domenica 20 dicembre 2009

Le radici antiche della nuova arte



Olio su tela dell'artista goriziano Luca Suelzu

Messaggero Veneto — 18 dicembre 2009
pagina 11 sezione: CULTURA - SPETTACOLO

di IVAN CRICO L’incertezza nei confronti di quel grande punto di domanda che è il futuro ci porta, spesso, a cercare rifugio nel nido - solidamente intrecciato e caldo - della cosiddetta tradizione. Dimenticando però che ogni tradizione, nel momento in cui è nata, è stata anch'essa, sempre, innovazione. L'avvento di qualcosa di nuovo, diverso e quindi, per definizione, perturbante. La tradizione non è, in fondo, che un'innovazione che la società ha deciso, per svariati motivi, di adottare. Oggi molti ascoltano Beethoven per rilassarsi, ma, se leggiamo qualche recensione dell'epoca, ci rendiamo subito conto che quei suoni per noi così suadenti, per le orecchie dei suoi contemporanei non dovevano risultare meno digeribili delle note prodotte dai nastri magnetici del veneziano Luigi Nono. Va detto però che, fino agli inizi del Novecento almeno, fino a Picasso e a Rilke per intenderci, il dialogo con ciò che gli artisti avevano creato nel passato è sempre stata una pratica ineludibile. Un passaggio obbligato. L'artista, ancor prima che inventore, doveva essere conoscitore. Ogni nuovo virgulto si innestava dunque, producendo frutti sempre diversi, sul tronco di pratiche manuali e teoriche collaudate nel corso di millenni all'interno delle botteghe, nelle cantorie, durante le lezioni di metrica. Negli ultimi decenni questo dialogo si è spesso interrotto e, dalla maggior parte della popolazione (ma non solo), l'arte contemporanea è stata percepita spesso come un organismo a sé, autoreferenziale, il cui solo “fin è la maraviglia”, parafrasando i versi del poeta barocco Giambattista Marino. Una sorta di gara, in fondo, a chi la spara più grossa. Se non c'è alla base una vera volontà di dialogare con chi ci sta di fronte, anche il pensiero più geniale però, alla fine, rimane lettera morta. E così, come ha fatto notare di recente la critica Angela Vettese, le opere di molti artisti osannati negli ultimi anni sono presto cadute, velocemente come velocemente erano state acclamate, nel dimenticatoio delle cose che mai diventeranno, con il tempo, tradizione. Complici il mercato dell'arte, gallerie potentissime che - a suon di dollari, euro, sterline, rubli o yen - decidono nelle grandi capitali del mondo cosa andrà la prossima stagione. Per cui si scelgono, il più delle volte, artisti funzionali al raggiungimento di determinati obiettivi, relegandoli poi in soffitta quando non servono più. L'arte, se non desidera ridursi ad altro che a merce, deve riappropriarsi della sua capacità di indicare nuove vie, vie percorribili a un'umanità sempre più allo sbando. Offrendo futuro, nuovo ossigeno, non strade senza uscita. Facendo, come diceva Saba, della «poesia onesta». Non importa poi se un artista dipinge su tela o fa un’installazione, se uno scrive sonetti o recita i suoi versi gridandoli in un centro sociale. L'importante è che la sua opera nasca da una sincera volontà di comunicare ciò che sente e pensa. Senza infingimenti, doppi fini. Non si può non accogliere con grande interesse, dunque, il lavoro che con impegno e in forma disinteressata sta portando avanti da anni, in regione, l'artista e curatore di mostre Paolo Toffolutti assieme alla Neo Associazione Culturale. Un lavoro teso a mettere in luce la produzione artistica locale e, al tempo stesso, capace di far conoscere spazi pubblici bellissimi (ma a lungo poco sfruttati) come quelli proposti per accogliere le opere presentate nel progetto Spazi Pubblici Arte Contemporanea. Un progetto che, a partire dal 7 novembre, con la mostra Specchio specchio delle mie brame chi è il più artista del reale? si propone come una riflessione sul recente lavoro di alcuni tra i nostri più interessanti artisti visivi. La mostra ha coinvolto quattro comuni, tra cui Buttrio e Venzone, e continua ancora (fino a domenica) nel suggestivo medievale Castello di San Pietro a Ragogna e nello splendido, ignorato dai più Palazzo Locatelli a Cormòns fino al 27 dicembre. Si tratta di mostre che testimoniano innanzitutto il grande livello qualitativo raggiunto dagli artisti del Friuli Vg negli ultimi decenni, come la pittrice Manuela Sedmach o il fotografo goriziano Kusterle, solo per citare qualche nome, apprezzati a livello internazionale per le straordinarie invenzioni e la raffinatezza esecutiva. Non più dimenticata periferia la nostra regione, ma, come nella Trieste di Joyce, di Svevo, di Blazen, laboratorio di nuove visioni e pensieri capaci di unire la valorizzazione delle radici culturali e uno sguardo ampio, libero sul resto del mondo. Opere in forma di video, pittura, oggetto, istallazione, grafica, fotografia, scultura che - spiega Paolo Toffolutti - sono poste «in dialettico rapporto fra soggetti, pratiche, idee per costruire relazioni tra i siti storico-artistici che le ospitano e il pubblico, invitato in questo periodo autunnale a compiere un petit-tour fatto di luoghi, visite, inaugurazioni, incontri...». Particolare non trascurabile, quello di indurre le persone a spostarsi, perché spesso dimentichiamo che quando vi sono tagli alla cultura togliamo - di riflesso - lavoro anche a benzinai, trasportatori, negozi di abbigliamento, parrucchieri, ristoranti, bar, alberghi e chi più ne ha più ne metta. Se rimani in pantofole a casa a guardare la tv, difficilmente metti in moto l'economia locale. I nostri amministratori dovrebbero ricordarlo sempre. Non ultimo tra i meriti di questa iniziativa - occorre sottolinearlo - è l'uso davvero lodevole dei finanziamenti regionali, invero assai scarsi, concessi per realizzare queste quattro splendide mostre, curatissime e accompagnate da un ottimo catalogo. A dimostrazione che con poco si può far tanto. E che bisognerebbe iniziare - a differenza di quanto si fa di solito, con curatori strapagati e ospiti i cui cachet da noi si decuplicano per magia - a premiare chi dimostra di far buon uso del pubblico denaro, facendo vera cultura, valorizzando il territorio e chi ci vive. «L'arte serve a ritrovarsi» dice L. Vergine. Ed è sempre una sorpresa, questo rientro, se siamo sempre molto di meno e molto di più di ciò che pensiamo.

domenica 22 novembre 2009

Presentazione del libro "Mani in Pasta" a Gorizia




I sogni, spesso, scompaiono con il risveglio. A volte invece trovano, nello spazio del risveglio interiore, nel lampo della visione, un terreno adatto a farli diventare fiori colorati ma dalla breve vita oppure alberi dai lunghi rami che si spingono dentro i cieli di anni, secoli, millenni. I sogni di Basaglia, come certe piante che crescono tra le fenditure della pietra di dirupi abissali, sono arrivati molti anni fa in una terra difficile, dal suolo indurito dal sangue di migliaia di giovani e dal gelo di confini irreali, com'è quella di Gorizia. E tenacemente, da allora, sferzati dalla pioggia e dai venti dei pregiudizi, dei luoghi comuni, hanno iniziato a crescere e fiorire. Alcuni di quei semi luminosi non sono riusciti ad attecchire. Altri, ancor oggi, producono - a distanza di quarant'anni e più - germogli meravigliosi, impensati. La scoperta di queste nuove, incantevoli realtà è nata per me durante una serie di incontri che si sono tenuti nel Parco Basaglia, intitolati, "Percorsi di-versi", organizzati dai gruppi AMA e dal Collettivo Linea di Sconfine con la collaborazione dei poeti Giovanni Fierro e Francesco Tomada. Una serie di incontri all'aperto, nel segno della leggerezza e della condivisione, tra i raggi di sole filtrati dagli alberi, dove alcuni tra i migliori poeti del Triveneto da due anni donano un po' del loro tempo e le gemme preziose dei loro testi ad un pubblico sempre attento, dove si mescolano senza distinzione cultori della poesia e persone con più o meno forti problemi di disagio, in quella sorta di allergia della realtà - spesso più che giustificata - che è il malessere psichico. Alla fine di ogni incontro, poi, ognuno può leggere se lo desidera i suoi testi: sfoghi, pensieri, versi perlopiù non nati per essere pubblicati quanto per dare un volto alle proprie ombre. Ma anche - come mi è capitato di udire con ammirato timore dalla voce tesissima, cupa di un giovane spettatore - lacerti di visioni degne di un William Blake.
Quest'anno, dopo la proiezione di un video di Carmelo Fasolo che raccontava la storia di questi incontri, sono stato invitato a rimanere per quello che, in teoria, doveva essere - temevo - il solito buffet fatto di tartine con maionese, salatini e bottiglie di plastica riempite di liquido giallastro che, del profumato agrume, non conservano, ormai, null'altro che il nome. Lo offriva un gruppo di donne chiamato "Mani in pasta". Mi resi subito conto di trovarmi proiettato in un'esperienza unica, invece, una gloriosa successione di profumi delicatissimi investì i presenti, sulla volta del palato aromi noti e sconosciuti, passando senza problemi dal dolce al salato, si fondevano assieme senza mai stridere. I volti, le vesti di quelle donne, la discrezione antica con cui portavano brocche d'acqua di rose, limonate alchemiche, parlavano del mondo, dei suoi tanti volti più o meno lontani. Mai uguali, uniti dalla diversità che accomuna ogni cosa. E dalla sacralità del cibo, attraverso cui di giorno in giorno abbiamo la possibilità di vivere, stando attenti a ciò che mangiamo, in comunione con il mondo. La psicologa Corinna Michelin del Centro di Salute Mentale Alto Isontino Integrato, ricorda che si tratta di "donne con percorsi di vita molto diversi tra loro, alcune contattate perché attualmente afferenti al Centro, altre perché familiari o parenti di persone in carico ed altre ancora perché amiche contagiate dall'entusiasmo di quelle che avevano iniziato a partecipare al progetto". Il dottor Franco Perrazza, direttore del Centro, difatti scrive difatti che non è importante offrire solo cure mediche, partendo dal desiderio di Basaglia di ridare dignità e valore di persona a chi sperimenta questa sofferenza, ma anche "opportunità, occasioni, possibilità, atmosfere, luoghi di scambio, spazi per esprimersi, per essere assieme agli altri, per diventare protagonisti del proprio percorso di cura anche attraverso la partecipazione ad attività sociali e culturali". Da questa esperienza straordinaria, che continua, è nato un libro bellissimo edito dalla "Libreria Editrice Goriziana" intitolato appunto "Mani in pasta" che verrà presentato a Gorizia, presso la sede della Fondazione Carigo lunedì 23 alle ore 17.00.
Un libro costellato di importanti ed estesi contributi, come quelli di Carlo Petrini, Presidente Internazionale di Slow Food, o Massimo Cirri, psicologo e noto conduttore del programma radiofonico su Rai 2 "Caterpillar". Un libro di ricette di donne che vivono a Gorizia e nei dintorni. Ma che arrivano dai paesi vicini come dalla Sicilia, dall'Istria, dalla Repubblica Dominicana, dalla Macedonia o dall'Algeria. Ma, ancor più delle ricette, delle foto dei loro sorrisi, delle loro mani intente a preparare con cura i piatti tipici dei loro paesi, colpiscono le loro storie. Che sono storie drammatiche a volte ma, tutte, meravigliose e vere nella loro semplicità e profondità. In cui è impossibile non riconoscere le storie di noi, popolo di emigranti. Scrive Petrini nell'introduzione: "In un mondo che tende all'omologazione, dove la diversità è vissuta come una cosa pericolosa o infruttuosa, è nostro compito ricordare a tutti che la diversità è invece la più grande forza creativa esistente, come la natura insegna grazie ai miracoli che fa in virtù della biodiversità delle specie e delle razze. È con la massima apertura che si realizzano grandi cose, che si costruisce realmente qualcosa di nuovo".
Kheira, algerina, vive in Italia con la sua famiglia da quasi vent'anni. Ricorda, da vera poetessa, che quando cucina si sente, ogni volta, nascere di nuovo. I suoi versi sono fatti d'acqua di fiori d'arancio, di mandorle e cannella. Ricorda com'è necessario dare importanza a tutto. Capire, a fondo, la realtà in cui ti trovi a vivere. Per questo ha voluto imparare, oltre all'italiano, anche il friulano, la lingua della suocera, del marito. "Bisogna voler imparare!", dice. Kheira, assieme a tutte le donne di questo progetto, ci ricorda che solo aprendosi all'altro possiamo superare le barriere, portare in alto lo sguardo per guardare oltre. Leggendo queste pagine, dopo un po', noi non leggiamo più le storie di donne straniere ma quelle delle nostre nonne, mamme, sorelle (ma anche padri!) che trasmettono nei cibi che cuociono tutte le loro speranze, le loro memorie. Impastate, da mani piene d'amore e attenzione, con la pasta dei sogni.

Ivan Crico

Da "I fiumi invisibili": versione in lingua logudorese di Marlene Carboni della poesia "Lisonz" di Ivan Crico


Sardegna


RIPAS (S’ ISONZU)

In ripas jaras de nudda oru- oru m’ avvìo,
lògos de isoladu isplendore, inùe dae
sempre si ràttat su petrarzu velàdu
de silenziu. S’ aèra affogazzàda s’indùlchidi
cun delicàdu alènu de fiòres ‘e sisìa; addàe
in fundu, cunsunta dàe sa lughe, zente
istrànza repòsada a sa mùda, chèna isettare.
S’ammentu mèu s’ischìdat dae su sonnu
s’isgiàrit cun sos lampos - chi annùnziana
in su chelu temporale - s’allùmant subra
puntas de àrvures, contra ojos de mare.


GRETI (ISONZO)

Lungo greti chiari di niente mi avvio, / luoghi dal deserto splendore, dove il ciottolo / si consuma da sempre / abbagliato di silenzi. L'aria / infuocata si addolcisce con l'odore sottile / dei fiori di topinambùr; là in fondo, erosa / dalla luce, gente sconosciuta riposa / in silenzio, senza aspettare. Dal dimenticarmi / il mio ricordo si rianima con i chiarori / che in alto - preannunciando il temporale - / si accendono sulle cime degli alberi, contro l'azzurro puro.


S’ ISONZU

In ripas jaras de nudda
oru-oru m’ avvìo
lògos de isoladu isplendore,
inùe, dae sempre
si ràttat su petrarzu
velàdu de silenziu. S’ aèra
affogazzàda
s’indùlchidi cun delicàdu alènu
de fiòres ‘e sisìa; addàe in fundu- cunsunta
dàe sa lughe - zente istrànza repòsada
a sa mùda, chèna isettare.
S’ammentu mèu s’ischìdat
dae su sonnu
s’isgiàrit cun sos lampos,
chi annùnziana in su chelu temporale
s’allùmant subra puntas de àrvures,
contra su chelu limpìu.



Nota:

Della poesia "Lisonz" si propongono qui due versioni. Una, più filologicamente aderente al testo originale, e l'altra liberamente reinventata in forma poetica. Da noi i fiori di topinambùr o girasoli del Canada, tuberi che si usano per condire il cibo, non esistono. I fiori selvatici più simili sono quelli di “sisìa”, dal forte afròre. In Sardegna per indicare il colore azzurro puro si usa dire "occhi di mare" ("ojos de mare", pronuncia *osgios * de mare).

file:///Users/ibook/Desktop/Sardo%20logudorese%20-%20Wikipedia.webarchive

martedì 3 novembre 2009

Da "I fiumi invisibili": versione di Mario Di Stefano nella parlata romanesca della poesia "Lisonz" di Ivan Crico


ER FIUME ISONZO


Zur bbianco letto comme de carcia, ch'arilusce
de gnente der fiume sò ito, lochi de splennore
deselto, indove abbeterno er sasso s'arrota
cecàto de zilenzi. L'aria de foco s'addorcisce
co l'odore fine de fiori ggialli servatichi; in fonno
in fonno, squajata de la solina, ggente forastiera
s'arriposa in pasce, senz'aspettà. La momoria
mia dar dimenticamme se ripja co li brillori
che i 'narto - preannunceno er giorno der giudizzio -
s'accenneno sulle foje dell'arberi, contro l'azuro celo.

ISONZO

Lungo greti chiari di niente mi avvio, / luoghi dal deserto splendore, dove il ciottolo / si consuma da sempre / abbagliato di silenzi. L'aria / infuocata si addolcisce con l'odore sottile / dei fiori di topinambùr; là in fondo, erosa / dalla luce, gente sconosciuta riposa / in silenzio, senza aspettare. Dal dimenticarmi / il mio ricordo si rianima con i chiarori / che in alto - preannunciando il temporale - / si accendono sulle cime degli alberi, contro l'azzurro puro.

Nota:

La presente libera versione in romanesco recupera, al suo interno, diversi termini oggi ormai disusati ma che troviamo, ancora, nei versi di Gioacchino Belli. Con una piccola forzatura (concordata con l'autore), i "greti chiari" diventano allora un "letto bianco comme de carcia" "letto bianco come calce": materia di un bianco abbagliante, come abbaglianti sono, in questo caso, i greti sassosi dell'Isonzo d'estate. Un'immagine molto viva, intensa, che rinvia a certe allucinate descrizioni di paesaggi belliani. Ho trovato poi i termini antichi "arilusce" ed il bellissimo "deselto". "M'incammino" è stato sostituito con "sò ito" che, seppur spostando l'azione nel passato, può riferirsi, anche, ad un passato molto recente, di qualche ora, o minuto addirittura; ma ci permette, però, di inserire una forma tipica e antica, molto riconoscibile, del romanesco. Al posto di "sempre" ho trovato, derivata dal latino chiesastico, la forma "abbeterno", che rispecchia - tra l'altro - con maggior fedeltà il termine bisiaco "saldo", che non vuol dire semplicemente "sempre" ma indica qualcosa di ininterotto,che sembra non finire mai. "Consuma" è stato sostituito invece con "arrota" ("affila"): del resto i sassi prima di diventare sabbia diventano sempre più piatti, affilati come lame sottili di pietra.
Sempre in Belli ho trovato poi il vecchio termine "solina" che vuol dire "sole forte, da cui non c'è riparo": perfetto per la situazione descritta (così "erosa" vien qui sostituito, con ancor maggior pregnanza, da "squajata"). Ho trovato inoltre il termine "momoria" che suona più vetusto e suggestivo del semplice "ricordo". "Rianima" credo che in romanesco suoni meglio tradotto con "ripja", termine popolare, squillante, di fresca immediatezza. Mi sono anche imbattuto in un altro termine molto suggestivo, nel sonetto 47 intitolato "Campidoglio", che è assolutamente perfetto in questo contesto: in bisiàc, con "burlaz" s'intende quel tipo di temporale che arriva di colpo, non previsto, e "er giorno der giudizzio" vuol dire proprio "temporale improvviso". Bellissimo e quasi apocalittico. Testimone di una lingua popolare e alta al tempo stesso, dove sacro e profano, creando una straniata armonia, s'intersecano da sempre. MDS



LISONZ (di Ivan Crico)

Par giaroni ciari de gnente me 'nvïo,
loghi de lisért spiandor, onde che 'l còdul
al se frua saldo 'nzeà de ziti. Al vént
de boi se 'ndulzisse cu'l udor fiéul
dei pirantoni; là in cau, smagnada
del ciaro, zente foresta la polsa
zidìna, senza spetar. Del desmentegarme
al me recordo de nóu al se ànema
cui lusori che in alt - virtindo del burlaz -
i se 'npïa ta le ponte, contra al biau nét.

in bisiàc, antica parlata veneta del monfalconese)

Da "I fiumi invisibili": versione di Mario Di Stefano nella parlata romanesca della poesia "Lisonz" di Ivan Crico

ER FIUME ISONZO


Zur bbianco letto comme de carcia, ch'arilusce
de gnente der fiume sò ito, lochi de splennore
deselto, indove abbeterno er sasso s'arrota
cecàto de zilenzi. L'aria de foco s'addorcisce
co l'odore fine de fiori ggialli servatichi; in fonno
in fonno, squajata de la solina, ggente forastiera
s'arriposa in pasce, senz'aspettà. La momoria
mia dar dimenticamme se ripja co li brillori
che i 'narto - preannunceno er giorno der giudizzio -
s'accenneno sulle foje dell'arberi, contro l'azuro celo.

ISONZO

Lungo greti chiari di niente mi avvio, / luoghi dal deserto splendore, dove il ciottolo / si consuma da sempre / abbagliato di silenzi. L'aria / infuocata si addolcisce con l'odore sottile / dei fiori di topinambùr; là in fondo, erosa / dalla luce, gente sconosciuta riposa / in silenzio, senza aspettare. Dal dimenticarmi / il mio ricordo si rianima con i chiarori / che in alto - preannunciando il temporale - / si accendono sulle cime degli alberi, contro l'azzurro puro.

Nota:

La presente libera versione in romanesco recupera, al suo interno, diversi termini oggi ormai disusati ma che troviamo, ancora, nei versi di Gioacchino Belli. Con una piccola forzatura (concordata con l'autore), i "greti chiari" diventano allora un "letto bianco comme de carcia" "letto bianco come calce": materia di un bianco abbagliante, come abbaglianti sono, in questo caso, i greti sassosi dell'Isonzo d'estate. Un'immagine molto viva, intensa, che rinvia a certe allucinate descrizioni di paesaggi belliani. Ho trovato poi i termini antichi "arilusce" ed il bellissimo "deselto". "M'incammino" è stato sostituito con "sò ito" che, seppur spostando l'azione nel passato, può riferirsi, anche, ad un passato molto recente, di qualche ora, o minuto addirittura; ma ci permette, però, di inserire una forma tipica e antica, molto riconoscibile, del romanesco. Al posto di "sempre" ho trovato, derivata dal latino chiesastico, la forma "abbeterno", che rispecchia - tra l'altro - con maggior fedeltà il termine bisiaco "saldo", che non vuol dire semplicemente "sempre" ma indica qualcosa di ininterotto,che sembra non finire mai. "Consuma" è stato sostituito invece con "arrota" ("affila"): del resto i sassi prima di diventare sabbia diventano sempre più piatti, affilati come lame sottili di pietra.
Sempre in Belli ho trovato poi il vecchio termine "solina" che vuol dire "sole forte, da cui non c'è riparo": perfetto per la situazione descritta (così "erosa" vien qui sostituito, con ancor maggior pregnanza, da "squajata"). Ho trovato inoltre il termine "momoria" che suona più vetusto e suggestivo del semplice "ricordo". "Rianima" credo che in romanesco suoni meglio tradotto con "ripja", termine popolare, squillante, di fresca immediatezza. Mi sono anche imbattuto in un altro termine molto suggestivo, nel sonetto 47 intitolato "Campidoglio", che è assolutamente perfetto in questo contesto: in bisiàc, con "burlaz" s'intende quel tipo di temporale che arriva di colpo, non previsto, e "er giorno der giudizzio" vuol dire proprio "temporale improvviso". Bellissimo e quasi apocalittico. Testimone di una lingua popolare e alta al tempo stesso, dove sacro e profano, creando una straniata armonia, s'intersecano da sempre. MDS



LISONZ (di Ivan Crico)

Par giaroni ciari de gnente me 'nvïo,
loghi de lisért spiandor, onde che 'l còdul
al se frua saldo 'nzeà de ziti. Al vént
de boi se 'ndulzisse cu'l udor fiéul
dei pirantoni; là in cau, smagnada
del ciaro, zente foresta la polsa
zidìna, senza spetar. Del desmentegarme
al me recordo de nóu al se ànema
cui lusori che in alt - virtindo del burlaz -
i se 'npïa ta le ponte, contra al biau nét.

in bisiàc, antica parlata veneta del monfalconese)

lunedì 2 novembre 2009

Versione di Donato Muscillo della poesia "Lisonz" di Ivan Crico nella parlata lucana della zona appula




Lèmët d'aimarë

M'abbijë sóp a nu lèmët bianc d'aimarë
dë nint, luc dë lucë dësirt, addó la prét
së chënzum 'ncëcagliùt da sëlènzijë. L'arië
'mbucat s'assërèn chë l'addòr dë fiurë giallë
salvatëchë; dà abbascë, strótt da la lucë, cétt
crëstian scanësciut së rëpósën, sènz spëttà.
Scurdannëm s'avvëvëlèscë u' rëcurd dë lucë
ca 'ncil - arruann u' mal timpë - s'appëccën
sóp la cimë dë l'albër, 'mbaccë all'azzórr.


Per ulteriori informazioni:
http://it.wikipedia.org/wiki/Dialetti_lucani



LISONZ (di Ivan Crico)

Par giaroni ciari de gnente me 'nvïo,
loghi de disért spiandor, onde che 'l còdul
al se frua saldo 'nzeà de ziti. Al vént
de boi se 'ndulzisse cu'l udor fiéul
dei pirantoni; là in cau, smagnada
del ciaro, zente foresta la polsa
zidìna, senza spetar. Del desmentegarme
al me recordo de nóu al se ànema
cui lusori che in alt - virtindo del burlaz -
i se 'npïa ta le ponte, contra al biau nét.

ISONZO

Lungo greti chiari di niente mi avvio, / luoghi dal deserto splendore, dove il ciottolo / si consuma da sempre / abbagliato di silenzi. L'aria / infuocata si addolcisce con l'odore sottile / dei fiori di topinambùr; là in fondo, erosa / dalla luce, gente sconosciuta riposa / in silenzio, senza aspettare. Dal dimenticarmi / il mio ricordo si rianima con i chiarori / che in alto - preannunciando il temporale - / si accendono sulle cime degli alberi, contro l'azzurro puro.

Gianni Serena, versione nell'idioma barese-palesino della poesia "Lisonz" di Ivan Crico



ISONZE

Sóp’a ssècche de fiùme chiàre
de nudde m’abbièsceche, vanne addò
u nnudde resplènne, addò u rascìdde
se strusce da sèmbe accecàte
mménz’o ccitte. L’àrie appecciàte
ndelgèssce cu-addòre settìle de le fiùre
giàlle salvàtece; ddà mbònde, strutte
da la lusce, cresctiàne frastìire arrecheièscene
citte citte, sénz’aspettà. Da scherdàmme
u recuèrde abbevèssce che le lambe
ca ngìile – avvesànne u male
tìimbe – s’appìccene sop’a la cime
de l’àrue, mbàcce o u-azzurre stèrse.



Nota: Si tenga presente che nel dialetto barese tutte le vocali “e” non accentate (o toniche) non si pronunziano, soprattutto quelle finali. La vocale “e” si usa nella scrittura, per far “consuonare” appunto la consonante che la precede, altrimenti spesso ci troveremmo di fronte ad un rincorrersi di consonanti.
Palese-Macchie, di cui questa versione testimonia l'originale parlata, si trova ad una decina di chilometri a Nord-Ovest di Bari, sulla costa adriatica. Questa zona possiede un patrimonio storico-culturale, artistico e naturale espressione di un'antica vita - quella rurale - finora non sufficientemente valorizzata. Esso è stato anche oggetto di studio da parte di alcuni ricercatori, come Gianni Serena, risultando alquanto ricco e variegato: testimonianze di insediamenti preistorici (Neolitico, Età del Bronzo, Età del Ferro), edicole confinarie del Cinquecento, chiese rurali e rupestri, un'antica via dell'olio che costeggiava trappeti ipogei, torri secentesche, masserie e palmenti settecenteschi, paliare a forma di trullo; una chiesa del XIX secolo in stile neoclassico (purtroppo abbattuta), ville e palazzi ottocenteschi e novecenteschi. Un patrimonio purtroppo spesso abbandonato al degrado e all'incuria (come le tante masserie), oppure gravemente danneggiato dall'intervento dell'uomo (si pensi alla demolizione di Torre di Brencola, al crollo della chiesa rupestre di S. Angelo di Camerata causato da una vicina cava, agli insediamenti preclassici andati per sempre perduti). L'unica zona ancora conservatasi rimane quella della Lama Balice, recentemente trasformata in Parco regionale. Un territorio in ogni caso splendido, che merita di essere visitato e conosciuto.



LISONZ (di Ivan Crico)

Par giaroni ciari de gnente me 'nvïo,
loghi de disért spiandor, onde che 'l còdul
al se frua saldo 'nzeà de ziti. Al vént
de boi se 'ndulzisse cu'l udor fiéul
dei pirantoni; là in cau, smagnada
del ciaro, zente foresta la polsa
zidìna, senza spetar. Del desmentegarme
al me recordo de nóu al se ànema
cui lusori che in alt - virtindo del burlaz -
i se 'npïa ta le ponte, contra al biau nét.

ISONZO

Lungo greti chiari di niente mi avvio, / luoghi dal deserto splendore, dove il ciottolo / si consuma da sempre / abbagliato di silenzi. L'aria / infuocata si addolcisce con l'odore sottile / dei fiori di topinambùr; là in fondo, erosa / dalla luce, gente sconosciuta riposa / in silenzio, senza aspettare. Dal dimenticarmi / il mio ricordo si rianima con i chiarori / che in alto - preannunciando il temporale - / si accendono sulle cime degli alberi, contro l'azzurro puro.

Traduziòn in lingua milanesa della poesia "Lisonz" di Ivan Crico a cura di Elena Paredi



ISÒNZO (GERI)

Adree geri ciar de nagòtt, me sanii,
loeugh di desert splendor, in doe
ch’el rizzoeu de semper se destruga
scigaa di silenzi. Al vent foeugaa
s’indolzìss cont l’odor fin de fior
de piranton; de là a la fodrìna, smangiaa
de’ l’ ciar, gent forestera la requia
in silenzi, senza speccià. El mè regòrd
de’l desmentegamm se anema de noeuv
cont i lusiss che in alt – preavvisand
el temperi - se pizzen sora i s’cim
di erbol, contra el bloeu s’cett.


Nota di Elena Paredi:

Io scrivo in Meneghino che è diverso - per tanti aspetti e sfumature - da quello parlato in periferia e che, a volte, risulta un po' più "rustico" (rustegh).
Per quel che riguarda il termine "topinambùr" ( che, ai tempi delle mie nonne, si usava spessissimo in cucina, con la trippa e la faraona), un termine antico esiste: a Milano, difatti, lo chiamavano "piranton" (si pronuncia "pirantùn").
Per restare in tema di traduzioni in Milanese antico, di recente ho pubblicato un libro "Andeghee". Lo si trova sul sito http://www.unibook.com/it/nuovi-titoli è una raccolta di vocaboli del Milanese antico oggi in disuso o completamente dimenticati.

Ulteriori informazioni: http://it.wikipedia.org/wiki/Dialetto_milanese

LISONZ (di Ivan Crico)

Par giaroni ciari de gnente me 'nvïo,
loghi de lisért spiandor, onde che 'l còdul
al se frua saldo 'nzeà de ziti. Al vént
de boi se 'ndulzisse cu'l udor fiéul
dei pirantoni; là in cau, smagnada
del ciaro, zente foresta la polsa
zidìna, senza spetar. Del desmentegarme
al me recordo de nóu al se ànema
cui lusori che in alt - virtindo del burlaz -
i se 'npïa ta le ponte, contra al biau nét.

ISONZO

Lungo greti chiari di niente mi avvio, / luoghi dal deserto splendore, dove il ciottolo / si consuma da sempre / abbagliato di silenzi. L'aria / infuocata si addolcisce con l'odore sottile / dei fiori di topinambùr; là in fondo, erosa / dalla luce, gente sconosciuta riposa / in silenzio, senza aspettare. Dal dimenticarmi / il mio ricordo si rianima con i chiarori / che in alto - preannunciando il temporale - / si accendono sulle cime degli alberi, contro l'azzurro puro.

(poesia scritta in bisiàc, antica parlata veneta del monfalconese: http://it.wikipedia.org/wiki/Dialetto_bisiaco)

sabato 17 ottobre 2009

Premio Marin al bisiaco Ivan Crico


DI GIOVANNI FIERRO

il Piccolo — 16 ottobre 2009
pagina 12 sezione: GORIZIA

Per il poeta e pittore Ivan Crico è un momento importante. La sua più recente raccolta poetica, “De arzent zu-D’argento scomparso”, edita dall’Istituto Giuliano di Storia, Cultura e Documentazione, si è aggiudicata il “Premio nazionale Biagio Marin” edizione 2009, da quasi vent'anni il maggior premio dedicato alla poesia nei dialetti e nelle lingue minoritarie in Italia. La vittoria di Crico è giunta ad ex aequo con il poeta brianzolo Piero Marelli, e la sua silloge “I nocc-Le notti”, edita da Lieto Colle. Per Crico, vissuto da sempre a Pieris e ora trasferitosi a Tapogliano, questo riconoscimento è una ulteriore conferma della sua ricerca artistica, che con l’uso e lo studio del dialetto bisiàc, lo ha già da tempo portato all’attenzione di pubblico e critica nazionali. La cerimonia di consegna del premio si terrà a Grado, domani alle 17.30 nella sala consiliare del Municipio.

Crico, cosa significa vincere questo premio?

Questo premio mi sembra, innanzitutto, un inaspettato raggio di luce sul lavoro mio ma anche, di riflesso, su quello di molti miei validissimi coetanei la cui opera non è stata scandagliata con la dovuta attenzione in questi ultimi decenni dalla nostra critica nazionale. Un vuoto che dovrebbe essere al più presto colmato, anche per far capire al pubblico che esiste ancora una poesia viva, problematica in Italia, intrisa di bellezza e speranza. E che molto ancora si fa e molto si farà, ne sono certo.

Qual è il bisogno odierno dello scrivere in dialetto?

Esistono zone dove queste antiche parlate sono quasi scomparse; altre, come da noi, in cui questi linguaggi, seppur naturalmente modernizzati, sono ancora molto vivi. Per chi come ha imparato prima il bisiaco e poi l'italiano - e che, soprattutto, in bisiaco si esprime ogni giorno - è una scelta del tutto naturale. Così facendo, inoltre, contribuiamo a mantenere viva in noi e negli altri l'immagine di un mondo ricco, pieno di sfaccettature, di suoni, colori, profumi diversi: un mondo che si oppone ai deserti, al nulla dell'omologazione.

E la sua forza? Apre forse nuovi e diversi mondi di sensibilità ed evocazione? Uno sguardo ‘altro’?

Rispetto alle lingue nazionali, gli idiomi locali assorbono, dei luoghi in cui si formano, molte caratteristiche particolari. Non sono frutto soltanto della mente dell'uomo ma dell'incontro/scontro tra l'uomo e la natura che lo circonda. Si tratta di linguaggi nati senza la mediazione del potere e dunque, in essi, si cela intatta la carica sovversiva della vita che non è mai uguale a se stessa, che incessantemente diventa 'altro' da ciò che è stata, mobile, inafferrabile, insofferente ad ogni definizione.

C’è la necessità di fare di ogni dialetto una lingua?

Ogni dialetto, potenzialmente, può diventare lingua nazionale ed ogni lingua nazionale può trasformarsi in dialetto. La storia insegna. Dipende da quale prospettiva si guardano le cose. Dante ha trasformato il volgare fiorentino in un linguaggio illustre, Pasolini il rustico casarsese, parlato per secoli soltanto da poveri contadini, in una lingua raffinatissima. La nobiltà di una lingua dipende dalla nobiltà del pensiero di chi la impiega.

In ‘Piture’, c’è una fondamentale presenza dei colori (azzurri, viola, rossi, neri…). Ha trasportato su carta il suo dipingere?

Sono un pittore e guardo le cose con gli occhi di un pittore, non potrebbe essere altrimenti; ma scrivo per dire ciò che con i pennelli, con il silenzio dei colori non potrei mai dire.

Il paesaggio è protagonista degli scritti che compongono ‘Piture’, come mai? Cosa vede in lui?

Il paesaggio rappresenta tutto ciò che sta al di fuori dell'uomo, oltre l'uomo. Simboleggia ciò che non possiamo sapere, il mistero immenso che ci circonda. I limiti del nostro pensiero che tutto vorrebbe dominare, controllare, e che in realtà quasi niente sa di sé e, ancor meno, conosce ciò che gli sta attorno.

Che ruolo ha lo scrivere, poesia in particolare, nel nostro presente? E nel suo quotidiano?

Rispondo citando una frase bellissima del premio Nobel per la poesia Seamus Heaney: "Penso che il ruolo del poeta abbia a che fare con la sopravvivenza dell'interiorità più profonda dell'uomo. I poeti devono aiutare le persone a preservare la fiducia nel proprio futuro".

Si collega la sua poesia al pensiero, o solo al sentire? Quale è il suo gesto creativo, la sua direzione?

Lo studio è per me fondamentale. Ma non scrivo mai se non sento vibrare dentro di me, vive, le parole. Sulla scia luminosa di Holderlin, Rilke, Char, Jabés, Celan - autori la cui opera accompagna quasi ogni mio giorno - immagino una poesia in perenne cammino, in cui conoscenza e sentimento devono andare necessariamente di pari passo, come diceva un testo medioevale, "di inizio in inizio attraverso inizi che non hanno mai fine".

Per chi scrive, la parola è un inganno, o una verità?

Le parole sono semi. Non sappiamo se questi semi riusciranno a generare il frutto che celano in sé. L'unica cosa che sappiamo è che se non li piantiamo, sicuramente, il frutto non vedrà mai la luce. La vita dell'artista non è altro che questa oscura, paziente semina silenziosa di sogni. La nostalgia, insopprimibile, di qualcosa che ancora non c'è.

mercoledì 14 ottobre 2009

Ivan Crico, opere grafiche

Alcune opere grafiche (incisioni, tecniche miste) realizzate per la mostra "Segni della metamorfosi", curata dal critico Giancarlo Pauletto, in occasione di "Pordenonelegge 2007" dalla Biblioteca Civica di Pordenone.







martedì 13 ottobre 2009

A Ivan Crico il premio nazionale di poesia Biagio Marin


Da "Il Piccolo" 11.10.2009


Sabato 17 ottobre saranno consegnati i riconoscimenti ai vincitori del “Premio nazionale Biagio Marin” edizione 2009, da quasi vent'anni il maggior premio dedicato alla poesia nei dialetti e nelle lingue minoritarie in Italia, nato per ricordare l'opera e la figura del grande poeta gradese.
A testimonianza della riconosciuta serietà del premio, la giuria ha la facoltà di premiare difatti, oltre ai libri presentati, qualsiasi altro volume in dialetto o saggio edito in Italia negli ultimi due anni. Nel tempo la commissione giudicatrice è stata composta, fin dagli inizi, dai maggiori studiosi e poeti italiani, dal compianto Carlo Bo a Franco Brevini, da Pietro Gibellini a Franco Loi, da Edda Serra a Giovanni Tesio. Tra i vincitori delle scorse edizioni inoltre troviamo alcuni tra i più significativi poeti in dialetto e studiosi del Novecento: basti qui ricordare soltanto i nomi di Paolo Bertolani, Enesto Calzavara, Amedeo Giacomini, Franca Grisoni e, per la sezione dedicata alla saggistica, Dante Isella, Cesare Segre, Alfredo Stussi.
Quattro sono le persone che riceveranno il prestigioso riconoscimento. All’unanimità la giuria ha deliberato di assegnare il premio Marin di 5000 euro ex aequo al poeta bisiaco Ivan Crico, per la raccolta “De arzent zu-D’argento scomparso”, edito dall’Istituto Giuliano di Storia, Cultura e Documentazione e al brianzolo Piero Marelli per la silloge “I nocc-Le notti” edita da Lieto Colle. Ne dà notizia la presidente del Centro Studi Biagio Marin, Edda Serra. La giuria del Premio per la poesia in dialetto edita formata da Franco Loi, Giovanni Tesio, Pietro Gibellini, Gianni Oliva, Edda Serra e Flavia Moimas, si è riunita a Brescia e ha stabilito altresì di assegnare altri due premi. Quello riservato alla personalità che nel corso della sua attività ha onorato la poesia in dialetto e contribuito alla sua conoscenza, sempre con giudizio unanime, è stato assegnato a Lucio Felici, al quale va il premio del Comune di Grado di 2500 euro. Felici è noto per i suoi studi su autori in romanesco dal ‘300 a oggi e sui poeti di marca Trevigiana, in particolare Calzavara e Zanzotto. Infine, sempre all’unanimità, per la saggistica su Biagio Marin e il suo mondo il premio sarà assegnato a Caterina Conti per la tesi di laurea “I diari e le lettere di Falco Marin: slanci idealistici ed esperienza militare” discussa all’Università di Trieste.
La cerimonia di consegna si terrà a Grado (GO) il 17 ottobre alle 17.30 nella sal consiliare del municipio.

giovedì 1 ottobre 2009

L'insegnamento dei dialetti a scuola: alcune necessarie puntualizzazioni




So che rischio di apparire poco simpatico ma ho la necessità, nata da una ventennale frequentazione della materia ormai, di puntualizzare alcune cose. Bisogna stare molto attenti, quando si parla di questi argomenti, altrimenti c'è il rischio di impantanarsi, come anche qui talvolta è accaduto, nella palude (spesso quasi invisibile) dei luoghi comuni. Nel nostro paese, mi riferisco anche alle persone più preparate, si tende a dire la propria su tutto anche quando, in realtà, non si ha alcuna conoscenza dell'argomento su cui si vuol parlare. Mi spiego. Alcuni esponenti di un partito politico propongono di portare l'insegnamento dei dialetti nelle scuole e, l'indomani, sbucano ovunque - alla radio, in televisione, sui giornali, nei blog - migliaia di persone che pontificano su una questione così delicata. Ognuno è libero di esprimersi, è ovvio, ma se si vuol rispondere in modo ragionevole a certi sproloqui bisogna opporre, in primis, all'ignoranza la conoscenza approfondita di ciò di cui si parla. Altrimenti non si fa altro che aggiungere confusione a confusione. Facendo il gioco (di cui ha parlato così bene Mattiuzza) di tutti quelli che in realtà, sia a destra che a sinistra, segretamente si augurano la scomparsa di queste parlate.
Detto questo, senza spirito polemico si badi, vorrei chiedere: chi, tra coloro che parlano a favore o contro l'insegnamento dei dialetti nelle scuole, si è mai confrontato seriamente, a lungo, con insegnanti che hanno già sperimentato queste cose assieme ai bambini? Credo nessuno. O quasi. In realtà in Italia, nei luoghi in cui risiedono le minoranze linguistiche riconosciute dalla legge 482/99, dai ladini ai friulani, dai sardi agli albanesi, già si sperimenta da anni l'insegnamento nelle scuole di questi altri linguaggi accanto a quello dell'italiano: basterebbe far parlare questi insegnanti. Cosa che, ovviamente, nessuno si cura di fare. Anch'io del resto un tempo intervenivo pubblicamente su queste questioni (senza in realtà conoscerle a fondo, lo ammetto) finché, un giorno, non ho incontrato l'ex deputata e illustre studiosa di insegnamento plurilingue Silvana Schiavi Facchin. Un giorno, a pranzo, mi disse: "Ma perché parli di cose che non conosci? Prova a parlare con le insegnanti di friulano che ci sono in regione e fatti raccontare, da loro direttamente, come e se funzionano queste cose". Ho seguito il suo consiglio e devo ammettere che molte delle paure o perplessità che avevo sono, oggi, del tutto scomparse. Il mio insegnante di lettere mi diceva: prima di adoperare una parola, se non la conosci bene, prendi il dizionario e leggi bene, prima, che cosa significa. Impariamo a comportarci sempre così.
Cominciamo quindi a sfatare alcuni luoghi comuni. E partiamo, innanzitutto, dalla realistica constatazione che in Italia, con tutta la più buona volontà, se si riesce a tirar fuori un'ora alla settimana per l'insegnamento dei dialetti siamo già fortunati. Tolte feste e vacanze, in poco più di una trentina di ore distribuite in un anno cosa si può fare? Ben poco. Qualche cenno, velocissimo, di grammatica; l'insegnamento di qualche termine particolare (nomi di piante, animali, di oggetti..); un paio di ricerche sulla storia locale; e poi, se tutto va bene, l'allestimento di qualche recita o spettacolino. Più che di insegnamento, come si può ben capire, parliamo di un modo (necessariamente semplificato) per ricordare ai bambini ed ai ragazzi che si tratta di un mondo che merita di essere valorizzato e conservato in quanto parte integrante del patrimonio culturale del nostro paese. Attentare all'unità nazionale in questa maniera, come qualcuno paventa, con questi tempi a disposizione sopratutto, mi sembra assai improbabile...
Una delle ragioni, poi, per cui sarebbe impossibile insegnare i dialetti - dicono alcuni - nasce dalla loro eccessiva frammentazione interna. Innanzitutto, dire che in Italia ogni paese o quasi ha una sua parlata particolare non è del tutto esatto. Quando in un paese gli abitanti di un borgo dicono di parlare un linguaggio molto diverso dai loro vicini sappiamo bene che, nel novantanove per cento dei casi, si tratta in realtà di microdifferenze alimentate da una forte (ma spesso del tutto ingiustificata) volontà di differenziazione. Queste cose accadono, di solito, soltanto in aree di confine dove lingue molto diverse si incontrano. Per cui, se è vero che un abitante di Padova impiega un veneto diverso da quello impiegato da un abitante di Belluno, è anche vero che, se analizziamo a fondo queste parlate, i punti in comune sono infinitamente superiori rispetto alle differenze. Per cui, di solito, com'è accaduto anche per il friulano, si parte da ciò che è comune a tutti e poi, di volta in volta, nei singoli paesi si tenderà a valorizzare le peculiarità della parlata locale. Per capirci: tutti i veneti possono capire e studiare Goldoni, anche se non sono nati a Venezia, mentre se dobbiamo fare una ricerca su come i contadini chiamavano la gallina possiamo tranquillamente impiegare, di volta in volta, "gaìna" o "pita" impiegando le varietà locali. Sono, in realtà, cose più semplici da farsi che a dirsi: l'importante, è ovvio, è formare degli insegnanti con un'approfondita conoscenza del linguaggio locale. Ma questo vale per qualsiasi altra materia. Ricordiamoci infine che l'Italia, seconda solo all'India, è il paese più ricco di diversi linguaggi del mondo. Questo che dovrebbe essere un vanto è vissuto invece, da noi, come una tragedia. Perché?
Altro luogo comune. Invece di insegnare queste parlate perché non dedicare più tempo all'insegnamento dell'inglese? Bisognerebbe chiedersi invece: perché in Italia, oltre a non aver fatto nulla per salvaguardare il patrimonio linguistico locale, la scuola in 150 anni ha fatto poco o nulla per diffondere la conoscenza nel paese delle lingue straniere? E i media, quelli controllati dallo Stato intendo, cosa fanno per rendere familiare alle nostre orecchie la lingua inglese, ad esempio? Non si fanno programmi in orari decenti per imparare l'inglese, non si proiettano film in lingua originale, le canzoni straniere non compaiono mai sullo schermo con i sottotitoli. Anche qui molte chiacchiere, tanto fumo e poco arrosto. Oggi i maggiori studi scientifici ci dicono, invece, che il bambino che cresce impiegando diversi linguaggi sviluppa in realtà una maggiore capacità di rapportarsi, guardandole istintivamente da più punti di vista, alle varie situazioni che la vita gli pone davanti. Ottimi artisti di fama internazionale, come la nostra giovane cantante Elisa, sono la conferma che si può cantare in un ottimo inglese e, al tempo stesso, essere fieri custodi della propria parlata nativa. Pensando a persone come lei, come a tantissimi altri personaggi del mondo della cultura e dell'imprenditoria (ricordiamo qui il caso davvero eclatante di Missoni, che rilascia spesso interviste impiegando a man bassa il dialetto!), ci si rende immediatamente conto di quanto sia ridicolo dire, come alcuni dicono, che se vogliamo essere cittadini del mondo dobbiamo sbarazzarci di questi nostri antichi linguaggi. Se qualcuno lo vuol fare, lo faccia, ma si presenterà al mondo con qualcosa in meno, non in più.
Per finire, sempre in Friuli abbiamo visto che praticamente tutti gli immigrati, smentendo un altro luogo comune, iscrivono spontaneamente i loro figli ai corsi di friulano, segno che vedono in questa lingua un modo per integrarsi con maggiore facilità in questi territori. La conoscenza della realtà locale, poi, ha anche il merito di dare una fisionomia a questi luoghi che, per gli stranieri ma anche per le nostre nuove generazioni, rischiano di essere percepiti come non luoghi: spazi senza un volto, senza una voce, senza un passato alle spalle né un futuro davanti verso cui incamminarsi. Essere moderni e, al tempo stesso, attaccati alle proprie radici non è cosa impossibile, del resto, anche se per noi quasi inimmaginabile: qui, a pochi chilometri dal luogo da cui vi scrivo, in Slovenia, trovate giovani punk che parlano cinque, sei lingue intenti a mangiare piatti tipici e sottofondo di musiche tradizionali. Noi non siamo capaci di fare altrettanto. E forse, anche per questo, non sappiamo valorizzare come si dovrebbe ciò che fa parte del nostro passato come non sappiamo proiettarci pienamente verso nuove direzioni.

mercoledì 26 agosto 2009

Tra arte e artigianato, note su un saggio di Gian Ruggero Manzoni





Ho letto con molto piacere un bel saggio, intitolato "REGRESSO ARTE A DIFESA DELL’ARTIGIANATO" di Gian Ruggero Manzoni. Un saggio che mi ha fatto ricordare e pensare a tante cose. Io sono nato in un piccolo paese bagnato dalle acque dell'Isonzo, nei pressi di Monfalcone, a Pieris, lo stesso del noto allenatore di calcio Fabio Capello per intenderci. Una regione di confine, che fino a novant'anni fa non faceva nemmeno parte dell'Italia. Verso la fine degli anni Settanta, inizi Ottanta in paese c'era un solo laureato, mi sembra, e qualche pittore. Tre o quattro. Tutti figurativi. Eravamo, non è difficile capirlo, tagliati fuori da tutto. O quasi. Io frequentavo la prima media e volevo, a tutti i costi, imparare a disegnare bene. Mi recai da uno di questi pittori, bravissimo, che vendeva quadri di nature morte in mezza Europa, e gli chiesi se poteva darmi delle lezioni. Mi disse che non aveva tempo ma, se mi andava bene, potevo mettermi vicino a lui e, di tanto in tanto, avrebbe dato un'occhiata a quel che facevo. Ricordo ancora i lunghi pomeriggi passati in quello studio avvolto in una luce soffusa, morbida, la stessa che permeava i suoi quadri, le pagine di antichi volumi, il mappamondo, i drappi davanti al giallo dorato dei vetri piombati che facevano da sfondo a quelle sue composizioni così precise, equilibrate, dove i contorni di ogni cosa si sfumavano l'uno nell'altro tra ombre fonde, cangianti luccichii ottenuti depositando, con la punta di martora, minuti grumi di bianco di zinco o titanio, giallo di Napoli sul fondo preparato con sapienti tocchi dei polpastrelli. Io avevo undici, dodici anni ed ero molto diligente. Mi impegnavo a fondo accettando tranquillamente i suoi metodi piuttosto severi. Anche se si trattava di un uomo buono. A quell'età i giochi stavano diventando parte del mio passato, avevo pochi amici e le mie coetanee non suscitavano in me ancora alcun interesse. Ero una spugna pronta ad assorbire, libero da ogni condizionamento, e l'unico mio pensiero fisso era quello di leggere e guardare i libri d'arte, disegnare e dipingere. Walter, così si chiamava e ancora per fortuna si chiama, mi disse senza mezzi termini che non si poteva dipingere senza saper disegnare. Con lui, per tre anni, non presi mai in mano un pennello. Solo molti anni più tardi mi resi conto, parlando con vecchi pittori e artigiani, che il mio primo maestro era forse uno degli ultimi pittori a portare avanti i metodi di insegnamento delle botteghe rinascimentali. Per un anno intero dovetti copiare delle semplici composizioni di piatti, bicchieri e brocche. Non potevo divertirmi provando ad ombreggiarli ma dovevo concentrarmi soltanto a riprodurre con precisione i rapporti di lunghezza, larghezza, altezza degli oggetti. Le linee di contorno, fossero rette, mezze curve od ellissi, dovevo imparare ad eseguirle con un unico tratto di matita. Cosa difficilissima anche perché impone di forzare la mano imprimendole, spesso, dei movimenti innaturali. La naturalezza, in arte, del resto si conquista superando i propri limiti, non assecondandoli travestendoli di spontaneit L'uso della gomma, quindi, era ridotto ai minimi termini; e solo per fare chiarezza nei primi, inevitabili grovigli di linee. Mi diceva sempre: "Non bisogna farsi distrarre dalla superficie degli oggetti, non serve a niente saper riprodurre esattamente la venatura di un legno o i riflessi su un vetro: bisogna capire, prima, le relazioni che esistono fra i vari oggetti e lo sfondo: questa è la composizione e la composizione sta alla base di tutto". Quel primo anno fu dedicato interamente a questo serrato dialogo tra il pieno ed il vuoto. Poi le lezioni continuarono e, via via, mi diede le prime nozioni di prospettiva, mi spiegò la teoria delle ombre fino al momento in cui, terminate le scuole medie, mi iscrissi all'Istituto Statale d'Arte di Gorizia. A cui approdai da disegnatore ormai smaliziato. Nel metodo di Walter non c'era nulla - apparentemente - di stimolante, creativo. Si trattava quasi di un percorso zen dove l'ego dell'individuo, con i suoi desideri, le sue fantasie, veniva messo per un momento a tacere per poter fuoriuscire finalmente al di fuori di sé e guardare il mondo in silenzio, con attenzione estrema. Riscoprire, al di sotto del caos delle emozioni, dei turbamenti che creano in noi le cose che vediamo, le strutture profonde della nostra realtà. Mi faceva capire che nessuna cosa è bella in sé ma soltanto se riesce ad instaurare un rapporto armonico con ciò che le sta attorno. Se vogliamo valorizzare davvero un diamante lo spazio che lo circonda non è meno prezioso del diamante stesso. Allo stesso modo equilibrati rapporti spaziali possono fare di un guscio di noce o di un pezzo di matita gemme non meno preziose e lucenti. Così noi, i nostri pensieri e le nostre azioni, che acquistano senso e profondità soltanto se cominciano un dialogo con lo spazio del mondo che sta fuori di noi.
A cosa mi fa pensare, dopo tanti anni, tutto questo? Che alla base del lavoro dell'artista ci dovrebbe essere forse, prima del bisogno di apparire grazie all'invenzione di cose nuove, il bisogno di capire il mondo, sempre, liberandosi dai condizionamenti del proprio io. Il nuovo non può che emergere da visioni nuove. Altrimenti, come oggi accade, l'arte rischia di trasformarsi in un'inquietante catena di montaggio di prodotti in apparenza sempre diversi (ma che in realtà non sono che collage di ciò che già sappiamo) per un pubblico che nessuna novità riesce più a saziare. Non un luogo dove porre domande e meditare su possibili risposte ma un'arena al cui interno, per soddisfare gli istinti più bassi degli spettatori, siamo costretti ad assistere ad una continua escalation di orrori. Con la complicità di critici che non visitano più gli studi dei giovani artisti, non conoscono spesso né la storia antica né le tecniche di cui dovrebbero parlare. Che dedicano saggi e mostre a smaliziati pubblicitari, senza alcuna preparazione artistica, presentati di volta in volta come artisti rivoluzionari, salvo dimenticarli all'apparire poi - su questo orizzonte avvelenato da mille speculazioni e riciclaggio di denaro - della nuova stella di turno.
Il mio primo maestro era dunque, per concludere, soltanto un'abile artigiano o un'artista? Distinzione superflua anche perché, oltre il metodo, c'era anche della poesia, vera, in molti suoi lavori. Comunque un tempo tutti erano abili artigiani e così tutti si consideravano anche se significativamente dalle mie parti gli artigiani, tutti gli artigiani dal decoratore al falegname, erano chiamati "artisti". Poi, è logico, da queste botteghe da cui uscivano centinaia, migliaia di ottimi pittori, scultori, stuccatori, doratori, ogni tanto emergeva anche qualche allievo particolarmente dotato, capace di aggiungere a schemi ormai consolidati qualcosa di suo, di nuovo. Simili, in questo, a squadre di atleti che migliorano di continuo i propri record fino ad ottenere risultati impensati. In questi grandi autori la novità era il naturale risultato di una ricerca di verità che portava a nuovi sconosciuti approdi. La ricerca della novità a tutti i costi rischia, se non ci sarà un'inversione di rotta, di far arenare gran parte degli autori contemporanei sulle spiagge di una fama tanto veloce da ottenere quanto esposta, pericolosamente, all'incessante erosione di ogni nuova marea.

martedì 7 luglio 2009

Biagio marin un poeta fra mare e vento


da: Messaggero Veneto — 05 luglio 2009 pagina 09
sezione: CULTURA - SPETTACOLO

di PAOLO MEDEOSSI

In principio c’era un uomo che, stanco della solitudine, sognava di far uscire dal loro silenzio gli abitanti dell’isola dov’era stato bambino. Quell’uomo, un poeta, provò a bussare a tutte le case dell’antico borgo, piccolo nido protetto da quel nido più grande che era l’isola. Inutilmente. Nel silenzio delle calli e dei campielli si sentiva solo l’eco del suo bussare. Allora capì che era arrivata l’ora di lasciare l’isola e i suoi anni bambini e di avviarsi con coraggio verso strade sconosciute, se voleva spezzare il cerchio che lo teneva prigioniero di quel suo mondo di sassi. Quell’uomo era Biagio Marin che in una fiaba lirica autobiografica ( Stanco de solitae/ l’omo a batuo a la porta... ) narrò la condizione del poeta nella Grado di inizio Novecento mentre appunto cercava chi gli aprisse per ascoltare i versi scritti nel dialetto parlato da una minuscola comunità di pescatori in un’isola sperduta fra mare e laguna, poco conosciuta nel 1912 quando cominciava la grande avventura della poesia mariniana. Insomma, doveva proprio partire per andare a scoprire i suoi veri fratelli. Un’avventura diventata a poco a poco, nel tempo, nei 94 anni di vita di Biaseto (morto nel 1985) e anche dopo, assolutamente straordinaria tanto che le sue liriche e le sue parole si sono posate, come le foglie di un albero, dovunque negli angoli più impensati di città, paesi, contrade sconosciute. A proporre queste intuizioni e queste immagini splendide legate a Marin, a ciò che ha scritto e ci ha lasciato, è adesso Anna De Simone che ha curato il volume Cinquanta poesie per Biagio Marin , pubblicato per i Quaderni del Centro studi dedicato al poeta gradese, in una collana diretta da Edda Serra. È stato presentato nei giorni scorsi, esattamente il 29 giugno, anniversario della nascita di Biagio che così è stato festeggiato con una intensità naturale e sorprendente. All’origine del libro c’è proprio l’idea di completare quello che era nella mente del poeta che aveva voluto sfidare la solitudine, un destino, un mondo per far largo alle sue fragili, potentissime e magiche parole, che restarono sempre simili a quelle pronunciate dai bambini. «Altri poeti – scrive Anna De Simone -, seguendo anche inconsapevolmente le orme di Marin in quel loro silenzioso obbedire a una musa vestita di stracci, hanno raccontato, ciascuno nel proprio dialetto, la vita, il mondo, se stessi. Io credo che i cinquanta autori delle cinquanta liriche proposte in questa piccola antologia siano proprio i fratelli tanto a lungo cercati da Marin. Fratelli più giovani, provenienti da luoghi diversi, i cui testi in molti casi si spingono fino alle spiagge del terzo millennio». Si tratta, come spiega Edda Serra, di cinquanta voci che fanno coro per onorare Marin, voci di risposta oggi al suo canto e dialogo, ciascuno nella propria diversità, eppure coro compatto di voci scelte, a rappresentare cinquanta dialetti, cinquanta linguaggi poetici, cinquanta paesaggi, cinquanta piccole patrie, che sorprendono però nella loro unità. Un’unità fatta di fedeltà al poetare, di scelta coraggiosa, di cura amorosa e tenace della propria opera e del suo destino, che supera ogni narcisismo. Fra i cinquanta fratelli (e di ognuno è stata scelta una lirica), che rappresentano un po’ tutta l’Italia, tanti sono naturalmente i friulani, i bisiachi, i triestini, come Elio Bartolini, Luigi Bressan, Pierluigi Cappello, Ivan Crico, Nelvia Di Monte, Amedeo Giacomini, Claudio Grisancich, Federico Tavan, Umberto Valentinis, Ida Vallerugo, Gian Mario Villalta, Leonardo Zanier. Su ognuno di essi il libro propone un accurato apparato di note per cui l’antologia diventa alla fine uno sguardo appassionato e affidabile sulla condizione della poesia dialettale in Italia (narrata regione per regione) che, anche se pochi lo sanno al di là degli addetti ai lavori, sta vivendo un momento di particolare vivacità, in contrasto con l’apparente declino della poesia in genere. Anna De Simone, di origini siciliane, risiede a Milano e da sempre segue con grande attenzione i nostri autori avendo dedicato studi e saggi in particolare, oltre che a Marin, a Virgilio Giotti, a Cappello, Tavan e Vallerugo. Nel testo che apre questo suo nuovo libro, dopo aver ricordato lo straordinario impegno come poeta e scopritore di talenti di Amedeo Giacomini, che creò con la rivista Diverse lingue un punto di riferimento fondamentale per tutto il movimento di questi decenni, mette in luce in termini limpidissimi e definitivi un aspetto notevole, scrivendo: «Quello della poesia in Friuli nel secondo Novecento è un fenomeno che non ha precedenti e reclama un discorso a sé: questa terra ci ha dato infatti, nell’ultimo scorcio del XX secolo, assieme alla Romagna, il maggior numero di poeti di alto livello. Molti se ne sono accorti, pochi se ne sono occupati in maniera approfondita... I dialetti stanno morendo – su questo sono tutti d’accordo – ma la lingua friulana, nella molteplicità e ricchezza delle sue varianti, non aveva mai conosciuto in passato esiti tanto diversificati e originali, grazie ad autori che si sono collocati con decisione, consapevolezza e senso d’arte fuori dalle secche municipalistiche di troppa poesia dialettale, prima di Pasolini, per intenderci, e hanno raccontato con originalità, senza mai cadere nella maniera, la vita... Così i fili della poesia si sono diramati in tutte le direzioni lungo una terra il cui nome evoca un passato molto antico, e hanno creato un arazzo che più vario e ricco non potrebbe essere». «Io sono un golfo», disse un giorno Marin agli amici. E l’antologia che gli è stata dedicata assomiglia proprio a un golfo dove si intrecciano sguardi, talenti, lampi, parole perdute e ritrovate, le “parole di legno” evocate da Ernesto Calzavara. Questa musicalissima teoria di voci, lingue e suoni è aperta da una breve lirica scritta da Novella Cantarutti, un inno bellissimo in friulano per Marin, poeta fatto di mare e vento, mâr e buera , «fermo sull’onda dell’eternità». In conclusione del viaggio ci sono alcuni versi di Biaseto, quelli dove dice che nulla è passato e tutto vive ed è presente. Ninte no’ xe passào / e duto vive e xe presente / un sielo solo levante e ponente / un solo sol m’ha iluminào.

martedì 30 giugno 2009

Alberto Cappi, in memoria


Vogliamo ricordare Alberto Cappi. Nato a Revere (MN) nel 1940 si è spento, dopo una lunga malattia, domenica 28 giugno 2009.

Per la poesia: Passo Passo (Firenze, 1965); Alfabeto (Milano, 1973); 7 (Torino, 1976); Mapa (Mantova, 1980); Per Versioni (Milano, 1984); Casa delle Forme (Udine, 1992); Piccoli dei (Faenza, 1994); Il Sereno Untore (Latina, 1997).

Per la saggistica: Il Testo e il Viaggio (Mantova, 1977); Materiali per un frammento (Udine, 1989); Linguistica e semiologia (Torino, 1994); Materiali per una voce (Grottammare, 1995); In atto di poesia (Napoli, 1997); Materiali per un'arca (Bologna, 1998); Il luogo del verso (Yale, 1998); Il passo di Euridice (Milano, 1999).

Per la traduzione: Juan Liscano, Nella notte venne e baciò le mie labbra (Milano, 1981); Alain Jouffroy, Cerfs Volants (Mantova, 1993); Juan Liscano Fondazioni (Bologna, 1995); Florbela Espanca, Dodici Sonetti (Milano, 1997); Ernesto Cardenal, Quetzalcoatl (Faenza, 1999).

Ha curato le antologie Tutti li miei pensier parlan d'amore (Milano, 1988); L'acqua di Manto (Udine, 1989); And lovely is the rose (Milano, 1990); A las cinco de la tarde (Milano, 1993); Teoria e poesia (Pescara, 1993); Mamanto (Mantova, 1994); Parole nella leggenda (Mantova, 1997).

E' stato redattore delle riviste "Anterem", "Quaderno", "Steve", "Testuale", "Tracce" e collabora ad altre tra cui "Poesia", "Testo a fronte", "La Clessidra", "Il Verri", "Hebenon", le americane "Gradiva" e "Differentia", la venezuelana "Zona Franca" e la spagnola "Serta".

Ha curato alcune collane di poesia e dirige "L'Albero Cavo" in Pescara, "La città dei poeti" e "Poesia del '900" in Mantova, "Nightigale" in Faenza.






Quattro Canti



1996 - 1999







primo canto della neve





quando venne la neve

la neve portò bianchi glicini

e dolci tortore di farina

quando venne la brina

anima candida luce di luna

quando candì il giorno intorno

e l’oro si fece solo sole

quando la notte si annodò

e nodo e nido furono uno

quando il violino suonò le note

della terra bruna e del mare

quando ritmando e poetando

siamo tornati ad amare





secondo canto del vento





dove venne il vento

il vento seminò sibilanti serpi

sui sentieri del sonno e del sogno

dove venne l’uomo e disse

sia detta aurora la prima

ora del tempo

benedetto sia il mattino

dove bambino colsi

alle cose il senso







terzo canto della luce





perché venne la luce

la luce fuggì dal guscio

di attonita pietra dura

in zuccheri di filate stelle

e luce fu e venne

all’uscio della preghiera

al muschio delle lanterne

ferme

nella materna sera





quarto canto del gelo





come venne il gelo

il gelo cantò i suoi occhi

in acini di oscure uve

come venne il gelo

il gelo calò il suo dente

in cocci

piccole nature

sulla pura

cecità delle lucciole

in fedeltà al volo

ai morsi di paura

sabato 27 giugno 2009

Ivan Crico in "50 poesie per Biagio Marin"


Lunedì 29 giugno 2009 alle 18.00 nella Sala Consiliare del Comune di Grado verrà presentato il libro "50 poesie per Biagio Marin" di Anna De Simone, Quaderno n.2 del Centro Studi Biagio Marin. Il libro raccoglie poesie e testi di una cinquantina di poeti e studiosi che vanno da Pier Paolo Pasolini e Franco Loi e accoglie diverse poesie di autori contemporanei della nostra regione come, tra gli altri, Gian Mario Villlata, Pier Luigi Cappello, Giacomo Vit, Luigi Bressan ed Ivan Crico.

martedì 9 giugno 2009

Fra Collio e Grado alla ricerca di paesaggi e poeti


Messaggero Veneto — 01 giugno 2009
pagina 18 sezione: CULTURA - SPETTACOLO

di PAOLO MEDEOSSI


Il remo colpisce l’acqua con una carezza energica e il canotto scivola via sull’onda mentre un delfino solca frenetico il mare in lontananza, accompagnato da un gabbiano pigro. Immagini incollate nella memoria, ricordo di un ambiente puro, incontaminato. Fine anni Sessanta, prima delle grandi trasformazioni, prima del continuo peggioramento. Eppure questo paesaggio resiste in qualche modo e rimane ancora lì, sospeso fra sogno e realtà, in certi tramonti sotto le sferzate della bora, favorendo i viaggi nella fantasia e nella poesia, come accade ora ad Hans Kitzmüller che a questo mondo dedica un libro bellissimo, per fare il punto, per svelare personaggi e luoghi. E per rimettersi in cammino. I romanzi d’avventura intellettuale sono fatti per tale motivo: accendono il desiderio e scrollano di dosso ogni torpore. In questo caso non si tratta di andare sette anni in Tibet per ritrovare una dimensione più spirituale di se stessi, ma basta andare sette ore nel Goriziano, un territorio piccolo, raccolto, segnato dalle vicende di una frontiera difficile e anche tragica, sempre però affascinante nei suoi risvolti meno noti. Lo si attraversa in un baleno. In autostrada, da Palmanova al Lisert, è una corsa di pochi minuti. Ecco fatto, una volta arrivati al casello sotto il ponte ferroviario ad archi, l’Isontino è già alle spalle. Guardandolo dal mare, al largo di Duino, lo si abbraccia in un istante, dalle bocche del Timavo a Grado. Eppure in questi luoghi minuscoli, dove ogni lembo è ravvicinato e a portata di mano, è possibile vivere sensazioni e incontri sorprendenti, come quelli narrati da Kitzmüller in un libro che promette già bene dal titolo, il fascinoso E in lontananza Gorizia , perché fa capire come il discorso alla fine ruoti attorno alla città, che se ne sta lì appartata, silenziosa, quasi raggomitolata all’ombra del suo castello e della sua storia. Il volume (210 pagine, 20 euro) è uscito non a caso per una collana della Libreria editrice goriziana, che continua così nella intelligente opera di ricerca e perlustrazione, capace di fornire autentiche chicche con ristampe, che evocano il clima d’un certo passato, oppure con opere nuove di zecca, come questa che raccoglie impressioni risalenti fino allo scorso inverno visto che la descrizione di certi posti, sotto l’incalzare della modernità consumistica, è molto attuale e aggiornata. L’autore chiarisce che non ha voluto proporre una guida turistica per la promozione dei luoghi, ma un diario con le emozioni che i territori trasmettono attraversandoli velocemente oppure osservandoli da fermo. Non si tratta di sensazioni private, soggettive, narrate con lirico trasporto, bensì di intuizioni che tutti possono condividere e far proprie, nella consapevolezza che in definitiva l’ambiente siamo pur sempre noi, con i mutamenti che subiamo e il nostro modo di pensare e vedere. Il racconto di un paesaggio può diventare così una grande storia, la sua lettura e interpretazione trasformarsi nell’avventurosa esplorazione di una porzione di spazio in una frazione di tempo. In tutto questo, l’approccio letterario è essenziale, non per sfoggio di saccenza, quanto invece per un dato naturale, evidente a tutti. Davanti allo scenario di Grado, a esempio, saltano fuori limpidi e necessari i versi di Biaseto Marin che – dice Kitzmüller – «sono la formulazione più efficace dell’esperienza fisica della luce, del cielo, di vele gonfie e afflosciate, delle onde del mare e dello sciacquio della laguna lungo le rive delle barene». Il racconto parte dalla pineta dove approdò San Marco, a due passi di Aquileia, e si sofferma a lungo in questa porzione di Friuli in cui il punto di riferimento diventa il campanile della basilica, «una matita di sassi che scrive nuvole con la sua punta di coppi», come poeticamente spiega il professor Emilio Rigatti ai suoi allievi mentre attraversano questi posti avendo ben presente la lezione leopardiana, secondo la quale l’uomo sensibile e immaginoso è destinato a vedere il mondo e gli oggetti doppi perché solo così potrà percepire il bello e il piacevole delle cose. A due passi c’è l’Isonzo, uno dei più bei fiumi d’Europa e la sua presenza evoca i versi di Celso Macor, scritti in sonziaco , misterioso aggettivo che indica una varietà del friulano, caratterizzato da una predilezione per la vocale “a”. Il viaggio nell’Isontino è infatti anche un’escursione in un patrimonio linguistico originalissimo che però si sta semplificando visto che, se gli sloveni sono perfettamente bilingui, i friulani lo sono ormai solo parzialmente. E ancora ci sono il bisiaco e il gradese, diffusi nelle loro aree. Dunque la provincia di Gorizia può essere definita multilingue, ma solo in minima parte plurilingue mentre dallo scenario è sparito il tedesco che un secolo fa era invece alla base della cultura del territorio. Peculiarità che veniva esemplificata in modo emblematico dall’identità culturale degli studenti dell’istituto goriziano più prestigioso, lo Staatgymnasium , tra i quali c’erano Alojz Gradnik, Otto von Leitgeb, Ervino Pocar, Biagio Marin, Carlo Michelstaedter. Una ricchezza sparita dopo la prima guerra mondiale, che lascia tracce solo in libri da riscoprire o in biografie straordinarie, come quella dell’attrice Nora Gregor. Il viaggio nel paesaggio del Goriziano non dimentica le devastanti trasformazioni causate dal fiorire di capannoni e centri commerciali, come accade a Villesse. «Siamo – dice Kitzmüller – di fronte a una distruzione definitiva a favore dell’effimero, una scelta che determina un uso del territorio dalle conseguenze irreversibili, che si accompagna a uno spreco incredibile di risorse. L’eccesso del gigantismo della grande distribuzione cancella la misura del necessario». Meglio tornare allora ai maitàni , i segnali di mare di cui parla Ivan Crico, poeta raffinato e colto che nella Bisiacaria è andato a recuperare parole preziose e dimenticate, dando loro vita e arte. I maitàni erano i pali di legno alla cui sommità venivano legate stoffe colorate, che servivano ai pescatori per raggiungere il largo senza insabbiarsi. Segnali insomma come annunci di presenze, di qualcosa che non vediamo, ma avvertiamo. Segnali come quelli lanciati da questo libro da leggere cammin facendo, fra il Carso e il litorale, fra il Collio e Grado, dove qualche anno fa c’era il bar Mimi. Una mezza trattoria in riva Dandolo da dove si osservava l’uscita delle barche e si ripensava ai paesaggi perduti o ritrovati. Al suo posto c’è ora un condominio.


Foto di Hans Kitzmuller realizzata da DANILO DI MARCO

lunedì 8 giugno 2009

Con «De edentità e suvignìr (Di identità e memoria)" Ivan Crico vince l'edizione 2009 del "Premio Macor"


il Piccolo — 07 giugno 2009
pagina 10 sezione: GORIZIA

ROMANS.
Davanti a un folto pubblico sì è tenuta all'auditorium «Mons.Galupin» di Romans, la premiazione del "IV Premio Letterario Celso Macor", che stavolta aveva come tema: «Identità e memoria delle genti del Friuli Venezia Giulia». Questi i premiati. Per la sezione narrativa riservata alle scuole medie vicnitori sono risultati gli studenti della 2.a A della «G. F. del Torre» di Romans, che hanno presentato l'opera «Imagina un mont plen di scovacis: ce gust varessie la vite? (Immagina un mondo pieno di rifiuti; che gusto avrebbe la vità?). Con loro sul palco c'erano il preside Paolo Buzzulini e l'insegnante Gabriella Tamburini. Da segnalare che quest'anno il premio di poesia riservato alle scuole medie e alle superiori non sono stati assegnati. Passando alla sezione prosa premio assoluto, sono stati segnalati: per la lingua italiana «L'arrotino e il miracolo dei fagioli» di Giacomo Miniutti di San Quirino, «Non sono» di Rita Mazzone di Padova e «L'asfalt» di Simone Devidi di Romans; per la lingua friulana «Frussons di zoventut» di Ivaldi Calligaris di Romans e «A cjapà aiar sul tor» di Stefano Gasti di Remazacco; per la lingua slovena «Zaponke sens (I fermagli delle ombre) di Vilma Puric di Trieste, mentre il vincitore del premio assoluto di prosa è stato Mario Schiavato di Fiume con «I giorni delle processioni». Per la sezione poesia premio assoluto sono stati segnalatie le poesie in lingua italiana «L'aria del miracolo» di Pamela Bravo di Romans e «Akilis» di Silvano Zamaro di Joannis-Aiello del Friuli; in lingua friulana «Stazion» di Stefano Gasti di Remanzacco e «Inta l'ombrena da urtis» di Silvano Zamaro, mentre il vincitore del premio assoluto di poesia è stato Enrico Colussi di Monfalcone con «La corte di cristallo» e «Lo sguardo». Per la sezione dialetto bisiaco sono stati segnalati: per la poesia «Sotonote» di Mauro Casasola di Fiumicello; per la prosa «La me' storia xe tante storie» di Marilisa Trevisan di Staranzano, mentre il vincitore è stato Ivan Crico di Ta pogliano con «De edentità e suvignìr (Di identità e memoria). Ricordiamo che la serata, organizzata in collaborazione con la Libreria Editrice "Leonardo" di Pasian di Prato, è stata allietata dal duo David Gregoroni (sax) e Andrea Valent (fisarmonica), mentre il professor Leopoldo Pagnutti ha letto alcuni brani delle opere vincenti.

Edo Calligaris

domenica 7 giugno 2009

"In lontananza Gorizia": Kitzmuller, il goriziano e la Bisiacaria



Da Il Piccolo — 07 maggio 2009
pagina 12 sezione: GORIZIA

«Il paesaggio non è solo uno sfondo, una quinta decorativa ma è un testo che parla anche di noi; se vi ci si addentra senza pregiudizi diventa un’avventura, un viaggio di scoperta sul passato e sul nostro presente»: così ieri sera Hans Kitzmueller alla presentazione del suo nuovo libro «E in lontananza Gorizia» (Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2009, pagg. 208, 20 euro). Gremita la saletta della libreria, attenzione religiosa sia per l’autore («Originale e di assoluta levatura» lo definisce Adriano Ossola, l’editore) che per lo sponsor prestigioso, Sergio Tavano, storico dell’arte e della gorizianità. L’apertura è del giornalista Maurizio Bait: «Bisogna pensare a una regione, qualsiasi regione della terra, come a una biblioteca costituita soltanto da scaffali per testi primari». Hans Kitzmueller, germanista, traduttore, editore, come narratore ha sempre pubblicato romanzi di viaggio, quali «Viaggio alle Incoronate», 1999, «Arcipelago del vento», 2003, «Alle isole Marchesi», 2005, ma questo «E in lontananza Gorizia» presenta uno scarto rispetto al passato: non più l’esotismo delle isole oceaniche ma uno sguardo all’uscio di casa, sul modesto orizzonte del Goriziano, o meglio su quel che resta oggi del Goriziano storico, una porzione estremamente ridotta che pur restituisce, nella sua varietà, dal bosco in laguna allo splendore del Collio ed al solenne scorrer dei fiumi un patrimonio di rilievo assai poco valorizzato. Nei dodici capitoli del libro il paesaggio, l’ambiente in cui viviamo, diventa un testo da cui traspare la storia della città. I capitoli del libro scorrono fra passato e presente. Il paesaggio viene descritto così com’è oggi ma ci si prova anche a riflettere su com’era ieri. Ogni tappa viene raffrontata a suggestioni letterarie, di autori lontani e vicini, da von Mailly sino ad arrivare a Ivan Crico ed alle sue poesie in bisiaco ed alle escursioni ciclistiche, epperciò calme, meditate, di Emilio Rigatti. La foto o la pittura possono riprodurre solo dettagli ripresi in un momento determinato. Mentre il paesaggio è in continua trasformazione. «Le foglie crescono», dice Kitzmueller, che con il ricorso alle suggestioni letterarie si impegna a restituire il paesaggio alla sua complessità storica. «Io ne racconto l’attraversamento», dice. Anche superando le metamorfosi subite dal paesaggio, oggi che il mercato invade ogni spazio e che tutto viene utilizzato a fini di consumo: ne sono esempio i campi di Villesse invasi dall’Ikea. E ancora: «Bisogna confrontarsi con la nostra identità, soprattutto con quella perduta». E con la Gorizianità eliminata. Che non è solo quella rimasta al di là dei confini; c’è anche quella, Cervignano, Aquileia, parte del litorale, spartita fra le province vicine in nome dell’eliminazione delle radici austriache e delle potenzialità slovene. «Noi eravamo l’Europa», dice Sergio Tavano citando Stephan Zweig, «e nella Gorizia di un tempo c’era la consapevolezza di comporre un’identità europea». Con il vecchio vizio goriziano, aggiunge il professore, di «guardare alle cose non come sono ma come dovrebbero essere».

Sandro Scandolara

Nella foto Hans Kitzmuller ritratto da DANILO DE MARCO

Tutto cominciò con Tullio Crali


Da il Piccolo — 03 maggio 2009 pagina 05 sezione: GORIZIA

Ma chi sono i talenti goriziani dell’arte cui fa riferimento l’assessore Devetag? Gorizia e il territorio limitrofo hanno sempre avuto un particolare predisposizione per quanto concerne l’attività artistica. Alla fine della seconda guerra mondiale a Gorizia si manifestò una evidente volontà di dialogo e confronto nell’ambito culturale e artistico. Gli Amici dell’arte, sotto la spinta dinamica di Tullio Crali, rianimarono l’ambiente degli artisti e promossero un premio di pittura e poesia che ebbe risonanza in tutta la regione. Questo fu il primo passo verso una rinascita grazie anche la riapertura di Palazzo Attems che ospitò importanti rassegne artistiche. Tra le prime, nel 1948, una rassegna d’arte riservata ai giovani, a cura dell’Associazione giovanile italiana, che riunì artisti della regione e della Carinzia in una mostra di pittura e scultura. La partecipazione fu notevole, soprattutto di artisti isontini come Orlando Poian, Demetrio Cej, Mario Tudor, Sergio Altieri, Cesare Mocchiutti, Armando Depretis, Ignazio Doliach, Gianna Marini, Antonio Verone, Mario Bardusco, Lorenzo Boemo, Aristide Marcozzi, Marino Vecchi, Fulvio Monai, diversi ancora attivissimi. Da allora, e fino ai giorni nostri, numerosissime sono state le iniziative che si sono susseguite, a cominciare dalle importanti e antesignane Biennali Giovanili a cura del Centro Culturale Stella Mattutina che dal 1963 fino al 1981 scoprì le nuove leve dell’arte e mise in evidenza le espressioni delle nuove generazioni: Mauro Mauri, Luciano de Gironcoli, Giorgio Valvassori, Giovanni Anglicani, Mario Palli, Giovanni Pacor, Mario di Jorio, Claudio Palcic, Gianni Borta, Sergio Colussa, Giogo Cisco, Paolo Marani, Giuseppe Onesti, Stelio Kovic, Sergio Pausig, Marino Cassetti, Arrigo Buttazzoni, Roberto Kusterle. Da non dimenticare poi la galleria Il Torchio, punto di riferimento per molti artisti goriziani, Franco Dugo espose le sue prime opere proprio nel 1972, le iniziative della galleria Spazzapan, del Kulturni dom, del Bratuz, del Museo Civico del Territorio di Cormons, della Biblioteca Statale isontina, per arrivare alla galleria Comuna di Monfalcone, solo per citare i più importanti e ricorrenti tutt’ora. La scena artistica goriziana può contare ancora su un foltissimo numero di pittori, scultori, fotografi, che continuano a ben rappresentare il territorio, tra questi Roberto Faganel, Andrea Kosic, Massimiliano Busan, Alfred de Locatelli, Patrizia Devidè, Michele Drascek, Paolo Figar, Claudio Mrakic, Ernesto Paulin, Luca Suelzu, Alessandra Bernardis, Vittorio Balcone, Stefano Comelli, Giancarlo Doliach, Ignazio Romeo, Franco Milani, Paul David Redfern, Maurizio Frullani, Sergio Scabar, Franco Spanò, Raffaele Lecce, Stefano Ornella, Stefano Padovan, Enzo Valentinuz, Luisa Baccaglino, Marco Bernot, Andrea Colussi, Ivan Crico, Lia Del Buono, Paola Gasparotto, Maurizio Gerini, Laura Grusovin, Francesco Imbimbo, Gianpietro Carlesso, Silvia Klajnscek, Raffaele Lecce, Marco Faganel, Evaristo Cian, Marcello e Manuel Grosso, David Marinotto, gli scomparsi Nico Di Stasio e Roberto Nanut, solo per ricordarne alcuni. Accanto a questa nutrita lista di artisti, con alle spalle molti anni di lavoro, studio, esposizioni, ce n’è una ancora più lunga, impossibile da citare completamente, che raccoglie un numero impressionante di pittori, scultori, ceramisti, fotografi che si dedicano all’arte perché se ne sono appassionati magari dopo un corso o una mostra, o in seconda battuta, dopo una vita dedicata ad altro. Su questo fronte, punti di riferimento sono le associazioni come il Centro Culturale Crali, attivo ormai da diversi anni, che organizza numerose iniziative in cui promuovere i lavori artistici dei soci.

Cristina Feresin

lunedì 1 giugno 2009

Mario Benedetti. Il cielo per sempre


(Questo testo del '96, rimasto inedito, è stato pubblicato per la prima volta su "Mario Benedetti - official site")


Di sfuggita come tante altre volte - l’occhio a cercare freneticamente intorno un posto dove parcheggiare - tornai a intravedere la targa sulla casa di Michelstaedter mentre l’ombra della Chiesa di Sant’Ignazio, delle sue due verdi guglie laterali, si stendeva su Piazza Vittoria. Ero in ritardo. Sopra le case, in alto, il Castello di Gorizia avvolto nel crepuscolo afoso, torbido di luglio. Presso alcune mercerie ( negozi che qui, durante i giorni feriali, sono presi d’assalto da gruppi d’acquirenti frettolosi che arrivano d’oltre confine ) trovai un posteggio.
Poche decine di metri mi dividevano dalla libreria di Giovanni come ugualmente vicina, svoltato l’angolo, si trovava la casa dov’era nato e vissuto Graziadio Isaia Ascoli. Insigne studioso, in una città di frontiera dell’altro secolo in cui gran parte della popolazione parlava ancora il friulano, come il tedesco o lo sloveno, da questo estremo, silenzioso angolo del nostro paese riuscì a rivoluzionare gli studi di linguistica: nell’Italia, un’Italia appena unificata difatti, al Manzoni che vedeva nel fiorentino colto la lingua da seguire, L’Ascoli ribatteva che anche il fiorentino in fondo non era che un dialetto e che la sua considerazione avrebbe portato a non tener conto della storia linguistica italiana precedente. Contro l’astrazione di un italiano parlato da una cerchia ristretta di persone Ascoli difese, in questo modo, la realtà dialettale. E, attraverso questo, una visione estremamente moderna della lingua intesa come una realtà mobile, aperta, impura: ma che in questo aprirsi ad altre influenze denuncia la sua vitalità, la sua capacità di incarnare la varietà e le continue trasformazioni del reale.
Combattivo nel difendere le sue idee, studioso instancabile, fondatore dell’Archivio Glottologico Italiano e Senatore del regno, era inoltre, tra i moltissimi altri, in stretto contatto con poeti come il Carducci e Pascoli.
Non sembrava così strano, allora, ritrovarsi in quella piccola libreria, inconsapevolmente a novant’anni esatti dalla sua morte, a parlare della nuova poesia evocando le “Odi barbare”, molta dimenticata poesia di fine secolo, quasi per cercare, ripartendo da lontano, da una posizione eccentrica, strade poco battute per proiettarsi, con maggior forza, in avanti.
Incalzato da Gian Mario Villalta, Mario Benedetti, durante l’incontro, sembrava sottrarsi alle domande lanciando quasi casualmente, come fossero delle boutade, altri interrogativi, quasi che più della risposta importi quanto una domanda sia capace di creare nuove, ancora impensate domande. Aggiungere altri possibili punti di osservazione rispetto al problema.
Nel giorno già al termine fuori, uscendo nel buio, senza aver trovato una risposta ai propri interrogativi, ci si ritrovava in qualche modo cambiati; c’era stato come un balzo in avanti nel nostro pensiero, lungo il cammino si erano aggiunti nuovi sentieri, ponti per proseguire oltre. Gorizia, i suoi lunghi marciapiedi di pietra, lucidi sotto la luce dei lampioni, poche automobili, bar chiusi sempre troppo presto, si spalancava davanti, prolungata anch’essa, senza fine, nella notte.

I lineamenti fini, gli occhi di un celeste tenero. Mario Benedetti parla raramente. Sembra quasi, ad un primo incontro, poco interessato a ciò che gli sta succedendo intorno. Ma è soltanto un’impressione superficiale. In realtà, a volte dopo molto tempo, ci si accorge che i suoi silenzi sono il segno di un’attenzione profonda, di una curiosità che si esprime nell’ascolto, nello sguardo: particolari, anche minimi, frasi, nomi si imprimono nel suo ricordo con forza e, se capita di riparlarne assieme, di riferirsi a qualche occasione particolare, ci si accorge solo allora che fra tutti il più presente era sempre lui, il più apparentemente lontano.
Nato tra le colline di Nimis, in Friuli, Mario Benedetti vive da anni a Milano. Sul terrazzo di casa cerca un cielo scomparso. Un’aria irraggiungibile.
Torna spesso, appena può da queste parti, a trovare la sua famiglia. Con Donata, o da solo, approfitta di questi momenti per scoprire paesaggi sconosciuti. Paesi dimenticati tra le valli del Natisone, a cui si arriva per strade strette, accidentate. Le distese piatte della Bassa, con i pioppi nudi alla sera in un velo di nebbia. La gente, le tante genti diverse di qui. Con le parole ereditate, cariche di vita, che esplodono tra il fumo delle “private” come qui vengono chiamate le mescite stagionali di vino. Il profumo della landa carsica nel Terrano o del Traminer illimpidito dal gelo, come un discorso con questi luoghi mai interrotto, che si riapre.

Guardo vicino all’acqua l’acqua.
Quando dici erba piango,
quando nelle tue parole ci siamo noi e c’è tutto
l’avere incominciato da piccoli
qui in questa terra, dici, questa nostra terra...

Un rapporto profondo con la lingua, i luoghi, le persone su cui lo sguardo si è posato per la prima volta. Uno sguardo che, nel tempo, è andato spostandosi sempre più in là, lontano, intravvedendo e scontrandosi con problematiche profonde, sono la caratteristica più evidente - anche se non l’unica - del suo lavoro. Sono versi tratti dal suo primo libro di poesie e prose, “I secoli della primavera”, un libro il cui la parola, attraverso una dura e tesa scarnificazione del dettato lirico, tendeva ad avvicinarsi al manifestarsi della vita colta nel suo aspetto più nudo, anonimo, come a voler dar voce senza farle violenza a tutta quella infinita quantità di esistenze, di gesti e di paesaggi attraversati, destinata a non altro che a sparire, in silenzio: l’infanzia con i suoi tremori, la madre e il padre, le corse in bicicletta e il dischiudersi pieno di stupore nel vento, nei giorni, dei primi volti femminili amati.
Non si delineano risposte, rivelazioni in questi testi rapiti nel turbine dello sgomento di confrontarsi, senza nulla da opporre, al fluire degli anni che trascorrono cancellando, precipitando nella nebbia del ricordo ciò che fino ad un momento prima era tra noi, dentro di noi.
Eppure, lontana da ogni opaca immanenza, in queste parole che non parlano d’altro che di ciò che ci circonda, di una realtà umile, fatta di povere cose, si dilata fino a dissolverne i confini la percezione del mistero che le abita e in cui abitano. Le cose diventano allora il luogo in cui, da ogni direzione, il tempo precipita come sospendendole in un presente irreale, “un altro presente”:

E vedo - chissà dove - il bianco del soffitto, le porte che si aprono e si chiudono, soltanto più scure agli stipiti, dove tutto è presente: ciò che muore perché è ancora, perché rimane, perché continua ad essere...di nuovo all’angolo, dove le linee ripartono dal punto che conclude le pareti.

Il suo secondo lavoro invece, Una terra che non sembra vera, è un piccolo libro uscito nel 1996. Sono ventun poesie appena ma, già ad una prima rapida lettura, si ha da subito l’impressione di trovarsi di fronte a qualcosa di nuovo e di diverso rispetto al libro precedente e, insieme, a quanto offre in generale l’attuale produzione italiana.
Partendo ancora e sempre dalla vita quotidiana ad esempio - radicata profondamente nei drammi dell’oggi ma con vette d’intensità lirica inattese - senza nessuna retorica questa poesia sembra la sola tra le tante che sia riuscita a restituire fino in fondo, attraverso le parole, il dramma, lo sgomento della guerra oltre confine. Un dramma senza fine che, in Slovenja, Slovenja, emerge senza mai essere nominato ma solo alluso nei versi finali:

E’ venuto con i passi nell’erba,
è un vento che pensa e ha avuto un prato là
e scende, va così, e sale nella mummia del fieno il suo forcone.

Su, qui, Silvano Berra ricorda Franco che tagliava ieri i càrpini.
Io faccio fatica a dire chi sono perché non è più niente l’erba che capita.
Aspetto sul muro il muro per sedermi, di poter guardare qui davanti
il vento che è stato, i giorni che erano anche per me giornate di caldo.

La nonna malata, ma era sempre un po’ magra malata,
avvilita per le spese del funerale,
come fate, lo ripeteva alla mamma.
L’avevano portata con il carro all’ospedale e poi quando era venuta
tra quelle due finestre si era fermato.
Uno ubriaco l’aveva messa in spalla come un sacco, è morta così,
l’hanno messa in terra ma era morta.
Stava lì, nel suo vestito, con quello che si era visto sempre,
era buona, era una donna buona.

Piangi qua, borgo senza nessuno
carbone dei corpi e delle mucche
vestiti bruciati, visi neri
fumo delle carni e del fieno umido.

Un impressione di stupore e spaesamento insieme, accentuata anche dal fatto che la lingua di Benedetti non si discosta di molto da quella di ogni giorno: non troviamo, difatti, termini ricercati o preziosi, cari a tanti poeti; ed è quasi del tutto assente un uso sperimentale della parola teso, a scardinare il linguaggio proiettandosi - attraverso un ribaltamento dei significati convenzionali - in altre non ancora esplorate dimensioni del dire. O, meglio, il lavoro di Benedetti parte dall’interno della lingua e procede per vie nascoste, lievi ma decisivi interventi, “scarti minimi” (parafrasando il titolo della rivista fondata assieme a Stefano Dal Bianco), in modo tale che, almeno apparentemente, non vi sia una differenziazione così evidente rispetto alla poesia della tradizione novecentesca. Eppure pochi ad esempio, quasi nessuno forse, hanno saputo convogliare la lezione estremamente moderna di Celan - senza forzature - all’interno della poesia italiana come questo autore. Una poesia come “Marzo”, soltanto per fare un esempio, si presenta come una sintesi rara di questo lavoro sulla parola:

Un bianco dove non si mette niente,
di notte
si vede una pagina di Nerval,
il sangue di Esenin, una baita, la strada nuda di una frontiera,
un bungalow sulla costa.

Non è mai tornare se diventa che mi vedi leggero.
La mano attraverso le case è dirti guarda
e già ti sporgi sul mare.
E la primavera gira gli occhi nella primavera
se ti dico guarda quante eriche.

Difendimi, difendi questa notte bianca,
il giorno ripetuto nel pensiero.
Log, Ambleteuse,
colpi dei piedi sulla strada, facce piene di vento scuro,
i nostri visi nelle mani,
il vento negli occhi chiusi per pensarlo.

E un albero di fiori
sale sullo slargo con la marea
perché la mano è così, amore,
lei va alta tra i tuoi capelli.

Nella parola, maturata nelle lunghe veglie, trovano asìlo tutte le cose minacciate, la notte condivisa dagli uomini, di cui l’umano fa parte. Proteggere la notte, porla in salvo, è mantenere viva, alta nel vento scuro, la fiamma del mistero. Le molte vite scomparse, i molti volti senza nome di cui siamo la sola, quasi sempre inconsapevole, testimonianza. Attraverso la memoria con cui un presente proiettato solamente nel futuro, nell’affinamento sempre più disumanizzante della tecnica, tende a recidere ogni legame. Decretando, per i morti, abbandonati a se stessi, una morte ulteriore, definitiva se nulla, più, li congiunge a noi, alla nostra vita.
Il peso di un’enorme responsabilità, di cui l’uomo deve farsi carico, viene ricordato, esplicitamente o implicitamente, in tutti questi versi . Parimenti, in altre forme, un medesimo appello veniva lanciato nell’ultima, lacerata poesia in friulano di Pasolini “Saluto e augurio”:

Difìnt i palès di moràr o aunàr,
in nomp dai Dius, grecs o sinèis.
Mòur di amòur par li vignis.
E i fics tai ors. I socs, i stecs.

Il ciàf dai to cunpàins, tosàt.
Difìnt i ciàmps tra il paìs
e la campagna, cu li so panolis,
li vas’cis dal ledàn. Difìnt il prat

tra l’ultima ciasa dal paìs e la roja.
I ciasàj a somèja a Glìsiis:
giolt di chista idea, tènla tal còur.
La confidensa cu’l soreli e cu’la ploja,

ti lu sas, a è sapiensa santa. *

Nell’attimo in cui veramente capiamo come tutto ci sfugge, come noi sfuggiamo a noi stessi, cominciamo allora, per la prima volta, a comprendere quanto la sopravvivenza e la continuità delle cose può dipendere dal nostro volerle o non volerle custodire al nostro interno, garantendo loro - scomparse, sempre sul punto della cancellazione definitiva - uno spazio teso ancora ad accoglierle nel mondo. Dipende soltanto da noi - traghettandole con la nostra testimonianza verso il domani - se l’oblio assoluto avrà, o meno, il sopravvento.
Apparentemente - ma solo apparentemente appunto - rispetto ad altre ricerche più estreme questa poesia potrebbe allora forse apparire come un ritorno a forme e modi di esprimere più rassicuranti, come una sorta di riflusso, non riuscendo a trovare più alcun appiglio stabile, nell’alveo protettivo e materno di una realtà in cui questi riferimenti erano ancora intatti e vivi.
La frattura operata da Benedetti esiste invece; ma forse, per meglio dire, più che un distacco drammatico, un taglio netto, la sua è piuttosto da intendersi come una di quelle svolte decisive che accompagnano senza traumi, discretamente e senza il bisogno di doverlo manifestare, un passaggio naturale da un’età della vita ad un’altra, per cui non c’è più bisogno di dover attaccare il nostro passato per liberarsene e proseguire oltre. Questo passaggio è anche il risultato di una rara sapienza nel riuscire a costruire testi estremamente equilibrati, in sé conclusi, “classici” quasi, con una misura ed un senso del ritmo che nulla, però, ha a che vedere con la metrica tradizionale.
Versi in cui il tempo batte, silenzioso, in perfetta sincronia con quello attuale. Il che li rende quasi inavvertitamente familiari, vicini a noi, diversamente da ciò che accade con quanti credono (o sperano) di poter ristabilire un rapporto con il passato recuperando semplicemente forme già collaudate. Nate per altri, non più nostri, tempi.
La poesia di Benedetti - senza mai voler affermare nulla di definitivo, resa forte dalla sua a volte manifesta incapacità a dire - apre forse più di altre ricerche attuali un via, ancora percorribile e vera, verso il domani soltanto immaginabile della parola:


Mi sento nel giro che facevi a prendere la legna,
nel rumore del camion che va perché si possa entrare
in trattoria durante l’ora di pausa: nei pensieri
che accompagnano la terra da togliere nel cantiere.

Questo è lo sguardo che lo tiene, quando si va la sera,
e volendo ci si può chiedere com’è stata, che cosa, la giornata:
restare in una melodia o con un disegno più nervoso e impossibile.

Così mi penso nelle parole che risalgono il cortile,
dopo averti sentita nell’aria che ti affaticava: un po’ intorno
come una sera d’aria tra le pietre e sulla campagna.

Dove la neve è occuparsi di che cosa sono le erbe e i sassi,
rimanere sulle cose per un po’, nel bianco della neve:
con le piane che avevano il tuo sguardo grande,
tu che diventavi le giornate, lavoro e prati di un mondo.


Memorie e sguardi che si fondono nella luce smarrita di un unico, dilatato presente. Rivelazioni che sorgono ancora, anche dalle nuove poesie come questa, dall’ascolto di ciò che passa con noi, dentro di noi, e scompare, oltre una frontiera nascosta, inosservato. Intrattenibile. I muri strappati delle case che non ci sono, l’acqua sporca oltre le reti. I volti pieni di vento vivi fino a quando qualcuno continuerà, nel silenzio, ancora a pensarli.



Ivan Crico, 1996

* “Difendi i paletti di gelso, di ontano, / in nome degli dei, greci o cinesi. / Muori di amore per le vigne. / Per i fichi negli orti. I ceppi, gli stecchi. // Per il capo tosato dei tuoi compagni. Difendi i campi tra il paese / e la campagna, con le loro pannocchie / abbandonate. Difendi il prato // tra l’ultima casa del paese e la roggia. / I casali assomigliano a Chiese: / godi di questa idea, tienla nel cuore. / La confidenza con il sole e la pioggia, // tu lo sai, è sapienza santa”. Pier Paolo Pasolini, “Saluto e augurio”, p. 257.