giovedì 1 ottobre 2009

L'insegnamento dei dialetti a scuola: alcune necessarie puntualizzazioni




So che rischio di apparire poco simpatico ma ho la necessità, nata da una ventennale frequentazione della materia ormai, di puntualizzare alcune cose. Bisogna stare molto attenti, quando si parla di questi argomenti, altrimenti c'è il rischio di impantanarsi, come anche qui talvolta è accaduto, nella palude (spesso quasi invisibile) dei luoghi comuni. Nel nostro paese, mi riferisco anche alle persone più preparate, si tende a dire la propria su tutto anche quando, in realtà, non si ha alcuna conoscenza dell'argomento su cui si vuol parlare. Mi spiego. Alcuni esponenti di un partito politico propongono di portare l'insegnamento dei dialetti nelle scuole e, l'indomani, sbucano ovunque - alla radio, in televisione, sui giornali, nei blog - migliaia di persone che pontificano su una questione così delicata. Ognuno è libero di esprimersi, è ovvio, ma se si vuol rispondere in modo ragionevole a certi sproloqui bisogna opporre, in primis, all'ignoranza la conoscenza approfondita di ciò di cui si parla. Altrimenti non si fa altro che aggiungere confusione a confusione. Facendo il gioco (di cui ha parlato così bene Mattiuzza) di tutti quelli che in realtà, sia a destra che a sinistra, segretamente si augurano la scomparsa di queste parlate.
Detto questo, senza spirito polemico si badi, vorrei chiedere: chi, tra coloro che parlano a favore o contro l'insegnamento dei dialetti nelle scuole, si è mai confrontato seriamente, a lungo, con insegnanti che hanno già sperimentato queste cose assieme ai bambini? Credo nessuno. O quasi. In realtà in Italia, nei luoghi in cui risiedono le minoranze linguistiche riconosciute dalla legge 482/99, dai ladini ai friulani, dai sardi agli albanesi, già si sperimenta da anni l'insegnamento nelle scuole di questi altri linguaggi accanto a quello dell'italiano: basterebbe far parlare questi insegnanti. Cosa che, ovviamente, nessuno si cura di fare. Anch'io del resto un tempo intervenivo pubblicamente su queste questioni (senza in realtà conoscerle a fondo, lo ammetto) finché, un giorno, non ho incontrato l'ex deputata e illustre studiosa di insegnamento plurilingue Silvana Schiavi Facchin. Un giorno, a pranzo, mi disse: "Ma perché parli di cose che non conosci? Prova a parlare con le insegnanti di friulano che ci sono in regione e fatti raccontare, da loro direttamente, come e se funzionano queste cose". Ho seguito il suo consiglio e devo ammettere che molte delle paure o perplessità che avevo sono, oggi, del tutto scomparse. Il mio insegnante di lettere mi diceva: prima di adoperare una parola, se non la conosci bene, prendi il dizionario e leggi bene, prima, che cosa significa. Impariamo a comportarci sempre così.
Cominciamo quindi a sfatare alcuni luoghi comuni. E partiamo, innanzitutto, dalla realistica constatazione che in Italia, con tutta la più buona volontà, se si riesce a tirar fuori un'ora alla settimana per l'insegnamento dei dialetti siamo già fortunati. Tolte feste e vacanze, in poco più di una trentina di ore distribuite in un anno cosa si può fare? Ben poco. Qualche cenno, velocissimo, di grammatica; l'insegnamento di qualche termine particolare (nomi di piante, animali, di oggetti..); un paio di ricerche sulla storia locale; e poi, se tutto va bene, l'allestimento di qualche recita o spettacolino. Più che di insegnamento, come si può ben capire, parliamo di un modo (necessariamente semplificato) per ricordare ai bambini ed ai ragazzi che si tratta di un mondo che merita di essere valorizzato e conservato in quanto parte integrante del patrimonio culturale del nostro paese. Attentare all'unità nazionale in questa maniera, come qualcuno paventa, con questi tempi a disposizione sopratutto, mi sembra assai improbabile...
Una delle ragioni, poi, per cui sarebbe impossibile insegnare i dialetti - dicono alcuni - nasce dalla loro eccessiva frammentazione interna. Innanzitutto, dire che in Italia ogni paese o quasi ha una sua parlata particolare non è del tutto esatto. Quando in un paese gli abitanti di un borgo dicono di parlare un linguaggio molto diverso dai loro vicini sappiamo bene che, nel novantanove per cento dei casi, si tratta in realtà di microdifferenze alimentate da una forte (ma spesso del tutto ingiustificata) volontà di differenziazione. Queste cose accadono, di solito, soltanto in aree di confine dove lingue molto diverse si incontrano. Per cui, se è vero che un abitante di Padova impiega un veneto diverso da quello impiegato da un abitante di Belluno, è anche vero che, se analizziamo a fondo queste parlate, i punti in comune sono infinitamente superiori rispetto alle differenze. Per cui, di solito, com'è accaduto anche per il friulano, si parte da ciò che è comune a tutti e poi, di volta in volta, nei singoli paesi si tenderà a valorizzare le peculiarità della parlata locale. Per capirci: tutti i veneti possono capire e studiare Goldoni, anche se non sono nati a Venezia, mentre se dobbiamo fare una ricerca su come i contadini chiamavano la gallina possiamo tranquillamente impiegare, di volta in volta, "gaìna" o "pita" impiegando le varietà locali. Sono, in realtà, cose più semplici da farsi che a dirsi: l'importante, è ovvio, è formare degli insegnanti con un'approfondita conoscenza del linguaggio locale. Ma questo vale per qualsiasi altra materia. Ricordiamoci infine che l'Italia, seconda solo all'India, è il paese più ricco di diversi linguaggi del mondo. Questo che dovrebbe essere un vanto è vissuto invece, da noi, come una tragedia. Perché?
Altro luogo comune. Invece di insegnare queste parlate perché non dedicare più tempo all'insegnamento dell'inglese? Bisognerebbe chiedersi invece: perché in Italia, oltre a non aver fatto nulla per salvaguardare il patrimonio linguistico locale, la scuola in 150 anni ha fatto poco o nulla per diffondere la conoscenza nel paese delle lingue straniere? E i media, quelli controllati dallo Stato intendo, cosa fanno per rendere familiare alle nostre orecchie la lingua inglese, ad esempio? Non si fanno programmi in orari decenti per imparare l'inglese, non si proiettano film in lingua originale, le canzoni straniere non compaiono mai sullo schermo con i sottotitoli. Anche qui molte chiacchiere, tanto fumo e poco arrosto. Oggi i maggiori studi scientifici ci dicono, invece, che il bambino che cresce impiegando diversi linguaggi sviluppa in realtà una maggiore capacità di rapportarsi, guardandole istintivamente da più punti di vista, alle varie situazioni che la vita gli pone davanti. Ottimi artisti di fama internazionale, come la nostra giovane cantante Elisa, sono la conferma che si può cantare in un ottimo inglese e, al tempo stesso, essere fieri custodi della propria parlata nativa. Pensando a persone come lei, come a tantissimi altri personaggi del mondo della cultura e dell'imprenditoria (ricordiamo qui il caso davvero eclatante di Missoni, che rilascia spesso interviste impiegando a man bassa il dialetto!), ci si rende immediatamente conto di quanto sia ridicolo dire, come alcuni dicono, che se vogliamo essere cittadini del mondo dobbiamo sbarazzarci di questi nostri antichi linguaggi. Se qualcuno lo vuol fare, lo faccia, ma si presenterà al mondo con qualcosa in meno, non in più.
Per finire, sempre in Friuli abbiamo visto che praticamente tutti gli immigrati, smentendo un altro luogo comune, iscrivono spontaneamente i loro figli ai corsi di friulano, segno che vedono in questa lingua un modo per integrarsi con maggiore facilità in questi territori. La conoscenza della realtà locale, poi, ha anche il merito di dare una fisionomia a questi luoghi che, per gli stranieri ma anche per le nostre nuove generazioni, rischiano di essere percepiti come non luoghi: spazi senza un volto, senza una voce, senza un passato alle spalle né un futuro davanti verso cui incamminarsi. Essere moderni e, al tempo stesso, attaccati alle proprie radici non è cosa impossibile, del resto, anche se per noi quasi inimmaginabile: qui, a pochi chilometri dal luogo da cui vi scrivo, in Slovenia, trovate giovani punk che parlano cinque, sei lingue intenti a mangiare piatti tipici e sottofondo di musiche tradizionali. Noi non siamo capaci di fare altrettanto. E forse, anche per questo, non sappiamo valorizzare come si dovrebbe ciò che fa parte del nostro passato come non sappiamo proiettarci pienamente verso nuove direzioni.

2 commenti:

Dakrismeno ha detto...

complimenti per la lucidità, ingrediente purtroppo raro quando si parla di certi tabù culturali.
Se mi posso permettere, la inviterei a dare un'occhiata al nostro sito sul bilinguismo regionale:
http://bilinguismoregionale.hostoi.com

arrivederci.

Anonimo ha detto...

non sono certo una ragazzetta, eppure non mi azzardo a scrivere in dialetto, me lo hanno strappato di dosso quando ancora ero piccola e, per questioni di studio, dicevano, era meglio deporrre l'uso di quei vocaboli più ruvidi, terrosi, in cui si sentivano calli e fatica, la frattura dei solchi, la casa delle muffe...insomma l'italiano divenne la lezione da infliggermi, dentro la perdita delle persone e delle cose, per aprire ancora di più la distanza. Eppure oggi, se anche non scrivo in dialetto, per amore, solo per amore di quel tempo prezioso e dei miei cari, apro la parola e vi cerco il ver-me che abita il frutto del pa(r)lato. Lì dentro, os-curo il senso di un tratturo che mi porta oltre queste anguste via di città dove tutto si consuma non per vetustà, come accadeva con le persone e le case abitate dai contadini nelle nostre campagne, ma per cattiva fattura e ci frattura la consistenza della relazione da tessere tra noi e la vita. Grazie di ogni argomentazione.ferni