fortini, Luzi. Del resto, come scrive D’Elia:

Nel solco di un realismo critico e problematico, la rivista intende rileggere l’eredità del Novecento poetico, annettendovi la grande stagione della poesia in dialetto, con un atteggiamento paritario e inclusivo, non sostitutivo, della contemporanea rigogliosa stagione in lingua, in suggestione dantesca e materna.
Si devono al sottoscritto (...) le definizioni di “interdialettalità della lingua e letterarietà dei dialetti”, oltre al nuovo conio di “neovolgare”, per approssimazione alla nuova istanza creativa dei poeti neodialettali (Franco Loi, Raffello Baldini, Franco Scataglini, Amedeo Giacomini, Tolmino Baldassarri, fino ai giovani Giovanni Nadiani, Nevio Spadonie Nino De Vita, tutti ospitati con testi e studiati, insieme ad altri, sulla rivista.

Ma non bisogna dimenticare, poi, le lettere di Saba in risposta all’allora esordiente Sandro Penna o quelle, in cui in altra forma torna a configurarsi il rapporto tra “maestro e allievo”, se così si può ancora intendere un umanissimo confronto tra diversi saperi, che Pasolini scriveva, tra il ’56 e il ’57, al giovane Ferretti. E con Pasolini, con un ricordo che di Pasolini ci ha lasciato Elsa de’ Giorgi, si chiude, idealmente, questo volume. Un volume che, oltre agli autori citati, contiene altre, non meno alte testimonianze: segni lucenti di quella poetica della “compresenza” - lingua/dialetto, vita/opera, etica/estetica - che rimane uno dei più significativi contributi che questa rivista ha donato (arricchendolo di voci diverse e tematiche nuove) al panorama dell’attuale poesia italiana. Aggredendo, come alludeva una volta ancora Pasolini, e come ricorda Gianni D’Elia nella sua introduzione , “la nuova lingua...che dobbiamo tentare”.

Mentre ci alziamo per uscire il locale comincia ad affollarsi e, nel rumore che aumenta, si fondono confusi i saluti. L’aria di marzo già buia, fredda si dischiude oltre la porta. Gianni, accompagnato da amici, se ne va in direzione dell’albergo. La piazza di Pordenone per un momento, come in un sogno, resta irrealmente vuota, senza macchine, passanti.
Guardo gli alberi, tornando a piedi verso la stazione. Pensando a come bisognerebbe ripartire da qui, imparare dal silenzio di quella forza nascosta che costringe queste piante a mille contorsioni pur di sciogliersi dall’ombra in cui sono state piantate, quel bisogno di luce gridato da ogni ramo, ogni stelo tra i muri alti, i mattoni anneriti, scabri delle case.


Ivan Crico, 1996

Gianni D’Elia vive a Pesaro, dov’è nato nel 1953. Ha pubblicato le raccolte di poesia Non per chi va (Savelli, 1980), Febbraio ( Il lavoro editoriale, 1985), Segreta (Einaudi, 1989), Notte privata (Einaudi, 1993), Congedo dalla vecchia Olivetti (Einaudi, 1996). Ha fondato la rivista “Lengua”. Gli anni giovani (Transeuropa, 1995) riunisce una sua trilogia narrativa.



Note

Wittegestein, Pensieri diversi, Milano, Adelphi Edizioni, 1980, p. 20.

Pier Paolo Pasolini, Noterella sulla poesia friulana, in “Un paese di temporali e di primule”, a cura di Nico Naldini, Parma, Ugo Guanda Editore, 1993, p. 245.

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