lunedì 22 dicembre 2008

IL PANE DI PADRE BIANCHI


Ascolto con attenzione ed intima partecipazione, da molti anni, le parole di Padre Bianchi a Radio Rai 3. Ho trovato su "La Repubblica" questo testo, che non è una semplice recensione né un pezzo d'occasione, di Piero Citati. Parole profonde, sentite, da leggere e condividere.


IL PANE DI PADRE BIANCHI
di Pietro Citati

da "La Repubblica", 20 dicembre 2008


Nell'alto Piemonte, tra Biella e Ivrea, sorge la comunità monastica di Bose. Siamo in collina: ci sono prati, fitti boschi; ma la vicinanza delle alte montagne - il Monte Rosa è prossimo - dà all'aria collinare quella freddezza, nitidezza e insieme quelle trasparenze e velature, che si avvertono nelle pitture lombarde di Bernardo Bellotto. Nella comunità, ci sono quattro sacerdoti. Tutti gli altri - cinquanta monaci e cinquanta monache - hanno conosciuto un lungo noviziato: otto anni di paziente attesa sulla soglia; ma non hanno preso gli ordini sacerdotali. Non dicono messa. Preferiscono restare «semplici cristiani», come sant´Antonio e san Francesco: in nulla, apparentemente, si distinguono dai laici che abitano le città e le campagne, salvo per l'obbedienza ai voti di vita comune e di celibato. Sono - quasi - come tutti gli altri: senza quella lieve, talora impercettibile parete che allontana il sacerdote dagli altri esseri umani. Della comunità fanno parte alcuni protestanti e due ortodossi: il patriarca di Costantinopoli è di casa; segno non di una impossibile fusione delle religioni, ma di quel fitto intreccio di esperienze religiose, che rende così confidenziale la nostra vita nel nuovo millennio.
Oggi il monastero fiorisce: ha case, chiese, refettori, sale per le conferenze, laboratori , fraternità , come un monastero del Medio Evo. Il monastero è nato a poco a poco, casa dopo casa, stanza dopo stanza, chiesa dopo chiesa. L'ha creato padre Enzo Bianchi, il priore, un uomo di sessantacinque anni, che giunge dal Monferrato: sembra uno di quei contadini che, nelle chiese romaniche, venivano scolpiti negli archi per illustrare le fatiche dei mesi invernali; piccolo, tozzo. con una folta barba medioevale, porta nelle membra il peso, la forza e l'energia della vecchia civiltà contadina. Sa fare di tutto. Cucina, prepara marmellate, mette le melanzane sott´olio, ascolta anime, cura corpi, predica, studia la Bibbia, scrive libri, prende aerei, sale sul Monte Athos; e prega nel silenzio della sua stanza appartata, come un monaco del dodicesimo secolo. Attorno a lui, tutti lavorano. Qualcuno coltiva i campi, educando primizie: qualcuno polisce ceramiche: qualcuno medica nella città vicina: o studia l'Antico e il Nuovo Testamento nella grande biblioteca: o prepara una bellissima collezione di Padri della Chiesa: o stampa i libri: o costruisce mobili; o edifica le nuove ali del monastero; o lavora in cucina. Come nella civiltà moderna, ciascuno ha il suo ruolo: l'attività è precisa, ordinata, scrupolosa; ma ad un tratto, con una completa inversione delle parti, chi studia il siriaco sbuccia patate in cucina, e il ceramista pulisce il pavimento del refettorio. I monaci di Bose sono cristiani e quindi non disprezzano e non tengono lontano il mondo, il regno dei corpi e la natura. Hanno copiato nei loro libri una frase di Paolo VI: «Anche se il mondo si sentisse estraneo al cristianesimo, la Chiesa non può sentirsi estranea al mondo, qualunque sia l´atteggiamento del mondo verso la Chiesa». E come potrebbero rifiutarlo, se al centro dei loro pensieri c'è, come dice un piccolo, bellissimo libro di Enzo Bianchi, il Mistero e scandalo dell’incarnazione Gesù si è umiliato e piegato: si è reso vile e abbietto: è disceso nel peccato, rinunciando al «tesoro geloso» della incontaminata vita divina, proprio per salvare ogni molecola, granello, briciola della realtà quotidiana. Così i monaci di Bose continuano quello che, per secoli, hanno fatto i conventi cristiani. Salvano la natura, e la trasformano in cibo. Cuociono le marmellate, conservano le melanzane sott'olio e i «ficuzzi», preparano i vini di queste vigne quasi montane, lasciano stillare le gocce del miele, come se lasciassero colare le gocce di un'essenza celestiale.
Se fossi capace, vorrei raccontare la vita di Enzo Bianchi, che considero il mio priore personale, e che ora pubblica presso Einaudi Il pane di ieri (pagg. 116, euro 16,50). Discendeva da una famiglia poverissima: aveva conosciuto quello che noi chiamiamo, senza renderci conto della parola, la miseria. Al tempo del Concilio Vaticano secondo, aveva circa ventiquattro anni; e insieme a due amici decise di rifondare il monachesimo - il glorioso monachesimo dei tempi cristiani, quello di sant'Antonio, san Benedetto, san Francesco -: impresa immensa. I tre partirono per Bose: dopo poco tempo, i due amici abbandonarono Enzo Bianchi; ridiventare monaci era troppo arduo e difficile. Egli rimase solo: non aveva un soldo: viveva nelle case dei contadini, quasi mendicando; e, nel tempo libero, che era moltissimo, restaurava una piccola chiesa romanica tra i prati, in fondo alla valle.
Enzo Bianchi attese: con l'immensa pazienza e testardaggine che soltanto uno del Monferrato può possedere; attese come attendono gli uomini di fede. E ora, dopo meno di cinquant´anni, ecco il Monastero di Bose: una realtà straordinaria, forse unica al mondo. Senza alzare la voce, esso intrattiene rapporti con il cristianesimo ortodosso russo e con quello greco, pubblicando convegni, di cui l´ultimo è appena uscito. Enzo Bianchi sa benissimo che, nella sostanza, nulla o quasi nulla divide il cattolicesimo di oggi dall'ortodossia greca e russa. Non c´è nessun bisogno di creare una specie di superreligione: ma il cattolico del 2008 pensa attorno al Cristo, a Maria e alla divinizzazione dell´uomo quasi quello che pensa un ortodosso greco e russo. Questo mi consola. Nel suo recente libro, che sta ottenendo un grande successo, Enzo Bianchi narra con perfetta verità cosa è stata la vita nelle campagne del Monferrato fino a cinquant´anni or sono. Racconta i rapporti tra Dio e il tempo atmosferico, quando Dio fermava la grandine: racconta le ore della giornata, ritmate dal canto del gallo e dal suono della campana: racconta come nelle case venissero invitate le lingere, ossia i mendicanti, che sedevano a tavola insieme ai padroni: racconta come il pane di ieri diventasse il pane dell´indomani; racconta le veglie nelle stalle e nel caldo della cucina, dove gli uomini giocavano a carte. Tutti vivevano molto soli. Non esisteva l´amicizia. Intorno, le vigne del Monferrato: le foglie gialle paglierino del moscato, quelle rosse paonazzo del brachetto, le foglie viola del dolcetto e quelle verde antico del barbera; e le piante odorose, il prezzemolo, l'erba cipollina, il timo, la maggiorana, il rosmarino, che padre Bianchi ha ripiantato nel suo orto di Bose, «insaporendo l´anima». Poi ci sono le ricette del cibo: quella meravigliosa del sugo della pasta; vorrei ricordarla per intero ai cuochi e alle cuoche di oggi. Era un cibo sacro, che apparteneva a un tempo ancora sacro.
Con discrezione, padre Enzo Bianchi tocca un punto gravissimo. La vita contadina di sessant´anni fa era gremita di simboli che venivano adattati all´esistenza cristiana: pensiamo al pane, al vino, agli uccelli, all´acqua, alla gramigna, al viandante e al pescatore nei Vangeli. Le parole di Gesù raccoglievano i nomi della vita agreste elevandoli a segni. Oggi, il nostro linguaggio non ha niente di sacro: né un computer, né un´automobile, né un frigorifero, né un telefonino né un aeroplano rivelano nemmeno un´ombra o un barlume di apparenza religiosa. Sono oggetti silenziosi, atoni, indifferenti, senza eco, che tengono lontana la parola. La foresta dei simboli è morta. Il linguaggio quotidiano respinge i Vangeli. Capisco come sia terribile il compito di padre Enzo Bianchi, e di tutti i monaci e gli uomini di chiesa che devono parlare agli uomini di oggi, senza più pane né vino, né gramigna né acqua né uccelli.

PIETRO CITATI

ENZO BIANCHI
Il pane di ieri
Einaudi 2008
pagg. 114 – Euro 16,50

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