giovedì 6 novembre 2008

La nuova poesia slovena



Nella foto: 1989, Ivan Crico e Ales Steger nella Chiesa di Santa maria in Monte a Fogliano (GO)

PIGNA, TROTTOLA...DADI...SPECCHIO
Un viaggio attorno alla nuova poesia slovena
di Ivan Crico


Perché il canto, emerso dal suo luogo natale, dopo il compimento, l’errare,
sia che di esso importi o no, debitamente ritorna...

Walt Whitman


Le case sono poche, lungo la strada; molte le facciate nude, quasi mai intonacate. I pagliai sui prati verdi, che risalgono i pendii fino a lambire i boschi, qualche mucca libera al pascolo. Entrando in Slovenia si entra, ancora, in un mondo che ripropone, come riesumati dal fondo dell’infanzia, i paesaggi dei nostri primi anni, quando campi immensi, canali, vigneti, isolavano i paesi nel silenzio della luce. Pause di lontananze in cui addentrarsi liberandosi via via in un mondo non più umano, ma fatto di germogli teneri che rigavano la terra umida, di odori d’uva sui tralci ormai matura, di un volo di tortore dal collare sopra ingrigite distese di stoppie allagate. Camminare o andare in bicicletta lungo le strade semideserte voleva dire, innanzitutto, lasciare che quel grumo irrisolto d’illusioni in cui crediamo di riconoscere il nostro io, si disgreghi sfaldato dal fitto andirivieni di luci sulle rogge, richiami di cince, sussurri di porcospini tra l’erba, riflessi aranciati sulle nuvole che ci sovrastano. Così, mentre quello che pensiamo di essere si scioglie come neve al sole, in quell’essere ogni cosa senza sapere mai esattamente cosa, riscopriamo la nostra più vera dimenticata immagine. Al di là ciò che, in noi, ci oscurava. “Cercare è trovare una strada affinché lo splendore possa fuoriuscire dal di dentro”, dice una poesia cinese.
Per questo, per entrare in questi luoghi, in questo mondo a lungo interdetto, sembra quasi necessario - più che altrove - lasciarsi alle spalle ogni nostra idea preformata: non sarebbe nient’altro che un impedimento, un velo attraverso cui guardare, riflesse, le ombre di quel mondo nuovo che si sta disegnando dall’altra parte.

In fondo, tra le montagne, Lubiana si dilata sulla pianura.
Nel cuore di questa bellissima città le cui facciate recano ancora i segni della passata dominazione austroungarica, oggi un ruolo molto attivo e stimolante è ricoperto dalla SOU, l’organizzazione degli studenti universitari, che da qualche anno, sostenuta anche economicamente dai Ministeri per la cultura e l’istruzione, pubblica i testi poetici di alcuni fra i migliori giovani poeti sloveni, come Taja Kramberger, Matjaz Pikalo, Ales Steger e Uros Zupan.
Poeti, come anche Ales Debeljak, Alois Ihan e Peter Semolic, accomunati da una medesima preoccupazione nei confronti dello stile e per un approccio originale - sconosciuto alla passata poesia di questo paese - ad un sorta di pseudoreligione vicina (come ricorda Michele Obit, poeta che per primo li ha fatti conoscere in Italia) ad una sorta di mistica medioevale.
Confini, fisici ed ideologici, vanno difatti dissolvendosi, e l’ago sensibile della poesia non poteva non registrare questi cambiamenti. E, se anche in molti luoghi si tenta ancora di erigere nuove barriere, divisioni, ogni tentativo, in questo senso, sembra inesorabilmente nel tempo, se non subito nel nostro tempo, destinato a fallire. Ogni cosa, cancellata la protezione rassicurante di uno spazio intimo, si ritrova esposta, raggiungibile ovunque - e non c’è riparo possibile. Possibilità di difesa. Tutto scorre attraverso tutto ed è in questa condizione di estrema incapacità a definirsi, mantenere un’identità precisa, in questa costante corrosione dei confini tra interno ed esterno, che l’individuo deve muovere i propri passi 1).
Eppure, anche se attorno tutto sembra muoversi - vista da fuori - la cultura del nostro paese appare ancora per molti versi ancora immobilmente chiusa in sé stessa, autoreferenziale. Una sorta di isola inaccessibile, difesa da argini invisibili ma, in larga parte, ancora invalicabili. E questo, oltre a limitare la libera circolazione di nuove idee provenienti dall’esterno ( la cultura di interi paesi è spesso da noi del tutto sconosciuta), rende poco comprensibili i nostri autori all’estero e quindi, di conseguenza, difficilmente traducibili.
Uscire da questa lunga impasse, da questa chiusura limitante, sembra la cosa più urgente per la nostra cultura e, insieme, per il nostro paese. La conoscenza di quanto accade vicino a noi, per cominciare, può essere determinante per studiare diversi approcci alle problematiche moderne, diversi modi di percepire l’esistente.

Prima di altri paesi l’Italia, attraverso il Friuli Venezia-Giulia, ha avuto per molto tempo, non sfruttandola appieno, la possibilità di accedere ad un mondo ignoto come quello dei paesi slavi; diventare, anche attraverso la conoscenza di queste culture, una porta verso l’Est, il mondo.
Dopo anni difficili ad esempio, in cui la libertà d’espressione veniva pagata a caro prezzo, la Slovenia dal ’91 ad oggi, dopo l’indipendenza, ha potuto assistere ad una stupefacente, rigogliosa fioritura di manifestazioni culturali, pubblicazioni, mostre, concerti che hanno, nella città di Lubiana, la loro chiara e fervida capitale. Introvabili, comunque, e inesorabilmente datate le quattro antologie di poeti sloveni contemporanei, a parte qualche sporadica traduzione di nuovi autori come Salamun su “Nuovi argomenti” e “Testo a fronte”, rispettivamente a cura di Edoardo Albinati e Giuliano Donati, le prefazioni e gli accenti critici di Arnaldo Bressan, Livio Guagnini, Jolka Milic, Giacomo Scotti, Giacinto Spagnoletti alle opere di Kravos, Pangerc, Zlobec e pochi altri ancora, si può dire che la Slovenia rimane ancora per noi, in larghissima parte, un continente tanto vicino quanto sconosciuto 2).
Ora finalmente, sempre a cura e con traduzioni di Obit presso l’editore ZTT EST di Trieste nel corso del 1998 è uscita una preziosa antologia, intitolata “Nuova poesia slovena”, che colma una grave lacuna nella comprensione di questo fenomeno di certo fra i più vitali ed interessanti nel panorama del mondo poetico contemporaneo. Un’antologia ricca di numerosi testi tradotti per la prima volta in italiano, ma in parte già noti da tempo all’estero, ed arricchita da una splendida e assolutamente indispensabile postfazione di Miran Kosuta in cui, con la solita profondità, questo studioso analizza le vicissitudini della moderna poesia slovena, dal dopoguerra ad oggi, e presenta l’opera di questi giovani autori (tutti nati dopo il 1960) perlopiù sconosciuti nel nostro paese.
Difatti, a parte il volume di Ales Debeljak Momenti d’angoscia (Napoli, Flavio Pagano editore, 1992), la prima organica presentazione di questi nuovi poeti in Italia risale appena al 1997, con un gruppo di testi inediti apparsi sulla rivista “CorRispondenze” a cura di Michele Obit 4). Altri testi sono stati pubblicati rispettivamente nei preziosi libriVoci dalla sala d’aspetto 5) nati a margine delle letture poetiche nell’incontro internazionale di poesia, musica, arte, danza a Topolò, sulle montagne al confine della Slovenia presso Cividale, e nel volume Di Fiamma e Ombra 6) che raccoglie i testi dei partecipanti ad una rassegna di musica e poesia che si tiene annualmente in un’antica chiesa rinascimentale a Fogliano, nei pressi di Gorizia. Piccole ma attentissime rassegne queste, come anche quella tenutasi a “Zona Centro” a Udine, che hanno avuto il merito di far conoscere per prime di persona, al pubblico italiano, questi autori.

Ma che cosa, già ad un primo ascolto, distingue la voce di questi autori dai tanti, anche grandi, giovani poeti europei contemporanei? Certamente ciò che più colpisce, in questi testi, è la naturalezza - a noi quasi ignota ormai - con cui questi autori si confrontano con i temi più ardui (e a volte abusati) della tradizione riuscendo, quasi miracolosamente, a creare testi poetici affatto banali. È come se, uscendo dal buio continuo di un lungo inverno, fosse concesso a questi autori di riappropriarsi, per un momento, di una giovinezza negata. E da qui, forse, la mancanza d'ogni timore nell’attingere a piene mani, armonizzandoli nell’onda di un comprensibile entusiasmo, echi simbolisti e beat generation, la tradizione ermetica e Pavese; da qui lo spirare, in ogni verso, di una ventata d’aria nuova che, pur non cancellando le ferite profonde del passato, sembra volgersi con fiducia - fiducia nella potenza trasformatrice della poesia - verso il domani.
Tutto questo, a differenza della generazione passata, sembra in qualche modo favorito dal continuo sfaldarsi d'ogni residua componente ideologica, per cui questi poeti risultano, rispetto ai loro predecessori, forse ancora più “moderni” (anche nella loro maggiore vulnerabilità) perché in fondo più aperti e privi di preclusioni di fronte ad ogni sollecitazione esterna. Molte esperienze del passato, forse troppo sbrigativamente messe da parte, da Stefane George al Surrealismo, rivelano così, rielaborate in questi nuovi testi, un’attualità insospettabile e potenzialità ancora tutte da scoprire.
Davanti dunque, all’improvviso, quello che si dischiude è uno spazio vuoto, sfrondato dalle ideologie del passato, nel quale il poeta deve, orficamente, “rinominare il mondo” e riscoprire - come è ricordato nella postfazione - con Schiller la “Lied” dormiente in ogni cosa.
Difficile indovinare, spenti i naturali e giustificati entusiasmi per una ritrovata libertà d’espressione, quali saranno gli sviluppi di questa poesia. Una naturale vocazione a confrontarsi con l’esterno, a intrecciare continui contatti (favoriti anche dalla approfondita conoscenza delle lingue straniere di tutti questi poeti) con molti autori di tutto il mondo, sembrano comunque sicure garanzie del mantenimento, nel tempo, di una produzione poetica qualitativamente elevata. Si vedrà, se sarà dato vedere.

* * *

Il primo degli autori antologizzati, Ales Debeljak, il più noto e affermato anche a livello internazionale tra gli autori della sua generazione, è nato nel 1961 a Lubiana. Poeta saggista e traduttore, laureatosi in letteratura comparata e filosofia a Lubiana, ha ottenuto il dottorato in sociologia della cultura alla Syracuse University di New York. Attualmente insegna sociologia della cultura e della religione alla facoltà di Scienze sociali a Lubiana. Scrive liriche e saggi attinenti alla letteratura, alla filosofia e alla sociologia. Fino ad oggi ha pubblicato le raccolte poetiche Imena smrti (1985), Slovar tisine (1987), Minute strahu (1990), Mesto in otrok (1997), oltre a sei saggi. E’ stato redattore dell’antologia Ameriska metafikcija (1998) e dell’antologia contemporanea in lingua inglese Prisoners of Freedom (1994).
Personalità multiforme e complessa, supportata da un vasto e approfondito lavoro in campo teorico, Ales Debeljak è un poeta nei cui versi si incrociano e fondono i più diversi, e alti, percorsi del pensiero contemporaneo. E’ un’atmosfera di perpetua sospensione, difatti, quella che si crea in questi poemi, in cui la parola non diviene più portatrice di un senso, di un messaggio da offrire al lettore, ma vaga inquietamente tra gli oggetti, i volti e i paesaggi che nomina lambendoli ma senza sperare di infrangere, con questo, il velo del loro mistero. La loro essenza rimane sempre al di là della nostra comprensione: nominarla vorrebbe dire allora, innanzitutto, svilirla, semplificarla costringendola entro la nostra capacità di definirla.

Nulla è raggiungibile. Nessuna voce si duplica.
Come se non fosse mai accaduto. Le cose perdurano, tranquillamente.
E al mattino tornerà a farsi giorno. Nelle vene scorre il sangue.
Tu sei niente. Per tutti gli altri, tranne che per una donna, sei

l’oscurità profonda in fondo al fiume. Un sasso sconsolatamente liscio
con un soffio d’azzurro. L’incavo sul pozzo. L’inizio
di nessuno, che nessuno riconosce. Come il diario di Scott
perduto nel turbine polare. Tu sei niente. Potresti essere la mia

tristezza, ampia come il cielo. Ed il pieno e il vuoto del film
avvolto per sempre nella bobina. La città ora non è davvero meno
vulnerabile di quanto fosse prima. Io solo, questo posso aggiungere, risuonerò
sulla frequenza del tuo silenzio e aspetterò una tua risposta.

Le cose rimangono, alla fine, come se fossero vuote. Un nulla inafferrabile. Una negazione perenne - dentro il continuo rinnovarsi e riaffermarsi della presenza - di cui la lingua poetica si fa tramite, racconto, con la sua capacità di “illudere, incantare, stregare” velando il vuoto e illuminandolo attraverso reminiscenze letterarie, ponendosi in colloquio con tutto quanto è stato già detto e scritto. Ritraducendolo, in altre forme, in una infinita circolarità di discorso. La parola del poeta non può, forse, far altro che cantare, come ancora ripete Debeljak, i mutamenti e le trasformazioni in cui il soggetto lirico è immerso, continuando a confrontarsi - al di là dell’orrore di fronte al vuoto che lo circonda - con i grandi eterni temi della poesia, della morte, della malinconia, del ricordo, del silenzio, della solitudine e seppur meno spesso- com’è ricordato nella postfazione di Kosuta- dell’amore e dell’amicizia.
“L’argento, la vulnerabilità, il lungo viaggio” oltre di noi.

Alojz Ihan, invece, è nato nel 1961. Laureato alla Facoltà di medicina di Lubiana, dove si è specializzato in immunologia, lavora come docente di microbiologia e immunologia. E’ stato redattore capo della rivista Aleph mentre attualmente è direttore responsabile della rivista Sodbonost. Ha pubblicato le raccolte in versi Srebrnik (1986), Igralci pokra (1989), Pesmi (1990), Ritem (1993), Juzno dekle (1995) e il romanzo Hisa.
Tra i nuovi autori sloveni l’opera di Ihan appare come la meno interessata ai labirinti e alle straniate tessiture verbali della poesia contemporanea, recuperando, invece, una forte componente narrativa, una limpidezza di dettato tutta tesa a chiarire le tesi di volta in volta esposte da questo poeta nella forma, oggi quasi dimenticata, della parabola. Ihan, difatti, affronta i temi della vita moderna direttamente, sezionandoli con la lama tagliente di uno spirito aperto e sempre sottilmente ironico, sviluppando senza trascurare alcun particolare importante il suo discorso per rovesciarlo completamente, di solito, con l’introduzione di un verso finale teso a sconvolgere la situazione. Un colpo di scena, abilmente preparato, che introduce nel testo la possibilità inattesa di altre letture, altri modi di guardare il reale, proiettando così ciò che sembrava appartenere soltanto alla più concreta quotidianità nei territori del mito, dell’allegoria fantastica.
Evitando le secche della sperimentazione linguistica, oltre i problemi di stile, questo poeta si distacca dalle generazioni precedenti ponendo nuovamente il problema della necessità di una poesia capace di raggiungere il lettore attraverso la forza dell’idea, dell’intuizione, di un moderno e per nulla semplicistico uso della parabola. Una poesia alla portata di tutti ma, non per questo, popolare; una poesia capace, invece, di non rinchiudersi in un universo autoreferenziale, per soli adepti, ma rimanere uno spazio aperto al discorso, luogo dell’umano in cui ognuno possa ancora dibattere e confrontarsi.
Alludendo così ad una poesia di Salamun, non è dunque senza una vena sottile di polemica che Ihan, impiegando in una sua poesia l’immagine dei giocatori di poker, si rivolge ai modernisti (prima abili e brillanti e poi in seguito, con il passare del tempo, sempre più goffi, deboli, piccoli):

Li riconosci facilmente, questi grandi giocatori
di poker, sopratutto quelli, i migliori, che senza posa
vincono d’assi e di re, e se per puro caso hanno
in mano solo carte senza valore, lo si viene a sapere
alla fine, quando con fare indifferente, quasi fosse il più
naturale dei passatempi, si prendono tutta la posta in palio;
la cosa più strana, però, è che non utilizzano alcuna
analisi e strategia, e con passione infantile
credono nel favore della sorte, finché...
...finché un bel giorno, giocando, non si colgono loro stessi
di sorpresa a ripartire le carte con affinata
attenzione, e quando poi diventano
più attenti, fanno i conti con la propria inconscia
scaltrezza, e poco dopo ne scoprono una seconda, una terza,
una quarta; li entusiasma la loro efficace semplicità,
però è strano perché poi iniziano poco a poco a perdere,
prima solo una partita o due, poi sempre più;
non riescono ad attuare nessuna delle astuzie scoperte
né ripetere alcun trucco, e dopo un po’ li trovi
che stanno appoggiati tra i bicchieri vuoti, con gli occhi
persi cercano qualche spiegazione, bestemmiano, accusano,
in ogni caso nessuno capisce ciò che vogliono dire,
a nessuno nemmeno importa di quei goffi, deboli,
piccoli giocatori di poker.

Nata a Lubiana nel 1970, dove vive, Taja Kramberger ha studiato storia e archeologia presso la Filozofska fakulteta lubianese. Dopo la laurea ha continuato gli studi di antropologia presso la facoltà degli studi umanistici. Suoi versi sono comparsi finora sulle riviste Dialogi, Literatura e Nova revija. Nel 1997 ha pubblicato il suo primo libro di poesie intitolato Marcipan.
Le lunghe poesie della Kramberger si sdipanano in prevalenza lungo i sentieri dell’infanzia, l’infanzia dell’autrice a Salara, “sul natio litorale bilingue”, in ambienti domestici e paesaggi descritti con la minuzia fantastica e quasi miniaturistica di certe illustrazioni favolistiche ma - ed in questo sta la novità dell’autrice - con insieme un’estrema modernità nell’impiego della lingua. Una lingua, a cui si mescolano frasi intere in italiano, capace di essere realistica ed evocativa, fantastica, al tempo stesso; una lingua in cui, come in alcuni mirabili cartoni animati disneyani degli inizi, gli oggetti assumono all’improvviso una vita propria, dialogano fra loro, rendendo in questo modo significativo, pieno di potere magico anche ciò che, ad occhi adulti, può sembrare assolutamente insignificante: il quaderno con le piccole api o l’orsacchiotto in cantina, negli occhi un luccichìo diverso.

...Nessuno fa caso alle limpide e delicate posizioni
della Terra. Solo le figurine degli animali coperti
di blu scuro, odoranti di cioccolata, parlano di sé.
Si girano di schiena col palmo della mano e si perdono
in tasche altrui. Via serpenti, andatevene dalle vigne,
mi facciano questo piacere, per favore,
perché ho paura di voi e poi perdo la chiave
e con papà devo strisciare in casa attraverso la finestra della via Vanganel 57 d.
Se incontri la serpe devi essere gentile,
non provocare, solo stare immobile come una foresta pietrificata
per non scatenare ciò che non puoi dominare.
Si può irrigidire l’infanzia, se non fai attenzione,
o addirittura estinguersi per punizione, se non
sei gentile con lei.

Il tentativo di assumere un punto di vista anteriore ai condizionamenti che segnano, in ogni individuo, la fine dell’infanzia - di dare voce a quel mondo il cui nome deriva proprio dal non possederla ancora, la parola - si traduce dunque in questi estesi, ricchissimi componimenti in cui ritorna l’ansia di uno sguardo diverso, vergine sul mondo. Un’ansia di purezza originaria, di libertà in fondo, che ha attraversato tutta l’arte contemporanea, per riappropriarsi di quello sguardo iniziale, proprio dei bambini, in cui lo stupore prevale ancora sulle gabbie delle classificazioni, delle interpretazioni, quando ciò che ci sta dinnanzi può essere ogni cosa, senza un nome o un ruolo preciso, parte viva di un gioco creativo in cui ogni mossa, anche la più impensata, rimane possibile.
Proteggere questi ampi e delicati spazi di movimento, di pensiero diventa uno degli obbiettivi principali di questa poesia, sottrendo alle devastazioni da parte del mondo esterno, il mondo dei grandi, il proprio, ancora intatto mondo interiore se, come ripete l’autrice, ciò che

senza successo per tanti anni hanno voluto
estirpare in me è all’improvviso diventato il massimo
di quanto possa dare.

Matjaz Pikalo, nato nel 1963 in Carinzia, oggi vive a Lubiana. Poeta e vagabondo, come ama definirsi, a trecento anni dalla nascita di Voltaire ha fondato il gruppo musicale e teatrale Autodafé. Ha pubblicato V avtobusu (1990), Dobre vode (1991), Pes in plesalka (1994) e Bile (1997).
Scrive Miran Kosuta: “C’era una volta un’antica parola slovena: igrc. Significa pressapoco istrione, cantastorie, trovatore, giocoliere del verso. Matjaz Pikalo è questo. Un igrc. Un giocoliere del verso. E’ quasi impossibile gustare appieno la sua poesia senza vederla cantata, raccontata, interpretata da questo autore-attore”. Interprete tagliente di una realtà in continuo rivolgimento, in cui la normale successione temporale degli eventi sembra definitivamente perduta, la poesia di Pikalo deflagra - apparentemente caotica e spezzata - nello spazio insonne di un presente unico, totale, in cui i sogni e le lacerazioni del passato, come i presentimenti riguardanti il futuro, si confondono in un canto straniato, di periferie di grandi città abbandonate nella notte, di destini che si intrecciano senza riconoscersi, come ne “La raccolta”, nei silenzi di solitudini inscalfibili:

Mi sono perso nel mondo, nella notte, ho acquistato
ancora tre, quattro suoi libri, anche s e ne ho già
alcuni, ma dovete sapere, ne ha scritti

molti. Ora davvero faccio quello che
una volta, nell’esercito, mi faceva sorridere sprezzante,
il mio mestiere. Ho il mio cantuccio e il telefono. Il vicino

rumoreggia. A volte telefono, leggo e bevo
allo stesso tempo. Con i compagni di ginnasio non ci troviamo
ogni anno. Da tempo con più ostinazione

raccoglievo mirtilli e per primo mi vestivo. le coppie
sulla via mi guardano strano, quando parlo
da solo. Sto preparando una raccolta. Dopo, gli dei
potranno riposarsi del tutto.

Sono parole nate, prima che per essere lette, per venir recitate, cantate come si diceva, unite più che da un senso logico dal ritmo interno, musicale, che le domina. Il ritmo della vita che s’insinua ovunque, per Pikalo, “grandiosa e positiva”, come un’onda di gesti quotidiani, tracce oscure sulla sabbia, precipitati di frasi in lingue diverse. Situazioni diversissime, opposte a volte, che devono convivere nello spazio breve di un verso come devono convivere, del resto, all’interno di ogni vita esposta, ora e sempre, ad un flusso infermabile di accadimenti troppo numerosi e veloci per poterli analizzare e classificare con ordine, perchè chi

può verificare tutte le lentiggini sul suo
viso, chi può sapere i nomi di tutte
le erbe e chi gli ha preparato le camicette,
quando tacciono i grilli e dove dimorano

gli uccelli?...

Peter Semolic, invece, è nato a Lubiana, dove risiede, nel 1967. Ha pubblicato finora tre raccolte di poesie: Tamar.isa (1991), Bizantinske roze (1994) e Hisa iz besed nel 1996.
Traduttore e critico, nella sua poesia apparentemente immediata e semplice si possono scorgere invece, ad una lettura più attenta, “infinite allusioni, complicità, reminiscenze” - come ricorda Kosuta - “a partire da Yeats a Mandelstam, da Salamun alla filosofia zen”. “La musicalità, il pudore, la forza delle sue immagini” di cui ha recentemente parlato Franco Loi 7), contraddistinguono l’opera di Semolic:

Come posso cantarti,
cervo che sei guizzato
nella sera d’inverno accanto
al mio volto, lasciando
dietro la traccia rossa
della tua passione che scorre?
Come posso cantarti al di là del tuo nome?
Al di là della mia sofferenza
come posso cantare la tua,
cervo? Nei miei pensieri
ti mescoli con l’immagine
che mi ero fatto
di te. Nei miei pensieri
ti mescoli con tutte le poesie
che ho letto sui cervi,
con le xilografie dell’Altai
ed i bassorilievi degli Indiani
Maya. Attraverso i versi
tento di toccarti
mentre giaci nella pace di un cespuglio
brullo e ti perdi
nel crepuscolo della sera
e nel delirio che precede la morte.
E comunque: sei proprio tu
quello ferito una sera d’inverno
dalla pallottola di un cacciatore
prepotente, o è solo il ricordo
di un’immagine già dimenticata
che è riemerso all’improvviso
dall’infanzia?
Cervo, la mia poesia ti lascia
al confine estremo della sera,
al confine estremo della vita,
quando l’ultimo respiro
è già iniziato, ma non avrà
mai fine. Cervo, in questa poesia
non si farà mai notte.

La purezza del dettato è, quindi, il risultato di una lunga decantazione, di un assiduo lavoro alla ricerca di una “parola magica”, capace di oltrepassare il senso quotidiano e approdare, così, all’essenza stessa delle cose. Per far questo Semolic non esita ad inventarla, questa parola, come nel caso della poesia “Flounder”, in cui questo termine di fantasia, dal suono suadente e misterioso, diventa “ il rifugio per tutto ciò che è umano”, il luogo in cui il respiro dell’essere infinitamente, in mille diverse forme, si riversa. Si potrebbe, allora, affiancare alle liriche di Semolic quanto affermava Mircea Eliade, il grande studioso rumeno, ricordando che “la poesia è uno sforzo per ricreare il linguaggio, in altri termini per abolire il linguaggio corrente, di tutti i giorni, per inventare un nuovo linguaggio, personale e privato, in ultima analisi segreto” 8).
La lirica di Semolic diventa dunque un “distillato d’anima”, in cui la ricerca della Parola fra moltitudini informi di parole ha bisogno di continue metafore per definirsi, metafore che si dilatano fino ad occupare l’intero spazio di una poesia, in un’implacata ossessione di luce, d’essenza.

Nato a Ptuj nel 1973, Ales Steger è studente di letteratura comparata e lingua tedesca presso l’Università di Lubiana. Fa parte della redazione della collana studentesca Beletrina. Ha pubblicato finora due raccolte poetiche Sahovnice ur (1995) e Kasmir (1997). E’, inoltre, organizzatore dell’incontro annulae tra giovani poeti di tutta Europa Dnevi pozije in vina (Le giornate della poesia e del vino) che si tiene a Medana.
La poesia di Steger scava lo spazio bianco del foglio con l’incisività e la lucentezza di parole che sono assolutamente sue ma che non nascondono, e non vogliono nascondere, le loro più diverse provenienze. Parole che ci restituiscono la sospesa stupefazione dei componimenti di autori come Wallace Stevens o Auden; il magico, surreale nitore di Paz; le ardue meditazioni metafisiche di Milosz; come, a volte, la lacerata dolente atmosfera delle poesie amorose di Celan. Ne risulta quindi una poesia colta, evocativa; una poesia estremamente contemporanea, senza per questo uscire dai metri classici, capace d’insinuarsi dentro di noi continuando a lungo a scavare, invisibilmente, i suoi rarefatti tracciati.
Nel solco della miglior tradizione poetica contemporanea anglo-americana di questo secolo (con Stevens, già citato, fra i suoi autori prediletti troviamo Ted Hughes e Les Murray), Steger riesce a partire, allora, da dati minimi, oggetti immersi in una luce mentale ma sempre venata da una forte carica sensuale, un erotismo intriso di sacralità, per approdare ad una parola che svelle in linea anche con la poesia surrealista, dall’interno come in “Estate”, ogni codificazione concettuale.

La roccia rovente, che spezza l’acqua, il cielo
Che lascia cadere da sé uccelli di carta, affinché svaniscano
Nel tuo corpo: il corpo del tempo e dello spazio. Il corpo
Con il viso da bambino, che nel sonno conta il mare.

Il corpo con gli occhi di nero carbone, che guardano fissi
Dalla brace. Il corpo con tracce di preghiera. Con i seni,
I sacrifici al domani. Con la mano che sul palmo
Brucia il mio palmo. Quante parole pronunciate.

Che non capisci, perché non puoi capirle.
Quante parole con cui puoi solo fare l’amore
Sul letto del silenzio; sulla lingua dell’angelo; sulla punta
Della spada del sole. Guarda: la luce all’istante ci taglierà

La pelle tesa, per unire i nostri corpi in un foglio
Bianco sul quale porrà con il sangue il suo nome d’autunno.

Attraverso un ricercato, cosciente e consapevole abbandono del proprio io (in favore di un “altro io in lui, quello creativo e ispirato”, come ricorda Kosuta), la parola dell’autore insegue dunque la lingua lontana, impenetrabile delle cose - filtrata dal silenzio dello sguardo - attraverso uno straniato processo descrittivo che la conduce a sprofondare di continuo in una dimensione altra, sacralizzata senza, per questo, mai oltrepassare la realtà. Il mistero senza fondo, intatto e inscalfibile che si trova dentro e non dietro, o al di fuori, dei confini delle cose, nel “corpo del tempo e dello spazio”.

Uros Zupan, nato nel 1963 a Trbovlje, si è laureato in letteratura comparata all’Università di Lubiana. Scrive liriche e saggi letterari; è traduttore, inoltre, dall’inglese e dal serbocroato. Le sue raccolte poetiche sono Sutre (1991), Reka (Fiume, 1993) e Odpiranje delte (L’apertura del delta, 1995). Di prossima pubblicazione la raccolta Nasledstvo (La successione). Una raccolta di sue poesie è stata tradotta in lingua inglese.
Figura a suo modo distante dalle altre voci slovene (come ha recentemente ricordato Michele Obit, nel primo numero della rivista Koan, presentando alcuni suoi bellissimi testi inediti 9), Zupan, anche se continua a dichiarare di “non appartenere a nessuna generazione” e a definirsi “un outsider”, non si può negare che “ne sia in qualche modo il punto di riferimento” e “una delle voci più ascoltate e seguite degli ultimi decenni”.
Attualmente vive a Lubiana, dov’è attivo all’interno della collana studentesca di libri “Beletrina”. Zupan, dalle prime raccolte ancora fortemente influenzate dall’attuale poesia americana è giunto, con i suoi ultimi lavori, ad una poesia in cui il quotidiano, le cose della vita di ogni giorno si trasformano in simboli di una ricerca sempre più venata dai segni, segni d’acqua e luce, di un approccio tutto personale, come in “Preghiera”, al mondo metafisico.


Nella cavità, nella cavità i muri
sono umidi di fiato.
Ma non era il tuo,
non hai respirato,
il cielo lo ha fatto per te
ed i fiumi il mare e le stelle
lo hanno fatto per te.

Fuori, dai rami crescevano fiori,
il vento calmava il mare sotto
il cielo di Palestina
e il nostro sospetto si è
propagato come i fiori,
il nostro desiderio di toccare la ferita
con gli occhi asciutti
si è propagato come i fiori.

L’acqua scorreva nel sogno.
Nell’acqua eri immerso
quando per la seconda volta hai avuto nome.
Sognavi, sapevi
di sognare?
Nell’aria ti immergerai
quando per la terzaa volta avrai nome.

Il Padre ha liberato le nuvole.
Ha riempito le ore
con l’attesa.
Tutti l’aspettavamo. Anche tu.
Tutti, fatti con la Parola,
aspettavamo.

L’acqua ti ha escluso.
L’acqua come l’aria.
Di una bianca nuvola ti sei vestito.
La gente ha creduto in questo mattino,
ha creduto
quando l’agnello ti ha dormito nel cuore.

Te ne sei andato. Noi siamo rimasti.
Nel cielo e nell’abisso osserviamo
come la traccia del tuo sacrificio scompare,
il cielo e l’abisso di nascosto ascoltiamo,
dove con uno scoppio fragoroso
si rifrange la luce.

Un approccio che non ricerca soccorso, che rimane sempre attesa, e non ancora raggiungimento, della perfezione. Le immagini sono a volte quelle allora, alte e immaginifiche, della Bibbia, dei testi cabalistici, ma riempite soltanto, secondo le stesse parole dell’autore, con la propria personalità, senza rimandare ad altro, se al poeta è consentito ( come dice in una sua poesia) di “camminare senza nozionismi né maestri lungo i sentieri, varcando le cadenze delle preghiere, immergendosi nel centro dei misteri”.
Per questo forse, alla fine, i suoi testi si presentano come una continua oscillazione tra due mondi, quello della visione e quello della veglia quotidiana, permettendogli, nel contempo, di vivificare con la luce del simbolo ciò che è anonimo, scontato, e dare corpo e verità al volo - altrimenti senza peso - della mente che questi simboli decifra.

* * *

Pigna, trottola, dadi...specchio.
Nella vita tormentata di questi paesi sembra di rivivere antichi drammi, incisi sulle auree lamette orfiche, narranti la lotta, nella natura umana, tra l’elemento violento, distruttivo, titanico, e la vitalità inafferrabile, sempre rinascente di quello dionisiaco.
Con giochi da fanciullo Dioniso difatti venne ingannato e, successivamente, straziato dai Titani. Grazie a Rea, che ne ricompose le membra, il Dio conobbe la sua terza nascita, dopo la prima dalla madre e, la seconda, da una coscia. L’iniziazione passa attraverso lo smembramento di sé ma, anche, dalle seduzioni con cui la vita ci svia. Le promesse, le voci che ci attraggono (mostrandosi inizialmente benevole come si sono mostrati, ai popoli, i vari regimi totalitari di questo secolo) per condurci in seguito in un cerchio cupo, infernale. Il corpo smembrato, una volta ricomposto, mantiene la memoria di ciò che era ma, ormai definitivamente diverso, guarda alle cose da un altro versante, quello di chi ha tradotto il mistero della sua vita con le parole della morte.
Nel mondo quello che si specchia è, da quest’istante, lo sguardo di un altro.


Note

1) Per evitare i rischi di un’eccessiva generalizzazione di questi temi, senza dimenticare le difficoltà e le ancora drammatiche attuali divisioni, vedi l’intervista illuminante di Danilo de Marco a Predag Matvejevic Tra asilo ed esilio, Circolo culturale Menocchio, Montereale Valcellina (PN) , 1997, p. 40.

2) La mancanza di una nuova antologia in italiano che raccolga l’opera dei poeti del dopoguerra - da Salamun a Janus, da Kravos a Grafenauer e tanti altri - rappresenta un grave ostacolo alla comprensione dell’interessantissima poesia slovena e dei suoi attuali sviluppi; sarebbe auspicabile, in questo senso, che questo vuoto potesse essere colmato al più presto.

3) “La nuova poesia slovena”, a cura di Michele Obit, in “CorRispondenze”

4) Questa, come tutte le seguenti citazioni nel testo di Kosuta, sono tratte dal saggio “L’eterna ricerca del Santo Graal nella nuova poesia slovena” in Nuova poesia slovena, a cura di Michele Obit, ZTT EST editore, Trieste, 1998, pp.170-191.

5) “Voci dalla sala d’aspetto”, a cura di Michele Obit, edito a cura della “Associazione Artisti della Benecia, Cormons, 1996, p. . e “Voci dalla sala d’aspetto”, a cura di Michele Obit, edito a cura della “Associazione Artisti della Benecia, Cormons, 1997, p. 31.

6) Di fiamma e ombra, numero monografico di CorRispondenze n. 8, a cura di Ivan Crico con la collaborazione di Charls Ward, settembre-ottobre 1997, edizioni Kappa vu, Udine, p. 52.

7) F. Loi, “Ma a Topolò c’è tutta un’altra aria”, in “Il Sole-24 Ore”, 27-9-1998.

8) Mircea Eliade, Miti,, sogni e misteri, Milano, Rusconi, 1986.

9) “L’alchimia tra solitudine e amore”, poesie inedite di Uros Zupan a cura di Michele Obit in “Koan”, n. 0, anno I, settembre 1998, Vittorio Editore, Udine, pp. 30-40.

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