martedì 3 novembre 2009

Da "I fiumi invisibili": versione di Mario Di Stefano nella parlata romanesca della poesia "Lisonz" di Ivan Crico

ER FIUME ISONZO


Zur bbianco letto comme de carcia, ch'arilusce
de gnente der fiume sò ito, lochi de splennore
deselto, indove abbeterno er sasso s'arrota
cecàto de zilenzi. L'aria de foco s'addorcisce
co l'odore fine de fiori ggialli servatichi; in fonno
in fonno, squajata de la solina, ggente forastiera
s'arriposa in pasce, senz'aspettà. La momoria
mia dar dimenticamme se ripja co li brillori
che i 'narto - preannunceno er giorno der giudizzio -
s'accenneno sulle foje dell'arberi, contro l'azuro celo.

ISONZO

Lungo greti chiari di niente mi avvio, / luoghi dal deserto splendore, dove il ciottolo / si consuma da sempre / abbagliato di silenzi. L'aria / infuocata si addolcisce con l'odore sottile / dei fiori di topinambùr; là in fondo, erosa / dalla luce, gente sconosciuta riposa / in silenzio, senza aspettare. Dal dimenticarmi / il mio ricordo si rianima con i chiarori / che in alto - preannunciando il temporale - / si accendono sulle cime degli alberi, contro l'azzurro puro.

Nota:

La presente libera versione in romanesco recupera, al suo interno, diversi termini oggi ormai disusati ma che troviamo, ancora, nei versi di Gioacchino Belli. Con una piccola forzatura (concordata con l'autore), i "greti chiari" diventano allora un "letto bianco comme de carcia" "letto bianco come calce": materia di un bianco abbagliante, come abbaglianti sono, in questo caso, i greti sassosi dell'Isonzo d'estate. Un'immagine molto viva, intensa, che rinvia a certe allucinate descrizioni di paesaggi belliani. Ho trovato poi i termini antichi "arilusce" ed il bellissimo "deselto". "M'incammino" è stato sostituito con "sò ito" che, seppur spostando l'azione nel passato, può riferirsi, anche, ad un passato molto recente, di qualche ora, o minuto addirittura; ma ci permette, però, di inserire una forma tipica e antica, molto riconoscibile, del romanesco. Al posto di "sempre" ho trovato, derivata dal latino chiesastico, la forma "abbeterno", che rispecchia - tra l'altro - con maggior fedeltà il termine bisiaco "saldo", che non vuol dire semplicemente "sempre" ma indica qualcosa di ininterotto,che sembra non finire mai. "Consuma" è stato sostituito invece con "arrota" ("affila"): del resto i sassi prima di diventare sabbia diventano sempre più piatti, affilati come lame sottili di pietra.
Sempre in Belli ho trovato poi il vecchio termine "solina" che vuol dire "sole forte, da cui non c'è riparo": perfetto per la situazione descritta (così "erosa" vien qui sostituito, con ancor maggior pregnanza, da "squajata"). Ho trovato inoltre il termine "momoria" che suona più vetusto e suggestivo del semplice "ricordo". "Rianima" credo che in romanesco suoni meglio tradotto con "ripja", termine popolare, squillante, di fresca immediatezza. Mi sono anche imbattuto in un altro termine molto suggestivo, nel sonetto 47 intitolato "Campidoglio", che è assolutamente perfetto in questo contesto: in bisiàc, con "burlaz" s'intende quel tipo di temporale che arriva di colpo, non previsto, e "er giorno der giudizzio" vuol dire proprio "temporale improvviso". Bellissimo e quasi apocalittico. Testimone di una lingua popolare e alta al tempo stesso, dove sacro e profano, creando una straniata armonia, s'intersecano da sempre. MDS



LISONZ (di Ivan Crico)

Par giaroni ciari de gnente me 'nvïo,
loghi de lisért spiandor, onde che 'l còdul
al se frua saldo 'nzeà de ziti. Al vént
de boi se 'ndulzisse cu'l udor fiéul
dei pirantoni; là in cau, smagnada
del ciaro, zente foresta la polsa
zidìna, senza spetar. Del desmentegarme
al me recordo de nóu al se ànema
cui lusori che in alt - virtindo del burlaz -
i se 'npïa ta le ponte, contra al biau nét.

in bisiàc, antica parlata veneta del monfalconese)

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