martedì 26 ottobre 2010

Franco Loi sull'ultimo libro di Ivan Crico



Senti come suona bene il bisiac

di Franco Loi


"La lingua che i poeti si fingono e modellano è sempre inaudita e come tale stupisce, sollecitando emozioni nuove, e dissolve confini, aprendo orizzonti impensati a ogni intelligenza sensibile all'avventuroso mistero del vivere" scrive Gianfranco Scialino nella prefazione al nuovo libro di Ivan Crico, De arzent zù (D'argento scomparso), raccolta di poesie in tergestino, lingua ormai scomparsa che attraverso Trieste legava il Friuli a parte dell'Istria e di cui oggi ancora rimangono alcune "tracce preziose, miracolosamente sopravissute", nel bisiac del Goriziano, e il critico fa bene a precisare: " Una arcaicità non sterilmente filologica e lessicografica, ma coincidente quasi con una appropriazione dell'essenza delle cose".
Tanto più che il bisiac è la lingua naturale di questo poeta che nel 1997 ha pubblicato Piture a cura di Giovanni Tesio, nel 2003 Maitàni con prefazione di Antonella Anedda e nel 2006 Ostane a cura di Mariuccia Coretti. Ivan Crico, che è anche pittore e disegnatore di valore, ha una straordinaria capacità di captare, attraverso i suoni, la bellezza di un paesaggio, fin quasi a sfiorare odori e colori della stagione e persino il fremere di alberi e petali di fiori: " Uàrla inlò in tiàra, dauànt l'ultima / ciàsa de chelis dola che una uolta / in tol uod l'umièr col sòuo pùngol / al butèua drènto òu de fred, la fuèja / muarta, la scuàrza che aimò la se fau / plùi scura, e fora de chei tai el uem / un sug fis de dì che no se ued. (Vedi là in terra, davanti all'ultima / casa di quelle dove un tempo / nel vuoto l'inverno col suo aculeo / deponeva uova di gelo, le foglie / morte, la scorza che ora / si scurisce, e fuori da quei tagli fuoriuscire / un umore denso di giorni che si tenevano nascosti) ".
Una vocalità che dà a questa descrizione un andamento arioso, quasi uno sfarsi della natura nel movimento misterioso dell'autunno che trascorre.
Ma non solo di questo si parla nei versi del pittore-poeta. Lo sparire di un mondo è anche segno e presagio del morire dell'uomo: " Ma inlò no xe nissùm mont, arbòi / dolache per l’òglo ciatà repòs. Sempre / auk che mància, imfrà el rìde zouèna / po, debòt, la fàza de cùi ch’el n’au / lassàdi. Com prèst desmientegà. Fora / de dut ciatarse senza nissùm. Uèner / un pumt de clar inciantà in tòl negro /fred, negra aria de noiàltri im flor. (Ma là non c’è nessun monte, alberi / dove per l’occhio trovare riposo. Sempre / qualcosa che manca, tra il riso giovane / poi, all’improvviso, il volto di chi ci ha / lasciati. Quanto presto dimenticato. Fuori / da tutto ritrovarsi senza nessuno. Venere / un punto di luce ferma nel nero / freddo, nera aria di noi fiorita)". Ma nel paesaggio delle morenti vegetazioni all'uomo ecco che un fiato di speranza, "una luce ferma nel nero", viene improvvisa a mutare il lutto di quel "riso giovane" finito nel "volto di chi ci ha lasciati" in un risplendere di Venere, quasi un grido di rinascita.
E tuttavia, come sempre, mi spiace non far sentire al lettore la sciolta maestria con cui queste cose sono dette, quel suo vocalico trasalire nella descrizione delle cose e dei sentimenti e dei pensieri che sempre si muovono nel dire di Crico quasi da far da contraltare al silenzio della natura. Ma spero di aver incuriosito chi sa ascoltare.

da "Il Sole 24 Ore", domenica 24 ottobre 2010, p. 30, n.292

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